Nino D’Uva, l’avvocato dei maxi processi
di Antonio Ludovico – Nell’immaginario collettivo dei siciliani, la provincia di Messina viene definita da sempre come la “provincia babba“, ossia quel territorio lontano anni luce da dinamiche e strategie di tipo mafioso, quasi una zona franca e libera da appetiti criminali. Nulla di più sbagliato, esattamente come una lettura distorta di un libro di storia. E la vicenda dell’avvocato Nino D’Uva sta qui a dimostrarlo, purtroppo, nella sua drammatica interezza. Infatti, a metà degli anni ottanta, l’Italia giudiziaria era travolta dai cosiddetti maxi processi, una sequela spasmodica di inchieste fiume – scaturite per lo più dalle dichiarazioni dei primi pentiti di mafia – che generavano maxi retate e, conseguentemente, dibattimenti elefantiaci con centinaia e centinaia di imputati alla sbarra. Contrariamente alla vulgata ricorrente, anche Messina – così come Palermo- ebbe in quegli anni turbolenti il suo maxi processo (a dire il vero fu il secondo, dopo quello “ai 69” qualche anno prima). Ed infatti, alla sbarra finirono ben 283 imputati, tutti gravitanti nell’area peloritana, accusati di associazione mafiosa e traffico di droga. E tutti assiepati nell’aula bunker di Gazzi, dove – raccontano le cronache di allora – poteva succedere di tutto: urla, schiamazzi, insulti, minacce e cose di questo genere. L’avvocato Nino D’Uva – un uomo raffinatissimo, colto, intelligente, spigliato come pochi, rappresentava ben 13 imputati ed era considerato da tutti un professionista dalla schiena dritta, un punto di riferimento, tant’è che assunse un ruolo che potremmo definire di raccordo tra la Corte e gli imputati. Nativo di Livorno, si trasferì con la famiglia a soli dieci anni in Sicilia dove si laureò a soli 21 anni con il massimo dei voti e scelse da subito la nobile professione forense, non disdegnando però di curare l’amore per la letteratura, il teatro, la pittura e l’arte in generale. Insomma, un uomo che non perdeva il suo tempo soltanto dietro i codici e gli atti processuali, ma che arricchiva il suo sapere spaziando i campi d’interesse nelle nobili arti. Tornando al maxi processo, c’è da precisare che quello che iniziò il 14 aprile del 1986, scaturiva dal famoso blitz della notte di San Paolino, dove furono arrestati personaggi famigerati come Gaetano Costa, detto “Facc’i sola”, amico di Raffaele Cutolo (protagonista in negativo di questa triste storia), Placido Cariolo, Carmelo Milone, boss di Barcellona, Lorenzino Ingemi e, in un clima letteralmente infuocato, il presidente Domenico Cucchiara riusciva a stento a mantenere l’ordine in aula. Basti pensare che qualcuno paragonò quel luogo ad un campo di calcio di periferia, visti i fischi, gli strepiti e le invettive che gli imputati rivolgevano al pentito Giuseppe Insolito, ma anche agli avvocati difensori, rei (a loro dire) di una strategia troppo morbida ed accomodante. Ed in questo clima di tensione, nel corso di un’udienza affollatissima, un imputato scagliò una scarpa proprio all’avvocato Nino D’Uva, colpendolo in pieno. Neanche a dirsi, quella era non una plateale rimostranza, ma il segnale che il killer attendeva tra le fila del pubblico per mettere a segno il suo terribile omicidio. Cosa che avverrà, tra le 19 e le 20, del 6 maggio 1986, nello studio del prestigioso avvocato messinese, in via San Giacomo, quando qualcuno bussò alla porta, entrò, prese un cuscino che utilizzò come silenziatore e, mentre D’Uva, era voltato di spalle, intento a fare una telefonata, gli esplose un colpo di pistola alla nuca stramazzandolo a terra. Poi, uscì dallo studio dove all’esterno c’era il complice ad aspettarlo a bordo di una Mini verde per fuggire via. Un’ora più tardi, di quel corpo riverso a terra in una pozza di sangue se ne accorse la colf che avvisò subito la Questura. Le indagini furono particolarmente complesse e, solo grazie all’ausilio di un pentito (Umberto Santacaterina), portarono all’arresto di un giovanissimo di soli 19 anni, Placido Dino Calogero, ma il mandante fu il terribile boss Gaetano Costa, l’ultimo vero padrino della mafia messinese, che da dietro le sbarre del carcere dell’Asinara (insieme ai suoi accoliti, in particolare il fidato Mario Marchese), ordinò altri sette omicidi riguardanti presunti sodali di una cosca agguerritissima e sanguinaria. Ma non finisce qui, poiché – 14 anni dopo – a seguito delle dichiarazioni di un altro pentito, Pasquale Barreca, si scoprì un’altra pista investigativa, quella che portava direttamente in Calabria, per la precisione a Melito Porto Salvo, regno incontrastato del boss Natale Lamonte, condannato a sette anni di reclusione dal genero di Nino D’Uva, il giudice del tribunale di Palmi Melchiorre Briguglio (marito di Giuseppina D’Uva, anch’essa magistrato presso lo stesso tribunale) in un processo nel quale l’avvocato messinese non accettò il mandato difensivo per evidenti ragioni d’incompatibilità. Storie che sembrano provenire da un passato remoto, ma che invece somigliano tanto a schegge e frammenti di una realtà che a volte riusciva nell’impresa di superare la fantasia. L’esempio di avvocati come Nino D’Uva ci rende comunque fieri di sentirsi parte della più nobile delle professioni, così come la sua straordinaria capacità di restare fedele ai valori del principio di legalità; princìpi che andavano oltre la tracotanza di taluni soggetti che pensavano di poter mettere a tacere quei capisaldi con l’uso della violenza. Nino D’Uva morì a soli 61 anni, un’età che si può tranquillamente considerare “giovane” per chi – come il professionista messinese – svolgeva il suo lavoro con grande passione, un’abnegazione assoluta ed una competenza riconosciuta da tutti. “Ricordare è fondamentale “sottolinea da sempre il figlio Gerardo ed è per questo che è nata – nel 2006 – un’associazione culturale forense che porta il nome del grande penalista e l’aula del Tribunale di sorveglianza di Messina è stata giustamente intitolata alla sua memoria. Per la cronaca: dei 283 imputati, ben 180 furono assolti con le formule più svariate, in un clima da autentica corrida, tra striscioni di protesta e tentativi palesi di ritardare la sentenza per arrivare alla scadenza termini; ma l’anima gentile dell’avvocato Nino D’Uva non riuscì mai ad ascoltare quel verdetto.
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