Oltre la norma

LA BIOGRAFIA DI BERNARDINO TELESIO: APPUNTI PER LA NASCITA DELL’EPISTEMOLOGIA PROBATORIA

Vicissitudini, opera, pensiero di Pantaleone Pallone* –  Il filosofo cosentino Bernardino Telesio (1509-1588) è indubitabilmente tra i grandi pensatori del XVI secolo europeo. È il secolo nel quale il diritto, la cultura e la politica scoprono in anticipo sui tempi la contemporaneità, allungandosi fino alla critica del potere e della legislazione che nei duecento anni successivi sfoceranno nelle rivoluzioni borghesi sul piano socio-economico e nelle codificazioni, su quello delle fonti giuridiche in senso stretto. Per il giurista il Cinquecento, che Telesio percorre fino in fondo, è contemporaneamente il periodo più maturo del consolidato metodo consuetudinario-compilativo (nel 1582 la Chiesa riorganizzerà la possente tradizione del diritto canonico in un Corpus Iuris che sistematizza le norme delle epoche precedenti) e la fase delle grandi transizioni, che dimostrano i limiti e i problemi del vecchio regime. A reclamare questa svolta è in primo luogo la giurisprudenza dei tribunali. Parallelamente alle autonomie comunali e statutarie che avevano segnato l’esperienza pratica del contenzioso, almeno dal Duecento in avanti – col ruolo delle università, dei mestieri, delle corti locali – la giurisdizione si era data i rudimenti di una vivace organizzazione periferica, basata sul principio della competenza territoriale. Quando nel XVII secolo i poteri mondani si rinsaldano, accentrandosi, gran parte di quel reticolato di usi, di prassi giudiziarie, di stylus iudicandi, andrà perduta: non così, però, le infrastrutture culturali immateriali che avevano forgiato l’esperienza del diritto e la cassetta degli attrezzi di una rinnovata professione forense. L’alluvionale produzione normativa locale è quella dell’Azzeccagarbugli di circa cent’anni dopo: un affastellamento disorganico di fonti, dove la scaltrezza dell’avvocato (un misto di capacità selettiva e rinvenimento delle norme opportune) deve drammaticamente tenere giunte esigenze pratiche e malversazioni decentrate, conflitto religioso – decisivo nelle controversie in materia di status – e affermazione di una dinamica mercatoria basata, mano a mano, sugli investimenti e sui rapporti di debito-credito. Da questo punto di vista, Telesio e la sua famiglia sono, come molti esponenti della società meridionale culta, ancora espressivi dei rapporti patrimoniali preesistenti: nobili di lignaggio, legati ancora alla civiltà dei titoli accordati dal potere regio o da quello ecclesiastico, non dalle obbligazioni o dall’amministrazione fondiaria produttiva. I fratelli del pensatore cosentino attraverseranno per intero questa articolata vicenda di contesto. Nel 1564, a dar ragione alla storiografia più accreditata, Pio IV offre a Telesio stesso l’arcivescovado di Cosenza: avrebbe voluto dire, per l’A., rinunciare all’attività di conferenze, dissertazioni e pubblici confronti che da decenni contraddistingueva l’esercizio della sua notevole capacità dialettica. Guardava al (ri)nascente mondo delle accademie, entità non riconducibili alla poi stantia dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato, e invece imbevute di aspetti dell’uno e dell’altro emisfero. Nate su impulso di un associazionismo privatistico meglio formato dello stesso ceto di governo, però in grado di svolgere una funzione almeno lato sensu collettiva, che da Napoli in giù dà vita a una brillante geografia politica di intervento culturale. Rispetto a questo scenario di grandi confronti su scala continentale, per Telesio scegliere la via curiale sarebbe stata una grande comodità, ma anche una dorata prigionia. Non va dimenticato che il Nostro nel 1554 è documentatamente sindaco dei nobili, il ceto locale vagamente cortigiano, che tuttavia non riesce a difendere il proprio lucro e ciò che resta del proprio feudo (qui inteso formalmente come organizzazione proprietaria nei regni meridionali). Quanto a spirito lucrativo, del resto, è il meno abile di tutti: aspetto non da poco anche per l’amministrazione ecclesiastica. Più avveduto, invece, nell’arte diplomatica, dal momento che lo sappiamo impegnato in missioni pontificie nel Napoletano già dagli anni Trenta: il suo rifiuto verso l’episcopato non è perciò visto con ostilità, spianando invece la strada al fratello Tommaso. Un altro fratello è ucciso dopo una sommossa dei vassalli nel 1579: accusato come luterano, sfiduciato dal suo più prossimo entourage, sarà uno dei tanti lutti nella vita di Bernardino Telesio. Un bagaglio di sofferenza di cui non si riviene traccia immediata nella sua opera più celebre, di contenuto prevalentemente scientifico-pistemico (De Rerum Natura Iuxta Propria Principia), ma che ha tanti capitoli dolorosi al proprio indice: la morte della moglie nel 1561, nonché l’omicidio dell’adorato primogenito Prospero nel 1576 (in cui Telesio stesso rivedeva probabilmente il sé nobile del mezzo secolo precedente). La famiglia Telesio subisce la temperie sociale del tempo in modo quasi barometrico: è un mondo che va sfaldandosi, pur godendo ancora di taluni privilegi (Telesio aveva preso gli ordini minori, al punto che in alcuni documenti è indicato come “chierico”), e proprio per questo diffusamente avversato dagli altri attori sociali. Una plebe crescentemente ostile, disagiata, sfruttabile, facile alle sirene dei disordini – nasce più o meno in questo periodo la figura dell’arruffapopolo, del sedizioso d’occasione che approfitta dell’onda lunga di scontri e malcontenti – e una alta borghesia alleata con quella parte del notabilato di nascita che impone la riforma del governo cittadino. La vita di Telesio trova nel suo percorso teorico-speculativo una singolare forma di simmetrica conferma: scontatamente testimonianza di un certo frazionismo e declino nobiliare la prima, pionieristico di una nuova effervescenza metodologica il secondo. Lo svecchiamento epistemologico che i grandi pensatori come Bruno, Campanella e Telesio impongono al dibattito europeo ne decreta la fortuna nell’utilitarismo, nell’empirismo, di lì a breve nel pensiero illuministico (non solo anglofono). Si è obiettato che a Telesio, rispetto ai filoni intellettuali che lo eleggono a modello e a riferimento (in primo luogo, Bacone), mancherebbe il profilo di una specifica presa di posizione in senso politico. In realtà, la questione politica nel pensiero telesiano è meno collaterale di quanto appaia, attestandosi a un’analisi quantitativa delle proposizioni dedicate al governo della città e al sistema preferibile di amministrazione. Innanzitutto, il Nostro è testimone, piuttosto precoce, di un evento che segnerà nell’immaginario collettivo in profondità tutto il secolo: il sacco dei Lanzichenecchi nel 1527, in cui è il filosofo stesso a venire catturato. Nella mentalità diffusa, quel sacco ricorda l’omologo del 410, così fondativo nell’opera di Sant’Agostino e, in particolar modo, nel De Civitate Dei. Politica tuttavia è anche la postura intellettuale telesiana. Una critica avversativa che

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LA GIUSTIZIA PREDITTIVA TRA MITO E REALTÀ

di Roberto Staro* –    Premessa: La dottrina già da diverso tempo si confronta sul tema dell’intelligenza artificiale e della sua interazione con il settore giuridico, in particolare ponendo attenzione sull’attuale primordiale gestazione di un panorama normativo di riferimento – sia a livello comunitario che nazionale – e sui risvolti già presenti nella pratica, anche in ambiente giurisprudenziale. Invero, nonostante per alcuni sia considerato di improvvisa attualità a causa dell’ormai degenerante invasione nella realtà quotidiana di svariate forme di IA, la comunità dei giuristi e degli operatori del diritto sta ormai maturando la consapevolezza che, più di altri settori della vita e della quotidianità, la rivoluzione tecnologica dell’IA coinvolgerà, fino a stravolgere, non solo le dinamiche della vita privata ma, ancor più, la formazione del libero pensiero e finanche l’autonomia decisionale propria del ragionamento umano. La tentazione di affidare ad una macchina – rectius, ad un algoritmo – la “fatica” di una decisione ovvero la sintesi tra molteplici fattori e soluzioni (scegliendo, come si vedrà infra, su un calcolo probabilistico ma vincolato alle informazioni di partenza) è sempre più evidente e, nel volgere di pochi anni, apparirà inevitabile laddove non si riuscirà a vincolarla a parametri rigidi nei quali l’esperienza umana e la maturità di ragionamento dovranno essere tutelati. Orbene, il presente articolo si propone di seguire le linee direttrici già tracciate su questa Rivista[1] e, si spera, di offrire nuovi spunti di riflessione, ponendo tuttavia l’accento tra la velocità della dinamica evolutiva di questa nuova tecnologia, e della conseguente sempre maggiore interazione con ogni settore del diritto e della applicazione pratica dello stesso, ed il rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento e della centralità del valore dell’uomo. Non v’è dubbio, del resto, che l’accesso così facilitato ad una tecnologia di tipo predittivo (ossia capace di generare pensieri autonomi o di eseguire ragionamenti deduttivi e non soltanto algebrici) sia assai rischiosa ove posta a confronto con la necessaria evoluzione positiva del diritto, e cioè con la capacità di quest’ultimo di modificarsi secondo le diverse esperienze dell’uomo ma sul presupposto del rispetto dei diritti fondamentali. Laddove poi questo tipo di ragionamento sia diretto a valutare i vantaggi ed i rischi, se così si può dire, dell’utilizzo dell’IA nel processo penale, si comprende con plastica evidenza quanto tale argomento sia delicato e non possa perciò cedersi ad una brusca abdicazione del ragionamento cognitivo e deduttivo ove vi sia pericolo per la salvaguardia del bene più prezioso: la libertà individuale.   L’IA come un oracolo? La possibilità di predire il futuro è un desiderio con il quale l’uomo ha combattuto da sempre perché è intimamente connesso alla curiosità di conoscere ciò che l’aspetta ed il timore di non saperlo affrontare. Nel passato, tale debolezza umana trovava il suo compimento nell’oracolo a cui chiunque, dal più forte al più debole, affidava le proprie scelte e sul quale misurava le proprie azioni. Nella mitologia, tuttavia, il vaticinio era per lo più connesso alla sventura e, lungi dal prevedere il futuro, condizionava esso stesso l’agire di chi vi si rivolgeva, con il paradosso di non predire ma di indirizzare. È di questo tipo, ad esempio, l’interpretazione proposta da Cassese delle tragedie di Edipo e Antigone[2]; è la conoscenza del futuro, prima che esso accada, ad innescare il corso di azioni che condurrà alla hybris tanto del padre quanto del figlio che, così facendo, per evitare il vaticinio metteranno in opera una serie di azioni che lo realizzeranno. Il desiderio di conoscere il futuro, e per certi versi di governarlo, è un’angoscia che non ha abbandonato l’uomo il quale, seppur con formule di volta in volta più nuove, continua la ricerca di una soluzione a tale istinto primordiale. A differenza dell’oracolo, la moderna IA contiene in sé il simulacro della razionalità e, quindi, potrebbe apparire più rispondente alle esigenze umane rispetto alla “magia” di un essere dotato di poteri di chiaroveggenza. Il dubbio amletico è se la logica quantistica ed il principio di autodeterminazione dell’IA possano sostituire l’uomo nelle sue scelte, tanto rispetto al proprio di futuro quanto a quello degli altri. Il comportamento umano, le sue scelte e decisioni, tuttavia, non sono determinabili con le stesse leggi con le quali si comprendono i fenomeni fisici o chimici o con cui rispondono le regole matematiche; alla possibilità di predire con esattezza il comportamento umano si è sempre opposta una caratteristica tipica dell’evoluzione dell’uomo: la libertà (intesa anche come imprevedibilità ed eccezione rispetto al binomio causa-effetto). L’essere umano non è mai soltanto il prodotto deterministico delle sue stimolazioni biochimiche o neurofisiologiche, né tantomeno il risultato necessario delle condizioni socio-economiche o ambientali in cui vive. Oggi non sarebbe possibile tollerale che una scelta venga affidata ad un oracolo il quale, per definizione della mitologia, ha sempre ragione pur non dando mai ragioni. Eppure, si è disposti con facilità a cedere all’agio di una decisione operata da un algoritmo predittivo al quale sono attribuiti (sbagliando, come si vedrà infra) i requisiti di terzietà, imparzialità e predeterminazione.   IA e Costituzione: Proprio sulla scorta dei principi da ultimo richiamati, la necessaria premessa di ogni ragionamento circa l’applicabilità dell’IA alla sfera dell’esercizio della giustizia non può prescindere dalla corrispondenza di tale tecnologia con il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti nella Costituzione. Non v’è dubbio che l’argomento sia così vasto da non poter essere sviluppato sufficientemente in questo breve articolo. Ci si limiterà pertanto a proporre le tre principali aree di rischio maggiormente di interesse nella connessione tra utilizzo dell’IA e amministrazione della giustizia: il principio della sovranità popolare (art. 1): la matrice democratica su cui si base la nostra architettura costituzionale, come è noto, non si può ridurre semplicisticamente al concetto di moltitudine e di rispetto della volontà popolare (intesa alla stregua di maggioranza da contrapporsi al potere dispotico di uno soltanto o di pochi), bensì contiene in sé un significato più penetrante al quale appartiene, tra l’altro, il rispetto per le minoranze e la cultura delle diversità. Al fine di comprendere la portata potenzialmente deflagrante dell’IA

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ANCORA QUALCHE RIFLESSIONE SU PRINCIPI DEL DIRITTO PENALE LIBERALE E ATTUALE SISTEMA PUNITIVO.

  di Nicola Mazzacuva* –  Risulta del tutto agevole avvertire oggi, nella materia penale, un singolare ‘distacco’ tra i principi fondamentali frutto di una secolare elaborazione scientifica e l’attuale sistema punitivo. Costituisce, invero, criterio generalmente riconosciuto quello che porta ad orientare la disciplina giuridica di ogni attività di rilievo sociale sulla base del sapere scientifico via via affermatosi nei singoli settori di riferimento. Le indicazioni di volta in volta fornite dagli esperti rappresentano, invero, il fondamento primario di ogni intervento normativo affidato al legislatore ovvero al soggetto istituzionale comunque deputato ad occuparsi delle più diverse regolamentazioni positive in attuazione dei canoni elaborati in ambito scientifico. Si può convenire che anche nel settore penale il pensiero degli studiosi abbia orientato (quantomeno da Beccaria in poi) le scelte del legislatore nella costruzione di un ordinamento rispettoso di taluni basilari principi delimitativi della potestà punitiva. I valori e i postulati del “diritto penale liberale“ vengono a coincidere, sostanzialmente, con quelli del “garantismo”, che può essere considerato un’evoluzione e un precipitato tecnico dell’ideologia liberale applicata al diritto penale. Persino nel periodo dello Stato autoritario il nuovo codice penale (espressione del regime appena affermatosi) conteneva, proprio nello sue norme di parte generale, ben note previsioni di limitazione e garanzia a tutela del “suddito”, nonché la disciplina di istituti (ad. es., amnistia, indulto e prescrizione) comunque orientati ad una possibile eliminazione ovvero riduzione delle conseguenze penali di un fatto (pur) previsto come reato. E, dopo la caduta di quel regime, la dottrina penalistica italiana dell’epoca rivendicò la propria opera svolta a salvaguardia dei principi fondamentali, riconosciuti appunto ormai come assolutamente basilari in ambito scientifico (v, per tutti, G. LEONE, La scienza giuridica penale nell’ultimo ventennio, Aerch. pen., 1945, p. 23 ss.). Principi affermati, poi, nella Carta fondamentale rappresentando, così, esito davvero significativo della prima approfondita lettura costituzionalmente orientata del diritto penale quello volto a segnalare la “superiore” esigenza di una limitazione dell’ordinamento punitivo (F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., 1973, p. 7-93). Successive indagini hanno puntualmente sottolineato che proprio nell’apparente «insufficienza» sta «la vera “forza” del diritto penale, il suo irrinunciabile ancoraggio garantista» completato «dal collegamento con la dogmatica del bene giuridico: tutela selettiva di beni individuali protetti soltanto da modalità di lesioni “qualificate”, “tipiche” e   “tassative”», denunciandosi già da tempo l’ipertrofia del diritto penale e la necessità di una decriminalizzazione dei reati bagatellari (C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, Padova 1985: il brano citato si trova a p. 161). Secondo quanto veniva, poi, declinato da altra autorevole dottrina «l’obiettivo politico principale dell’approccio costituzionalistico» consisteva «nella riduzione dell’area penalmente rilevante in vista dell’attuazione del principio di extrema ratio: tutti i vincoli che esso ha inteso porre all’attività del Parlamento – pericolo concreto, beni di rilevanza costituzionale, tassatività, riserva assoluta di  legge, colpevolezza, abolizione delle contravvenzioni – erano fondati sull’esigenza di giustificare il principio di sussidiarietà, di rendere operativo quel disegno politico» (M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004 p. 72). Così, un diritto penale costituzionalmente orientato può, in effetti, essere considerato «un diritto penale razionale» in quanto «si radica nell’esigenza di una delimitazione ‘critica’ dell’autorità punitiva» (CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di diritto penale, Bologna, 2017, p. 40). Considerando, però, la situazione attuale della ‘legalità penale’ si può senz’altro convenire sul fatto che il nostro sistema positivo risulta sempre più sommerso da un’incontrollabile moltitudine di norme incriminatrici – evidenziando, così, un singolare (e netto) contrasto con le diverse acquisizioni/indicazioni scientifiche del tutto dominanti –  che rende impossibile non solo conoscere tutti i reati “legalmente” previsti, ma financo calcolarne l’esatto numero. Mi riferisco, appunto, all’enorme quantità di figure criminose che connota ormai l’immensa (neppure precisamente “quantificabile”: il che risulta davvero incredibile e allarmante) parte speciale del diritto penale. Davvero molto interessante ed approfondita risulta, da ultimo, un’ampia e documentata indagine, dal titolo immediatamente “provocatorio” (A. CADOPPI, Il “Reato penale”, Napoli, 2022), ove si esaminano puntualmente gli esiti attuali del processo definito di “overcriminalization”: esiti che non è possibile qui (neppure sinteticamente) riassumere. Anche e proprio per il suo “gigantismo” può essere ribadito che, in effetti, la parte speciale rappresenta il “vero e proprio diritto penale”: tutt’altro che minimo; tutt’altro che extrema ratio. Soluzioni orientate ad una maggiore punizione contraddistinguono ormai anche il diritto penale applicato nel momento di commisurazione della pena. Del resto, l’ampliata possibilità di applicazione di una “pena carceraria” costituisce il (quasi obbligato) esito di interventi legislativi aventi ad oggetto spesso soltanto l’incremento del trattamento sanzionatorio ovvero comunque finalizzati ad impedire l’applicazione di misure alternative al carcere. Un diffuso aumento delle pene edittali connota, invero, le più recenti novelle legislative in materia penale allo scopo dichiarato di ottenere (quasi soltanto) per questa via consenso “popolare”. Ed i nuovi (più elevati) moduli sanzionatori – le (così definite)  “pene elettorali” – provocano necessariamente ulteriori applicazioni di detenzione carceraria: sia in fase cautelare, sia quale pena definitiva. E così si perviene ad un singolare esito neppure immaginabile nello sviluppo “scientifico” del diritto penale liberale (poi anche) orientato ai valori e ai principi costituzionali. Lungi dal muoversi nella prospettiva del diritto penale minimo (ovvero – se si vuole – della riserva di codice), l’attuale fase ben si può definire come quella del “diritto penale massimo”. Le odierne politiche penali populiste non si preoccupano di eventuali garanzie per il reo (altro che diritto penale come “Magna Charta del reo” come voleva von Liszt), ma tendono proprio a sacralizzare la vittima. Lo stato non si sostituisce più alle vittime, ma si identifica con esse, se non altro per scongiurare qualsiasi “complicità” sospetta con il reo; mentre proprio il passaggio dal diritto penale privato – di impronta vendicativa – al diritto penale pubblico è avvenuto proprio attraverso la cd. “neutralizzazione” della vittima. Occorre, inoltre, sempre rimarcare il totale abbandono di ogni prospettiva di una (invece assolutamente necessaria) lettura ‘integrata’ dal diritto penale, coniugato, appunto, con gli altri saperi (anzitutto quelli criminologici e sociologici) che trattano la ‘questione criminale’. Così la criminalità «non è [più] oggetto di conoscenza in una prospettiva causale e quindi, alla fine, cessa di

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OGNI MODELLO HA BISOGNO DEL SUO INTERPRETE

di Francesco Petrelli* –  Delle diverse argomentazioni utilizzate nel tempo al fine di negare la necessità di separare le carriere – dall’idea del “pm-superpoliziotto”, alla perdita della “cultura della giurisdizione” – ultima in ordine di tempo è quella relativa al numero di assoluzioni e di riforme che statisticamente si riscontrerebbero nei giudizi di merito. Circostanza questa che, secondo i sostenitori dello status quo, dovrebbe dimostrare l’ampio margine di indipendenza del giudice dalla figura del pubblico ministero. L’alto numero di assoluzioni dimostrerebbe che le carriere sono “di fatto” separate in quanto il giudice non asseconda affatto le richieste del pubblico ministero e non ne condivide la cultura. Questa idea si fonda su di una banalizzazione della prospettiva riformatrice e su di una visione del processo e dei suoi soggetti piuttosto azzardata. L’assunto presupporrebbe infatti una sostanziale indifferenza del giudice nei confronti della prova ed una sua libertà valutativa tale da prescindere del tutto dal contenuto dell’evidenza disponibile.  Ciò che si propone è l’idea piuttosto bizzarra di un giudice che solo per “amicizia” nei confronti della figura del pubblico ministero condanni degli innocenti. Il che evidentemente non può darsi perché il processo ha una sua oggettiva esistenza e – salvo casi patologici che non devono mai condizionare un giudizio critico – segue un suo percorso razionale. Ciò che piuttosto accade è che laddove la prova sia incerta e la questione, in fatto o in diritto, controversa il giudice non adotta quasi mai la regola del “ragionevole dubbio”. E ciò accade proprio perché quest’ultimo è rimasto legato ad una cultura fortemente promiscua con quella pubblico ministero, lontana da quella “cultura del limite” che dovrebbe caratterizzare l’atteggiamento del giudice terzo.   Il fatto che un cospicuo numero di sentenze sia oggetto di riforma in appello, sta a dimostrare che quanto più ci si allontana dalla pressione del pubblico ministero e della sua pretesa punitiva, maggiore è l’indipendenza del giudice dalle posizioni dell’accusa.   È tuttavia indubitabile  che l’unicità della cultura di giudice e pubblico ministero, sviluppata solo a scapito dell’indipendenza del primo ed a favore dell’egemonia del secondo, si avverte in particolare nella fase fondamentale delle indagini preliminari, nell’ambito della quale il giudice tende a condividere l’impostazione dell’accusa: lo fa adeguandosi alle richieste di proroga delle indagini senza operare alcun serio controllo sui motivi che la giustificano, accogliendo le richieste di autorizzazione delle intercettazioni e le relative richieste di proroga, eludendo con motivazioni prive di autonomia le pur stringenti condizioni previste dalla legge, ed analogamente aderisce alle richieste cautelari sia quanto alla sussistenza dei presupposti probatori che delle esigenze cautelari, facendo larghissimo uso della custodia in carcere anche laddove altre misure potrebbero risultare adeguate. Non può non cogliersi, in questa dinamica, l’intrinseca inefficienza delle cd. “finestre di giurisdizione” (così come incrementate dalla riforma Cartabia) destinate al fallimento anch’esse laddove da quelle finestre non si “affacci” un giudice effettivamente terzo. Ma occorre riconoscere che la forza egemonica del pubblico ministero si esercita con analogo vigore anche nella fase processuale ogni qual volta l’oggetto del processo, superando lo standard degli ordinari affari giudiziari, imponga un qualche particolare impegno delle procure, per via della rilevanza politica del reato o perché l’oggetto implichi un qualche interesse mediatico. In tutti questi casi la terzietà del giudice è evidentemente compromessa, in quanto la posta in gioco spesso trasforma il giudice in un “giudice di scopo”. Il che accade certamente in tutti i processi di doppio binario, ma anche in tutti quei casi nei quali il giudice è chiamato dalle procure procedenti a svolgere una azione di contrasto a questo o a quel fenomeno criminale, ad una presunta nuova mafia locale, ad una corruzione diffusa, ad un grave reato ambientale … In tutti questi casi si avverte indubbiamente il peso di una mancanza della terzietà. Collocati entrambi sul medesimo fronte ed all’interno di una medesima trincea nella quale si combatte il male, giudice e pubblico ministero sono impegnati contro un nemico comune. La terzietà che, a maggior ragione in questi casi nei quali altissima è la posta in gioco dei diritti di libertà e delle garanzie del cittadino, dovrebbe caratterizzare la posizione del giudice, subisce una inevitabile torsione. Tanto ciò è vero che quando in alcuni casi il giudice si sottrae con i propri provvedimenti alla pressione dell’accusa la vicenda finisce con l’assumere addirittura un risalto mediatico. Non è infatti solo la decisione finale che deve essere oggetto di rilievo, in quanto è nel corso del processo, con la gestione delle udienze, con le decisioni sulla ammissione della prova, con i propri interventi nel corso degli esami testimoniali, che il giudice dà modo di far rilevare la mancanza della terzietà. Ed è ovvio che l’esito finale del processo, la sentenza, è il frutto di tali ulteriori decisioni e di questi interventi che condizionano evidentemente la formazione della prova nel corso del dibattimento. Insomma, l’esigenza della terzietà non si misura banalmente con il numero delle assoluzioni, ma attraverso valutazioni più serie, analizzando piuttosto i modi attraverso i quali le decisioni maturano nelle diverse fasi del processo e nelle più complesse cadenze del giudizio, nell’ambito delle quali il cittadino imputato avverte tutta la sperequazione dei modi con i quali il giudice troppo spesso gestisce le udienze. Se, dunque, il recupero del modello accusatorio si pone come una riforma indispensabile ed ineludibile, quest’ultimo risulta a sua volta inattuabile a carriere invariate. Non vi è dubbio, infatti, che se le carriere uniche hanno offerto una base ideologica e culturale del tutto coerente con il processo inquisitorio, le stesse hanno successivamente costituito un insormontabile ostacolo alla effettiva realizzazione del nuovo modello.  Ogni modello processuale ha, infatti, bisogno del suo interprete e l’interprete del modello accusatorio è il giudice terzo. Si tratta di un paradigma che sta scritto nella nostra Costituzione e che attende da troppo tempo di trovare attuazione in una compiuta riforma. Senza questo nuovo giudice ogni riforma che voglia restituire coerenza al modello accusatorio resterà una vana speranza. *Presidente Unione Camere Penali Italiane (Da “Editoriale”, pubblicato sul numero 1 di “Ante Litteram”, rivista

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LA GOGNA

di Alessandro Barbano* Perché la giustizia in Italia non cambia mai? Perché gli errori si ripetono, i ritardi incancreniscono, le riforme saltano o, quando pure si fanno, risultano irrilevanti? Per questa domanda ci sono due risposte collegate tra loro. La prima riguarda la distanza dei cittadini dal problema. La giustizia è percepita come una cosa di altri, salvo poi scoprirne l’insostenibile prezzo quando se ne viene direttamente a contatto. La seconda dipende dal modo con cui la giustizia viene amministrata, e cioè dal suo arroccamento in un fortino dove si consolidano regole e logiche diverse e talvolta opposte a quelle della vita, e dove tutto può accadere senza che nessuno sappia, o piuttosto venendosi a sapere l’opposto di ciò che è accaduto. È il caso che qui si narra e si analizza: il complotto dell’Hotel Champagne, la storia di un gruppo di magistrati e politici che vuole mettere le mani sulla Procura di Roma, di un’inchiesta giudiziaria che smaschera i congiurati, di una magistratura che mette alla gogna ed espelle, ripristinando l’onore perduto. Sennonché questa versione non sta in piedi. Troppi segnali dicono che lo scandalo non è nella realtà, ma nel suo racconto rovesciato. Perché pretoriani e congiurati altro non sono che due fazioni l’una contro l’altra armate. Ed è una lotta senza risparmio di colpi, dietro la quale si mostrano tutte le incompiutezze legislative, gli azzardi investigativi, le forzature istituzionali, le ipocrisie giudiziarie che un potere malato può produrre. Se una simile storia è potuta accadere, è perché si è svolta in una zona mal sorvegliata della democrazia, nell’inconsapevolezza e nel disinteresse dei cittadini, e dietro il racconto falso di uno scandalo. Non è la prima volta che capita nella storia repubblicana. Quando l’Italia è stata vicina a toccare il fondo, è scattata spesso nel discorso pubblico la tentazione di rimuovere la verità, di ridurla, di ribaltarla nel suo contrario. È accaduto con il sequestro di Aldo Moro e con l’idea di una fermezza che liquidò come insensato l’appello alla trattativa dello statista dal- la prigione delle brigate rosse. Si è ripetuto con il deragliare del finanziamento pubblico ai partiti e con l’illusione di regolarlo assoggettando la politica alla magistratura di Mani Pulite. È proseguito con le stragi di Falcone e Borsellino e con la ricerca di una verità ritagliata sulle bugiarde rivelazioni del pentito Scarantino. Non si sottrae a questa tentazione mistificatrice la crisi più acuta della giustizia, il complotto nel cuore del Consiglio superiore della magistratura, culminato nella rimozione di Luca Palamara. Quando il meccanismo che governa le lottizzazioni tra le toghe si inceppa e rivela la sua insostenibilità, il racconto dello scandalo del Csm serve a giustificare il ripristino dell’equilibrio perduto. E tutto sembra cambiare perché tutto torni come prima. I quattro casi qui citati hanno tempi, contesti, cause e conseguenze diverse, per natura e per gravità. Ma hanno un elemento in comune: dietro queste apparenti rivoluzioni di sistema c’è, in controluce, un cambio di potere o una restaurazione. O tutte e due. Vuol dire che la democrazia finge uno scatto in avanti, ma in realtà fa un passo indietro o, nel migliore dei casi, resta immobile. Con l’analisi di una vicenda estrema, questo libro vuol dimostrare che cosa si può arrivare a fare nel nostro Paese con un’inchiesta giudiziaria, e quanto un racconto che divorzia dalla realtà può allontanarsi da ciò che pure chiamiamo «giustizia». *giornalista, saggista (Pubblicato sul n.0 – “Ante Litteram” – dicembre 2023)

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MAFIE E RELIGIONI. METODI, EQUIVOCI, STORIA

 Domenico Bilotti (*) Nonostante autorevoli opinioni scientifiche sottovalutino la significatività del dato, l’agire mafioso ha a che fare con l’occupazione e l’usurpazione dei meccanismi di guadagno e di circolazione economica della società borghese[1]. Non c’è stata, in questo senso, nessuna specifica transizione, nessuna intenzionale evoluzione, perché il programma costitutivo del pactum scelerum ha sempre a che fare con un profitto strumentale. Per certi aspetti, perciò, le mafie si basano sulla normalizzazione e sulla razionalizzazione (meglio: sulla funzionalizzazione al profitto strumentale) della violenza. Non crei scandalo questo evidente corollario metodologico: la violenza è descritta, concretata e controllata da chi la esercita[2]. Questo esercizio peraltro, si tratti di soggetti pubblici o privati, leciti o illeciti, è strettamente connesso al programma e, conseguentemente, allo scopo che tramite il programma vuole realizzarsi. La linea di metodo nell’associazione mafiosa è molto chiara, sebbene presentino ancora pari interesse le letture che trattano della mafia come attore economico con tendenze egemoniche e che si interrogano sulla specifica scaturigine sociale del gruppo di appartenenza. Ci si permette soltanto di rimarcare come tali letture analizzino gli effetti, le diverse articolazioni contingenti, non il dato di fondo inscritto anche nell’accezione codicistica dell’associazione per delinquere di stampo mafioso: omertà e assoggettamento sono in radice componenti ontologiche dell’agire mafioso, a prescindere dalle modalità (più o meno concrete) che possano inverarle[3]. Nell’accostarsi alle organizzazioni criminali, c’è, di più, un sotteso sguardo dubitativo dell’interprete, che cade costantemente nel rischio di mitizzarne, espanderne e dissolverne i contorni, creando così il pericoloso paradosso che più si denuncia in genere la mafia e meno si riesce a darvi veste giudiziaria probante. All’interno di questa tecnica d’analisi, uno dei temi più incisivi è quello relativo all’uso simbolico della semantica religiosa nella struttura interna delle associazioni mafiose. È più prosaicamente da osservare come le mafie abbiano sempre saputo misurare, persino più degli organi statali che istituzionalmente si contrapponevano ad esse, i canali atti a garantire la coesione, la coercizione e il consenso. La mafia riesce, in sostanza, a creare un ambiente mafioso perché si basa su una saturazione compartimentata dei territori in cui agisce, ricorrendo anche all’abuso delle loro istituzioni culturali, se utili allo scopo. In questo campo, si sono fatti essenzialmente errori di due tipi. Si è creduto che la legittimazione parareligiosa della gerarchia mafiosa fosse fatto tipico delle organizzazioni italiane e che tale simbologia meritasse specificamente di essere investigata secondo il calco di canoni ermeneutici del diritto liturgico (affiliazioni, cariche, sanzioni). Il riduzionismo e l’assimilazionismo sono profondamente simili nel lavorare, in forme opposte, l’oggetto dello sguardo: nell’un caso lo rimpiccioliscono discrezionalmente, nell’altro lo dilatano fino a fargli coprire completamente l’obiettivo della camera. La realtà more solito non tollera né lo zoom né le inquadrature alla distanza: abbisogna piuttosto di una sana aderenza ai contorni della sagoma che è nel mirino. Quanto al primo aspetto, v’è forse da rimarcare la perdurante attualità di un indizio euristico individuato da Santi Romano[4]. Quegli sosteneva che anche la mafia fosse un ordinamento giuridico, senonché non pensava realmente a una statualità mafiosa: ordinamento giuridico “interno”, semmai, in quanto sistema normativo fondamentale che diventa istituzione durativa. Per secondare e implementare questo processo la componente rituale è fortissima: l’emulazione della lessicologia religiosa è stata perciò un formidabile formante aggregativo. Salvo che essa si è tuttavia saputa mescolare a qualsiasi orizzonte semiotico implicasse la coesione, la segretezza, l’ineluttabilità, l’avversione a tutto quello che non ne facesse parte. È innegabilmente vero che la “Sacra corona unita” rinvia a una sacralità dogmatica[5] e che le organizzazioni hanno sovente nei propri gradi “sacristi” e “vangeli” – cariche che si attribuiscono azione nella verità e verità nell’azione. Ciò non toglie che sin dalla loro origine le mafie autoctone italiane abbiano poi saputo prendere spunto dal patrimonio simbolico di qualunque forma di associazionismo segreto e parallelo: sette, confraternite, ma anche logge e associazioni carbonare. L’affiliazione massonica è in Calabria tratto distintivo dell’appartenenza e della contiguità ‘ndranghetistica da almeno un quarantennio: anche lì, però, il vincolo è strumentale e circostanziato; per nulla generalizzato o generalizzabile[6]. E così pure è avvenuto in Sicilia, in primo luogo nel Trapanese e nel Palermitano. Quanto al secondo punto, tutte le organizzazioni sulle quali si riesce a identificare il carattere di mafiosità, nazionale o internazionale che sia, rimandano costantemente a una ritualità indisponibile e a una sorta di blasfemia ultra-mondana, che si prende i simboli del cielo per seminare il panico in terra. L’Organizacija russa lo esprime attraverso i tatuaggi rituali e probabilmente, vistane la diffusione, se un codice originario unitario esisteva, è destinato a divenire più instabile, più evanescente, meno omogeneo[7]. Il corpo dei “ladri nella legge” non lesina templi, madonne e rosari – a un livello non intenzionale, sibbene meramente contestuale, la grandissima eredità visiva dell’iconografia ortodossa russa permea potentemente. Persino nelle culture non teistiche le mafie esprimono una caratteristica attitudinale rivolta alla capacità obbligante del rito, anche di quello ludico e non solo solenne. Nel primo senso, sia sufficiente il rimando alla Yakuza giapponese, il cui nome traduce in lingua nipponica il punteggio più basso di un gioco clandestino. Nel secondo, è notorio il caso delle Triadi cinesi. I riti affiliativi (perlomeno quelli locali) rimandavano al filosofo dell’arte militare Guan Yu. Quella branca del pensiero politico cinese ha sempre avuto una forte componente speculativa, metafisica, cosmologica. E codici e cariche interne della Triade ricalcano apertamente numeri e valori dell’I Ching, tra i più classici testi cinesi di spiritualità: per quanto questi rimandi siano opportunistici e devianti, essi conformano in profondità la modulazione del sodalizio[8].  Si traggano ora le conclusioni di quanto affermato. La simbologia religiosa è tradizionalmente usata dalle mafie autoctone italiane per tramandare regole, comportamenti e ruoli delle proprie realtà associative, ma non è l’unica. Ogni forma di comunicazione simbolica che saldi la struttura (anche ove scopertamente irreligiosa) è utilizzata se ha dimostrato di realizzare lo stesso scopo. Questo trasferimento metaforico non è un fenomeno solo italiano: appartiene, almeno empiricamente, a tutte le associazioni cui è stato attribuito ex post carattere di mafiosità. Ex ante, invece, non sarebbe possibile, perché a

MAFIE E RELIGIONI. METODI, EQUIVOCI, STORIA Leggi tutto »

IL PARADIGMA LIBERALE NEL DIRITTO PENALE: UN REQUIEM EVITABILE?

di Francesco Iacopino* – L’editoriale del n. 0 di Ante Litteram che, in questo primo numero della rivista, è stato riservato al discorso di apertura e d’introduzione dei lavori fatto dall’avv. Francesco Iacopino, Presidente della Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora”, al Convegno Internazionale  “Il paradigma Liberale Nel Diritto Penale: un Requiem  evitabile?”, svoltosi il 17/18 novembre 2023 a Catanzaro. Buon pomeriggio a tutti! È con grande entusiasmo e profonda emozione che mi accingo ad aprire i lavori di questa due giorni che ci vedrà impegnati a riflettere su un tema quanto mai attuale e complesso del nostro tempo: la “tenuta” del paradigma liberale nella post modernità.  A nome mio personale e del Consiglio Direttivo della Camera Penale “Alfredo Cantafora” di Catanzaro saluto le Autorità presenti, i prestigiosi relatori, i vertici dell’Unione delle camere penali – qui rappresentate dal Presidente del Consiglio, dal Presidente della Fondazione UCPI e dal nostro Componente di Giunta –, i Rappresentanti istituzionali dell’Avvocatura, il Presidente Onorario e i Past President, i Presidenti delle Camere Penali territoriali, i componenti degli Osservatori nazionali e territoriali, i Rappresentanti delle associazioni forensi e tutti gli intervenuti.  La città e l’Avvocatura di Catanzaro accolgono oggi con soddisfazione un evento di così alto respiro che si propone di alimentare e diffondere nella ragione pubblica e nel discorso collettivo i principi del “Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo” licenziato nel 2019 dall’Unione delle Camere Penali e dalla più autorevole Accademia italiana. Dopo la storica presentazione del nostro pamphlet nell’aula 208 dell’Università statale di Milano, il percorso di presentazione del Manifesto è stato segnato da tappe significative e altamente prestigiose: Chicago, Bologna e da ultimo Barcellona. Permettetemi, con riferimento all’evento inaugurale di Milano, di rivolgere un pensiero commosso alla memoria del professore Filippo Sgubbi, del quale ricordo ancora oggi nitidamente l’appassionato, lucido ed elegante intervento di sabato mattina, 11 maggio, nell’Aula Magna della Statale. A Lui la nostra gratitudine per il raffinato e colto pensiero giuridico che ci ha lasciato in eredità, condensato da ultimo nelle sue “20 tesi” che compongono “il diritto penale totale”. Dicevo, Chicago, prima tappa internazionale del nostro Manifesto, presentato nella School of Law della Loyola in occasione del X colloquio dei costituzionalisti americani. Quell’evento, la prima mondiale, ha permesso al Manifesto di varcare i confini continentali e di essere apprezzato dai giuristi di ogni continente chiamati a raccolta nella prestigiosa cornice della storica Università americana. Non posso dimenticare le emozioni di quella esperienza, vissuta in rappresentanza dei penalisti italiani, arricchita dalla autorevole presenza alla nostra sessione del decano Barry Sullivan, al quale ho potuto personalmente consegnare il Manifesto. Tutto ciò è stato possibile grazie alla combinazione di due fattori: la fiducia accordatami dall’allora Presidente Gian Domenico Caiazza e la lungimiranza di un docente della nostra UMG, Domenico Bilotti, al quale rinnovo la sincera gratitudine mia e dei penalisti italiani. A seguire altri due eventi hanno segnato il percorso del Manifesto nella splendida città di Bologna: dapprima, l’incontro di studi nella Sala delle Armi del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Alma Mater, alla presenza di qualificati giuristi latino-americani, e, poi, due giorni di confronto sui temi del diritto penale liberale alla presenza di insigni giuristi europei, nella Sala Bolognini del Convento san Domenico. Da ultimo, il 4 luglio scorso, il nostro pamphlet è stato presentato nella prestigiosa Reial Acadèmia Europea de Doctors di Barcellona. In quella circostanza ho avuto il privilegio di affiancare il nostro Presidente del Consiglio, Nicola Mazzacuva, che mi ha permesso di sedere al suo fianco, al tavolo dei relatori. L’evento, fortemente voluto dall’Avvocatura e dall’Accademia spagnole, ha rappresentato la ‘prima’ in Europa del Manifesto, alla presenza di Fermin Morales Prats, Ordinario di diritto penale nell’Università Autonoma di Barcellona, che ringrazio vivamente perché oggi ci onora della Sua presenza, di Víctor Moreno Catena, Ordinario di procedura penale nell’Università Carlos III di Madrid e Presidente della Unione degli Avvocati penalisti spagnola, l’Excmo. SE. D. Javier Hernández García, Magistrato della Seconda Sala della Corte Suprema di Cassazione, e del decano Gonzalo Quintero Olivares, Emerito diritto penale nell’Università di Tarragona, già Ordinario nell’Università di Barcellona e di Maiorca, presente ai lavori. Un’esperienza invero straordinaria e molto stimolante, che ha portato in emersione il vivo apprezzamento anche dei giuristi spagnoli per l’iniziativa assunta dai penalisti italiani. All’Unione è stato riconosciuto, tanto in America, quanto in Europa, il grande merito di aver realizzato un progetto così ambizioso coagulando le migliori energie dell’Avvocatura e dell’Accademia italiane, così da affidare alla ragione collettiva e al discorso pubblico un pamphlet quanto mai necessario, considerato il contesto storico attuale caratterizzato dalla cronicizzazione della crisi del garantismo penale di matrice liberale. Ad allora, inserendoci in questo percorso di diffusione dei principi liberali del diritto penale, oggi ancor di più possiamo apprezzare l’alto valore, non solo simbolico, della tappa catanzarese, in un distretto peraltro che ben conosce le fatiche della giurisdizione e ‘il grido d’allarme’ più volte lanciato dall’avvocatura penalista, preoccupata dagli squilibri esistenti nel rapporto tra autorità e libertà e tra le esigenze di difesa sociale e quelle di tutela delle libertà individuali. Viviamo oggi in una società punitiva e in una democrazia emotiva. Punire è oggi diventata una passione contemporanea, come ci ammonisce il sociologo e antropologo francese Didier Fassin. In questo quadro storico-culturale, non vi è dubbio che il nostro tempo caratterizzato da un marcato populismo penale segna un arretramento dell’orologio della storia della civiltà del diritto, catapultandoci in una dimensione che Bauman definisce di retrotopìa. E allora, credo che interrogarci oggi sullo stato di salute del nostro sistema penale e, più in chiaro, sullo stato di crisi del paradigma liberale sia per tutti noi, attori della giurisdizione e accademici, un dovere e al tempo stesso una responsabilità. Certo, non mi sfuggono le diagnosi infauste di autorevoli studiosi che hanno dichiarato clinicamente morto quel paradigma, annunciando il necrologio del diritto penale liberale. In questa direzione si è pronunciato, anche a Catanzaro, Tullio Padovani: “il diritto penale totale – ha affermato – è il necrologio del diritto penale liberale, il suo de

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INTELLIGENZA ARTIFICIALE: PREDIZIONE DELLA DECISIONE E VALUTAZIONE DELLA PROVA

  di Paolo Carnuccio* –  Il termine intelligenza indica in generale un insieme di caratteristiche relative alle capacità mentali degli esseri umani. Lo studio dell’intelligenza è stato affrontato da diverse discipline (come filosofia e psicologia) da più di duemila anni. Negli anni cinquanta, anche grazie allo sviluppo degli elaboratori elettronici, diversi campi di ricerca su tematiche riguardanti lo studio dell’intelligenza sono confluiti in un’unica disciplina autonoma denominata Intelligenza Artificiale (IA)[1]. Oggi, l’intelligenza artificiale ha invaso anche il terreno giudiziario. La capacità intrinseca della struttura di apprendere e di risolvere i problemi determina notevoli conseguenze in termini di predizione della pronuncia giudiziaria e di valutazione della prova. Non potendosi affrontare in modo esaustivo i variegati risvolti dello sviluppo dell’intelligenza artificiale sul mondo del diritto, il proposito delle presenti riflessioni attiene alla rilevanza dello strumento ed alla sua efficacia concreta. L’operazione supera i panorami diversificati che ne hanno tracciato i contenuti fino ad un decennio orsono[2] per giungere ad interrogativi circa l’attribuzione di valutazioni giuridicamente rilevanti alle entità artificiali[3]. Il campo di analisi dovrà essere condotto su quegli aspetti che in maniera più diretta coinvolgono il dominio della previsione sull’epistemologia giudiziaria e la riflessione giuridica sul fenomeno probatorio[4]. L’espressione intelligenza artificiale ha un’accezione più o meno ampia a seconda dell’angolo visuale prescelto, tanto da sembrare alle volte un prisma dalle mille sfaccettature. Tradizionalmente, si distingue tra una concezione “forte” ed una “debole”. La prima, tende alla creazione di modelli in grado di possedere veri e propri stati cognitivi analoghi a quelli della mente umana; la seconda, prevede la realizzazione di elaborati capaci di compiti normalmente attribuiti all’intelligenza dell’uomo senza però alcuna assimilazione tra pensiero e sistema informatico. In entrambe le prospettive, l’intelligenza artificiale sarebbe comunque qualificabile come “la scienza intesa a sviluppare modelli computazionali del comportamento intelligente in grado di eseguire compiti che richiederebbero intelligenza da parte dell’uomo”[5]. In altre parole, la codificazione variabile del ragionamento umano. La prima fonte definitoria la si trova contenuta nella “Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi” adottata il 3-4 dicembre 2018 dalla Commissione Europea per l’efficienza della giustizia (Cepej) istituita dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 2002, in cui la si considera come “l’insieme di metodi scientifici, teorie e tecniche finalizzate a riprodurre mediante le macchine le capacità cognitive degli esseri umani”[6]. I sistemi dell’intelligenza artificiale sono variegati, e vanno dalla costruzione del software (ad esempio assistenti vocali, analisi delle immagini, motori di ricerca, sistemi di riconoscimento vocale e facciale), a quello dell’hardware (ad esempio veri e propri robot o droni), strumenti interagenti nel mondo virtuale. In entrambi i casi la raccolta delle informazioni è indispensabile, ragionando sulla conoscenza o elaborando le soluzioni adeguate all’obiettivo. Una prima, e fondamentale, questione attiene al rapporto tra la mente umana e il sistema informatico. Il tema nasce dalle origini culturali dell’intelligenza artificiale, si propaga mediante la costituzione di una lingua universale in grado di rappresentare i nostri pensieri, e finisce per creare un’elaborazione sistematica capace di ridurre il ragionamento ad operazione automatica o matematica[7]. La creazione dei cd. logaritmi si inserisce in questo paradigma concettuale, e rappresenta la conseguenza dello sviluppo artificiale. Sia nel ragionamento giudiziario, sia nella predizione del suo esito, viene in rilievo l’utilizzo della logica come strumento posto a fondamento delle varie interazioni. I sillogismi artificiali sono necessari e devono poter essere affrontati nella loro corretta dimensione, finalizzata, cioè, ai risultati per i quali sono utilizzati. Il problema principale attiene all’individuazione del modello: quello probabilistico oppure quello non-monotonico? Quello deduttivo, quello abduttivo, o ancora quello deontico?[8] La risposta non è univoca in quanto è possibile utilizzare i vari tipi di ragionamento inferenziale a seconda dei contesti in cui ci si trova ad operare, variando, pertanto, l’esito del risultato dell’intelligenza artificiale. Ciò in virtù del fatto che l’intelletto umano adopera svariati meccanismi di ragionamento a seconda dell’oggetto, del luogo e del tempo in cui si trova ad operare. Ad esempio, la diagnosi medica, o il progetto tecnico di un ingegnere sono diversi dalla decisione giudiziaria o dalla valutazione della prova. Lo scrutinio della decisione giudiziaria, e della valutazione della prova, diventano precondizioni necessarie per costruire la struttura dell’intelligenza artificiale. Laddove la stessa sia semplice, e non particolarmente complessa, è possibile adoperare criteri altrettanto agevoli, ma quando l’ordito diventa infarcito da sillogismi di natura logica il compito dell’elaboratore è alquanto complesso giacché rivolto alla qualificazione della tipologia del modello logico di riferimento ed alla conseguente individuazione dei parametri da inserire nella struttura artificiale. Significa gettare nuova luce su un procedimento mentale che è stato definito “complesso, variabile, avvolto nell’incerto, vago e intriso di valori”[9] Il percorso di indagine diventa ancora più complicato se si pone mente alla valutazione giudiziaria totalmente ancorata alla visione del libero convincimento, dunque sganciata da qualunque parametro razionale[10]. Al netto di motivazioni inesistenti, o totalmente insufficienti, il punto è quello di capire come l’intelligenza artificiale risulta compatibile con la decisione giudiziaria a-logica. Ogni sentenza ha un contenuto intrinsecamente collegato al sentimento della decisione, al diversamente legato al criterio inferenziale, a ciò che è intimamente collegato alla sua percezione della prova.  Questo è il terreno più difficile da affrontare perché costituisce forse il limite dell’intelligenza artificiale. La componente ineluttabile, il nocciolo duro della natura umana, quelli che alcuni chiamano intelligenza emotiva. Tale ambito riguarda una componente dell’intelligenza, che consiste nella capacità di percepire, valutare, comprendere, utilizzare e gestire le emozioni. Le persone con un’elevata intelligenza emotiva sanno riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri, distinguerle tra di esse ed utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni[11]. Essa è composta da tre rami principali: valutazione ed espressione delle emozioni, regolazione delle emozioni, utilizzo delle emozioni. Tale definizione iniziale è stata poi successivamente aggiornata in quanto appariva imprecisa e priva di un ragionamento sui sentimenti, trattando solo la percezione e la regolazione delle emozioni. È stata, quindi, definita come segue: “l’intelligenza emotiva coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione; l’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri; l’abilità di

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DOPPIO BINARIO E PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA

di Luigi Miceli*- Al congresso straordinario di Reggio Calabria, sabato 5 ottobre, ho avuto l’onore e l’onere di moderare la tavola rotonda titolata “Doppio binario e presunzione di colpevolezza” Le regole processuali del c.d. doppio binario, come è noto, sono state introdotte sulla spinta di logiche emergenziali, che nel tempo si sono strutturate fino ad essere considerate addirittura normali, nonostante comportino una evidente limitazione delle garanzie, anche in deroga ai principi costituzionali in tema di giustizia, ad iniziare dal diritto di difesa. In linea generale, il congresso è stato, tra l’altro, caratterizzato dal sovente richiamo all’attuale elaborazione normativa ispirata all’idea “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”. In altri termini, abbiamo assistito prevalentemente alla produzione di norme di natura garantista in materia procedimentale e di carattere autoritario/securitario sul versante del diritto sostanziale. Dinanzi a questa azione politica ambivalente fanno, ancora una volta, eccezione i processi relativi ai reati che rientrano nella categoria del doppio binario, per i quali si continuerà a procedere in deroga ai principi costituzionali sanciti in tema di giustizia.  Il c.d. “allarme sociale” determinato da alcune vicende di cronaca, alimentato a dismisura dal tam tam mediatico e social mediatico, che dà sfogo alle pulsioni forcaiole e vendicative, purtroppo sempre presenti nell’animo umano, ne ha addirittura determinato la continua espansione, anche sotto il profilo sostanziale, ossia delle figure di reato coinvolte. Si potrebbe, a ragion veduta, obiettare che tanto più grave e infamante è il reato contestato, quanto maggiore dovrebbe essere il livello delle garanzie riconosciute all’imputato. La relazione del Prof. Daniele Negri e l’intervento del Prof. Oliviero Mazza hanno, in proposito, mirabilmente sottolineato come i principi costituzionali come la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, il diritto di difesa, il diritto ad un giusto processo e la funzione rieducativa della pena non prevedono deroghe riconducibili al titolo di reato per cui si procede o si è proceduto. Ed invece, nei processi c.d. di criminalità organizzata, sui quali è stata focalizzata l’attenzione, anche in considerazione delle evidenti criticità coralmente emerse da alcuni interventi del giorno precedente, si inizia con la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere e si finisce, nella fase esecutiva, con l’inibizione all’accesso di misure alternative alla detenzione carceraria (art. 4 bis dell’O.P.), molto spesso attraverso maxinchieste e maxiprocessi, ontologicamente intrisi di un elevatissimo rischio di sommarietà divenuto ormai inaccettabile. Al sud Italia si celebrano maxiprocessi dal 1927 e, nonostante l’evoluzione dei riti, l’approccio è rimasto sempre il medesimo, ossia il processo quale mezzo di contrasto ai fenomeni criminali, piuttosto che un rito finalizzato ad accertare la fondatezza o meno di una ipotesi di reato contestata ad un imputato. Anche i maxiprocessi sono, tuttavia, diventati una costante metodologica, nel cui ambito è sempre più difficile esercitare il diritto difesa di uno, rispetto allo sforzo investigativo e al clamore mediatico dei “cento” o anche dei “quattrocento”. In una delle maxinchieste siciliane, celebratesi col nuovo codice, nel dispositivo di sentenza è stato condannato un soggetto, che era stato precedentemente prosciolto in udienza preliminare. Rispetto alle eventuali ragioni sottese all’istruzione delle maxinchieste, anche in considerazione del fatto che, in Calabria come in Sicilia, non viene più richiesto alla pubblica accusa di provare l’esistenza dell’“associazione” in sé, ma l’eventuale partecipazione, anche con ruoli apicali o la dimostrazione della sussistenza dei c.d. reati fine, il Dott. Stefano Musolino, dopo avere ricordato le difficili condizioni ambientali su cui si innestano le investigazioni e rivendicato l’ampia discrezionalità attribuita al pubblico ministero, mediante gli istituti della connessione procedimentale e del collegamento probatorio, ha manifestato una apprezzabile apertura sia in ordine al ridimensionamento del rilievo dimostrativo dell’art. 238 bis c.p.p. (sentenze irrevocabili), di dubbia costituzionalità, e sia in relazione alla necessità di ridurre le categorie dei reati previsti dall’art. 4 bis O.P. e di quelli c.d. “spia” per le misure di prevenzione. Tornando ai maxiprocessi sono state ribadite dall’Avv. Maria Teresa Zampogna le difficoltà del difensore a dovere affrontare un processo al “fenomeno criminale”, laddove capita pure che l’avvocato venga strumentalmente accusato di difendere il reato, piuttosto che l’indagato/imputato, col rischio di essere direttamente incriminato se non addirittura arrestato. Fatto certo è che le maxinchieste sono “portatori sani” di errori giudiziari e, come sottolineato dalla Presidente della Corte di Appello di Reggio Calabria, Caterina Chiaravallotti, in Calabria, per il periodo primo gennaio 2023 – 30 giugno 2024, sono stati liquidati 5.729.381euro a titolo di riparazioni per ingiuste detenzioni. Una ulteriore buona ragione per mettere un freno alla proliferazione delle maxinchieste e, contestualmente, ripristinare i principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza per i reati ricompresi nella categoria del c.d. “doppio binario”. Anche dalla riva dello Stretto, luogo mitologicamente evocativo, dove Ulisse seppe resistere al richiamo delle sirene rimanendo al timone della propria nave, ribadiamo, con la forza delle nostre idee, che i penalisti italiani non si faranno risucchiare dai vortici alimentati dalla sommarietà del giustizialismo e dalle semplificazioni mass mediatiche, continuando a mantenere la rotta delle garanzie e dello stato di diritto, affinché nel processo, per qualsivoglia reato e a carico di qualunque imputato, la responsabilità penale non sia un punto di partenza da ratificare ma, esclusivamente, una delle possibili soluzioni finali, e l’eventuale pena, mai contraria al senso di umanità, dovrà sempre essere finalizzata alla rieducazione del condannato.     *Avvocato, Componente di Giunta UCPI

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LA DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

di Vincenzo Comi* Prima che lo tsunami dell’intelligenza artificiale travolga la nostra professione è doveroso affrontare l’argomento esaminando sinteticamente le regole esistenti e le prospettive di interpretazione. Non è retorica, ma ne va della sopravvivenza del nostro ceto e la deontologia rappresenta la chiave necessaria per affacciarci a questa nuova frontiera. Siamo in una fase di grande e veloce sviluppo dell’intelligenza artificiale. Proprio in questi momenti è necessario riflettere e immaginare il futuro per assicurare un utilizzo responsabile e deontologicamente corretto di questi nuovi e sconosciuti strumenti nella nostra professione forense. Il presupposto indispensabile di un uso responsabile è la conoscenza e in particolare della tecnologia posta a fondamento del sistema utilizzato, le criticità che derivano dall’apprendimento automatico in assenza di interpretazione, il rischio del linguaggio e dei contenuti massivi che possono prestare il fianco a letture fuori dal contesto reale o disallineate rispetto al presupposto fattuale del ragionamento giuridico. Il rispetto della normativa vigente a livello nazionale ed europeo in tema di intelligenza artificiale è un altro presupposto necessario per un comportamento eticamente corretto dell’avvocato oltre che la verifica della compatibilità dell’offerta del servizio di fornitura del servizio con gli standard deontologici. Il nostro codice deontologico vigente non contiene alcun riferimento all’intelligenza artificiale, ma già nelle istituzioni forensi europee inizia a intravedersi una certa attenzione. Abbiamo, infatti, le indicazioni della Federazione Europea degli Avvocati che ha pubblicato le prime linee guida della Commissione nuove tecnologie. Si tratta di prime riflessioni legate all’attuale situazione di sviluppo alla luce della diffusione della ChatGPT, attiva dal 30 novembre 2022. Dalle criticità emerse nell’uso incauto della CHAT GPT sono nate le prime discussioni che hanno portato alla elaborazione delle linee guida: queste riguardano la comprensione della tecnologia, la consapevolezza dei limiti, la normativa e l’aggiornamento, il ruolo delle competenze umane, il rispetto della deontologia e quindi del segreto professionale, la protezione dei dati personali e la comunicazione con i clienti. L’intelligenza artificiale già da qualche tempo imperversa e crea problemi nel mondo legale. Oggi l’uso di CHAT GPT è diffuso nel mercato globale dei servizi legali. C’è l’esempio della start-up americana DO NOT PAY che ha lanciato la pubblicità del Robolawyer: un milione di dollari a chi avesse accettato di farsi rappresentare in tribunale dall’avvocato robot. Il caso dello studio legale americano Levidow che ha ammesso di aver presentato un caso contenente citazioni di casi falsi che avevano ottenuto dalla chat box GPT ha fatto scoprire il fenomeno delle allucinazioni del sistema. Le linee guida rappresentano un punto di partenza per individuare le buone prassi in un fenomeno che si dovrà necessariamente governare per evitare conseguenze irreparabili nella nostra professione. Sono sette prassi chiave per “mantenere alti standard etici, salvaguardare la riservatezza dei clienti e assicurare un utilizzo consapevole e responsabile dell’intelligenza artificiale generativa e dei modelli linguistici di grandi dimensioni nel contesto legale”. La base di partenza per esaminare il rapporto dei limiti dell’intelligenza artificiale e la nostra professione è la normativa professionale vigente, che nel nostro Stato è abbastanza recente, ma non attuale rispetto all’evoluzione della professione degli ultimi anni. I principi contenuti nell’articolo 3 della legge 247 del 2012 rappresentano il fondamento delle norme di comportamento e si tratta di principi che delimitano il perimetro della liceità del comportamento dell’avvocato. La qualità dell’esercizio del diritto di difesa dell’avvocato (persona) è al centro dei doveri deontologici contenuti nel nuovo codice. L’articolo 1 offre una dimostrazione plastica di tale centralità essendo particolarmente ispirato alla difesa penale: “l’avvocato tutela in ogni sede il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio”. La tutela del diritto di difesa non è per nulla scontata ma anzi impone l’indispensabile opera dell’avvocato che ne assicuri il rispetto nell’interesse del proprio assistito e di tutti i cittadini coinvolti in un procedimento penale. Il codice deontologico affida all’avvocato l’onere di assicurare nel processo la regolarità del giudizio e il rispetto delle regole del contraddittorio. Ciò comporta per l’avvocato il dovere di possedere competenza tecnica e consapevolezza del proprio ruolo di difensore dei diritti fondamentali dei propri assistiti. In questo contesto si inserisce la deontologia in relazione all’intelligenza artificiale ed è subito chiara la rilevanza e i limiti che sono contenuti nelle raccomandazioni della Federazione degli Ordini Europei: competenza, segreto professionale, privacy prima di ogni altro. La regolarità del giudizio e del contraddittorio impone che l’avvocato si attivi attraverso l’esercizio del diritto di difesa effettiva. Pertanto, a monte c’è una deontologia della categoria prima che del singolo affinché si introduca negli ordinamenti una tecnologia compatibile con tale funzione del ceto. Questa premessa riguarda la regolamentazione e di conseguenza le condotte dei singoli avvocati per far rispettare i diritti fondamentali delle persone coinvolte nel processo. Il dovere di competenza disciplinato dall’articolo 14 è molto importante anche nella prospettiva dell’uso dell’intelligenza artificiale. Da questo scaturiscono le previsioni disciplinari dell’articolo 26 in tema di adempimento del mandato. L’accettazione di un incarico professionale presuppone la competenza a svolgerlo e costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o la nomina quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita. La competenza consiste nella conoscenza del funzionamento della tecnologia usata, e il pericolo della mancanza di interpretazione dei prodotti forniti dalle chat o da altri sistemi di intelligenza artificiale. L’avvocato non può sostituire in alcun modo il proprio intervento, la propria capacità critica e in sostanza la propria competenza. Ovviamente in alternativa verrebbe meno il profilo del dovere di competenza. La competenza e la professione forense sono una endiadi indissolubile della vita umana prima che professionale, con l’unica alternativa possibile che è l’eliminazione della figura dell’avvocato, circostanza questa inimmaginabile oltre che da rifiutare con fermezza. Già oggi la vita professionale si caratterizza per una difficile visione del futuro. I grossi studi tendono a impostare l’organizzazione con una visione manageriale nella quale a capo della law firm si pone più un imprenditore o manager piuttosto che un avvocato. In questo contesto il pericolo

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