Oltre la norma

SAN GIORGIO SESSANTAQUATTRO ANNI DOPO, TRA SOGNO E REALTÀ. PARLA GIORGIO SPANGHER

di Angela La Gamma* – È innegabile che l’attuale sistema processuale di tipo accusatorio sia in profonda crisi: il codice di procedura penale del 1988, a causa delle continue interpolazioni e riforme asistematiche, ha perso la sua connotazione accusatoria, per assumere, pian piano, una inquietante veste inquisitoria.  Al fine di arginare tale deriva, l’UCPI ha pensato di elaborare, attraverso l’opera di una commissione istituita ad hoc, una bozza di legge-delega contenente proposte di riforma dell’attuale codice di procedura penale. Queste proposte di riforma sono state presentate nel corso di un evento che si è svolto il 14 e il 15 marzo scorsi sull’isola di San Giorgio Maggiore (Venezia), presso la Fondazione Giorgio Cini. La scelta del luogo non è stata casuale: nel 1961, infatti, nei locali della predetta fondazione studiosi del calibro di Carnelutti, Vassalli, De Marsico, Foschini, solo per citarne alcuni, gettarono le basi del nuovo codice accusatorio, in riforma di quello inquisitorio all’epoca vigente. Stante la rilevanza dell’evento, nonché della tematica ad essa sottesa, abbiamo pensato di offrire ai nostri lettori il punto di vista di uno dei massimi procedural-penalisti italiani, il professor Giorgio Spangher, il quale ci ha illustrato la sua visione prospettica in merito alla possibile riforma del codice di procedura penale; un piccolo inciso, l’intervista al professore è stata permeata ed infiammata da quel sacro fuoco della passione per la materia che lo anima da una vita e che è veramente un peccato non possa trasparire nello scritto. Professore, Le chiedo, innanzitutto quale è la sua impressione a caldo sull’evento del 14 e 15 marzo scorsi? «Sicuramente è stata una bella esperienza che è andata anche al di là delle aspettative, perché all’inizio si pensava potesse essere solo una mera ricognizione delle criticità. Orbene; è noto che il processo penale italiano sia un processo assolutamente dissestato su cui si è intervenuto con modifiche occasionali ed a-sistematiche; si tratta di un sistema che non riesce ad avere alcuna organicità. Ed allora, in un simile contesto, l’idea di Venezia, di riprendere l’esperienza del 1961 da cui era nato il seme del sistema accusatorio dell’88 è stata una idea vincente, anche perché, con gli anni, i problemi si sono accresciuti. Nel 1961, ad esempio, non c’era la criminalità organizzata, non c’era il sistema delle fonti attuale; l’evento di Venezia, quindi, è stato un’esperienza e un’occasione di confronto interessante, perché, quantomeno, si è tracciata la direzione di una possibile riforma, che poi è quella di un sistema accusatorio che non può essere quello dell’88, ma che, certamente, deve avere nell’accusatorietà i suoi cardini fondamentali di base». Scendiamo ora nello specifico delle proposte riformatorie, partendo dalle indagini preliminari e dalle questioni ad esse connesse, alcune proposte avanzate e illustrate a San Giorgio prevedono, ad esempio, di limitare e regolamentare le proroghe delle indagini,  o per quel che concerne le misure cautelari personali, di individuare un giudice funzionalmente competente ovvero di eliminare ogni presunzione legale di sussistenza delle esigenze cautelari o di limitare la custodia cautelare disposta per le esigenze di cui alla lett. C) dell’art. 274 c.p.p. solo a casi determinati. Con riferimento alle misure cautelari reali, invece, si è proposto di porre dei limiti ai sequestri attraverso, ad esempio, la previsione di gravi indizi di concreta sussistenza del fatto. Orbene, queste proposte, una volta che dovessero essere inserite nell’impianto codicistico, determineranno una maggiore garanzia dei diritti della persona indagata?  «Allora partiamo da un dato. Nelle riforme del processo penale si usa l’espressione “tutto si tiene”; cioè, non è che si può intervenire, ad esempio, sulle impugnazioni, senza tenere in considerazione la fase dibattimentale e prima ancora quella delle indagini, ma occorre che la riforma sia organica e ricostruisca un sistema che organico, ormai, non lo è più. Naturalmente non è possibile mandare le lancette dell’orologio indietro fino all’88 perché l’idea di una indagine preliminare snellissima non è sostanzialmente più praticabile; e però occorre cercare di ridimensionare la fase dell’indagine da quel gigantismo che ha assunto. E le proposte di riforma, che mirano a vincolare maggiormente il pubblico ministero a tempistiche determinate ed a favorire un controllo del giudice, soprattutto sulla inazione del p.m., appaiono importanti. Già una riduzione dei termini di durata delle indagini era stata operata dalla riforma Cartabia, ora si cerca di ridurli ulteriormente, ma si fa un’operazione aggiuntiva. Il giudice non sarà più il giudice dell’atto, il famoso giudice dell’88 e non sarà neanche il giudice del procedimento. Sarà il giudice del fascicolo e ciò gli consentirà di controllare quello che fa il pubblico ministero senza intervenire. Al giudice viene attribuito un ruolo di garante, di vigile, per evitare l’inerzia del PM e le proroghe chieste dopo mesi di inattività. Così come, per quanto riguarda le limitazioni all’incidente probatorio, sarebbe opportuno che lo stesso si svolgesse, non innanzi al Gip, bensì dinnanzi al giudice chiamato a decidere: solo così può essere ripristinato il canone dell’immediatezza. L’art. 392 c.p.p. è scritto male e va riformulato con riferimento non ad un giudice qualsiasi, bensì al giudice del contraddittorio e della decisione. Altra proposta rilevante, passando alla tematica delle misure cautelari, è l’individuazione di un giudice della cautela, così come sono importanti, a mio avviso, gli ulteriori limiti che vengono previsti per l’applicazione delle misure custodiali. E ciò sia per ciò che concerne gli interventi sull’ultimo periodo della lettera C) dell’art. 274 c.p.p., sia per quel che riguarda la volontà di eliminare le presunzioni di cui all’art. 275 c.p.p. che non c’erano nel codice dell’88. Stessa cosa per le misure reali; anche in questo caso la previsione espressa di limiti, finora solo individuati dalla Cassazione ma mai esplicitati in una norma, è utile per garantire le legalità anche nel c.d. “processo alle cose”. Certo, un qualche spiraglio di garantismo si è iniziato a vedere nella giurisprudenza della Suprema Corte da quando è Presidente Margherita Cassano, la quale, a differenza di Giovanni Canzio, è più legata al dato normativo e meno all’efficientismo; Canzio vedeva il processo come una macchina che deve funzionare. E invece Margherita Cassano è più orientata

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LE RAGIONI GIURIDICHE CHE IMPONGONO DI SEPARARE LE CARRIERE DEI MAGISTRATI

di Nico D’Ascola* SOMMARIO 1.QUANDO SORGE LA QUESTIONE 2. COSA APPARVE URGENTE PROPORRE 3.AUTONOMIA E INDIPENDENZA COME PRINCIPI DA DECLINARE, NON SOLO ALL’ESTERNO, MA ANCHE ALL’INTERNO. IL RUOLO “POLITICO” DELL’UNIONE 4. LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE È GIÀ IN COSTITUZIONE 5. LA IMPARZIALITÀ DEL GIUDICE 6. CARRIERE UNITARIE COMPATIBILI CON IL CODICE DEL ’30, NON CON QUELLO DELL’88 7.GLI ATTUALI PUBBLICI MINISTERI SAREBBERO OTTIMI GIUDICI? 8.IL PERICOLO DI UNA OPPOSIZIONE STRUMENTALE 9.L’UNICA OPINIONE CONTRARIA CON LA QUALE CONFRONTARSI 10. I RISCHI CONNESSI ALLE SCELTE SIN QUI ADOTTATE DALLA MAGISTRATURA   1.QUANDO SORGE LA QUESTIONE Inizio con una rivendicazione. La separazione delle carriere è patrimonio intellettuale e di cultura giuridica esclusivamente riferibile all’Unione delle Camere Penali. Si deve, infatti, a quello straordinario e irripetibile laboratorio di idee che fu l’Unione nel corso degli anni ’90, il merito di averne compreso la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, al solo fine di realizzare un processo penale davvero giusto. Ciò perché era apparso evidente che le riforme ordinamentali costituivano l’imprescindibile presupposto di quelle processuali, altrimenti destinate al fallimento. A quel progetto non fu nemmeno estranea una lucida analisi di natura politica, generata dalle strette relazioni che legano la politica stessa al diritto in generale e al diritto penale in particolare. Non pare dubitabile, infatti, che individuare il punto di equilibrio del conflitto tra autorità e libertà, questione cruciale per noi avvocati penalisti, è questione di competenza esclusivamente politica. Punto di equilibrio che contribuisce a delineare il tasso di effettiva democrazia di una Nazione. Della separazione delle carriere dei magistrati, se ne era parlato intorno alla seconda metà degli anni ’80, a margine di un congresso, mi pare fosse quello di Bari, in previsione della riforma del codice di procedura penale. All’epoca, per le ragioni che spiegherò in seguito, non se ne poteva percepire tutta l’importanza, che fu evidente dopo la riforma del codice di procedura penale. Gli anni ’90 si conclusero con la storica approvazione del nostro art. 111 Costituzione, alla quale, però, non seguì alcuna seria riforma ordinamentale, data l’ostinata opposizione della magistratura e il disinteresse, all’epoca, della politica. A quelle giunte io ho avuto l’onore di partecipare, insieme a indimenticabili amici, molti dei quali ci hanno lasciato. Pertanto, posso testimoniare e scrivere dando voce anche a loro. Prima di farlo, ricordo a tutti ancora una volta che bisogna completare quel percorso. Percorso che comprendeva sin da allora la necessità di una tutela costituzionale per il nuovo codice, iniziativa che ci costò una battaglia durissima e l’accusa di essere peggiori dei terroristi, nonché un adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo sistema processuale.   2.COSA APPARVE URGENTE PROPORRE In quegli anni capimmo velocemente diverse cose. In primo luogo che il codice dell’88 si reggeva su basi fragili e malferme. Era particolarmente indifesa la linea di confine che separava il sapere investigativo del pubblico ministero, dal sapere a formazione progressiva del giudice, fondato sul contraddittorio. Più precisamente il codice difettava di un ombrello di protezione costituzionale rispetto ai prevedibili aggiramenti e alle manomissioni delle quali sarebbe stato oggetto. I rischi già si profilavano. Il sospetto fu poi confermato dalla sentenza n°254/92 della Corte costituzionale la quale aveva rovesciato la struttura del codice, frantumando la indispensabile separazione tra indagini e giudizio. Capimmo pure, per come ho già ricordato, che l’ulteriore e indispensabile passaggio era costituito dalla separazione delle carriere, senza la quale il principio del contraddittorio sarebbe stato inevitabilmente svuotato di significato. Il giudice, infatti, non sarebbe mai stato terzo ed equidistante nel suo rapporto con la difesa e l’accusa, anzi sarebbe stato attratto in questa ultima orbita. La necessità di un giudice super partes sarebbe rimasta inattuata se giudice e pubblico ministero avessero continuato ad avere interessi comuni, carriere altrettanto comuni e interscambiabili. Insomma, fu chiara la incoerenza tra il nuovo codice e l’assetto dell’ordinamento giudiziario che metteva insieme giudice e pubblico ministero. La separazione tra le due storiche articolazioni della magistratura ci sembrò necessaria proprio per garantire il funzionamento di un sistema processuale, sia pure solo tendenzialmente accusatorio e misto. Proprio per questa ragione nessuno pensò a una riforma punitiva, per come oggi si dice, né tantomeno limitativa delle prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza.   3.AUTONOMIA E INDIPENDENZA COME PRINCIPI DA DECLINARE, NON SOLO ALL’ESTERNO, MA ANCHE ALL’INTERNO. IL RUOLO “POLITICO” DELL’UNIONE Capimmo pure che autonomia e indipendenza della magistratura erano garanzie irrinunciabili per la stessa difesa penale. Nessuno di noi avrebbe voluto misurarsi con un pubblico ministero in grado di spendere, oltre ai suoi tradizionali e ampi poteri, anche quelli propri dell’esecutivo. Valutando oggi la questione in modo distaccato e non corporativo, bisogna ammettere che la separazione delle carriere estende il campo di applicazione dei principi di autonomia e indipendenza, anziché limitarli. Li declina, infatti, non solo all’esterno, ossia nelle relazioni tra il potere giudiziario e i restanti poteri dello Stato, ma anche all’interno. Affermandoli pure riguardo alle relazioni tra giudici e pubblici ministeri. Circostanza, questa, che semmai incrementa e di certo non riduce le prerogative della intera categoria, scolpendone con precisione le differenze non solo funzionali. Tuttavia sbagliammo previsione, come ho già anticipato, quando pensammo che la separazione delle carriere, anche se accompagnata dalla estensione, al pubblico ministero separato, delle garanzie di autonomia e indipendenza, per come noi sin dall’inizio avevamo pensato, avrebbe eliminato ogni resistenza della magistratura. In altri termini, la mancanza di tutela costituzionale per il nuovo codice e l’evidente disallineamento tra quest’ultimo e l’assetto dell’ordinamento giudiziario, proprio perché fatali per il codice e per la stessa sua sopravvivenza, ci sembrarono punti talmente condivisibili da meritare un generalizzato consenso. Ma così non avvenne. Fu buona fede avere pensato che tutti avessero interesse a un sistema processuale effettivo e coerente. Le resistenze all’epoca incontrate (ed oggi manifestate con maggiore forza) ci persuasero del contrario. Le battaglie di quegli anni furono precedute dal maturare della convinzione che per l’Unione fosse necessario attribuirsi una funzione politica, reclamando per l’avvocatura penale, strumento insostituibile per la difesa dei diritti dei cittadini, il ruolo di interlocutrice nei processi di trasformazione del

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LA QUESTIONE MERIDIONALE NELLA NARRATIVA DI SAVERIO STRATI

di Stefania Mantelli* Molti intellettuali e storici si sono occupati di analizzare e descrivere il divario tra il Nord e il Sud del nostro Paese, lo squilibrio economico, sociale e culturale dall’unità d’Italia in avanti, rappresentando un destino differente, per una stessa Nazione. Un enorme contributo, in tal senso, è stato fornito anche dalla letteratura sul Mezzogiorno. Alcuni autori più di altri, e alcune loro opere in particolare, segnano un percorso importante per la comprensione dei fenomeni che si vogliono ricomprendere nella c.d. “questione meridionale”. Tra tutti, non può prescindersi da Ignazio Silone con “Fontamara” e la storia dei “cafoni”, i contadini senza speranza; Giovanni Verga con “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”, ricompresi nell’incompiuto ciclo dei vinti; Carlo Levi con “Cristo si è fermato ad Eboli” che lo scrittore – confinato in Lucania dal fascismo – scriverà in chiave autobiografica, fornendo un affresco sulla tragica e povera vita contadina in quei luoghi magnifici; Corrado Alvaro con “Gente in Aspromonte” che narra della dura vita dei pastori, alternando un approccio moralistico ad una prosa pregna di lirismo. L’elenco, se proseguisse, sarebbe assai lungo! In questo filone, sebbene in una maniera diversa, possiamo inserire Saverio Strati, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Lo scrittore, nato a Sant’Agata del Bianco, il 16 agosto 1924, di famiglia povera, inizia a lavorare come contadino e poi operaio edile, dedicandosi solo successivamente a completare gli studi, grazie all’aiuto economico di uno zio emigrato in America. Nel ’53, durante la frequentazione della Facoltà di Lettere e Filosofia a Messina, consegna alcuni racconti al critico e docente universitario Giacomo Debenedetti e arriva così a pubblicare l’anno successivo il primo libro con Mondadori, una raccolta di dodici racconti, “La Marchesina”. Da lì inizierà la sua carriera di scrittore, con numerosi libri che lo porteranno a vincere vari premi letterari, tra cui il premio internazionale Vaillon nel 1960 e il Campiello nel 1977. Trascorre alcuni anni in Svizzera, perché tale era la nazionalità della moglie, per poi rientrare nuovamente in Toscana, stabilizzandosi a Scandicci. Il suo meridionalismo è proprio di quelli che sono partiti per necessità, che hanno ottenuto una qualche forma di riscatto dalla povertà da cui provenivano, ma che mai hanno rinnegato le loro origini. E se Corrado Alvaro, Mario La Cava, Fortunato Seminara hanno rappresentato un Sud statico e dolente, afflitto da ataviche e arcaiche tradizioni, nonché dall’ignoranza, aderendo ad una visione fatalista e pessimista del Mezzogiorno, Strati condanna l’immobilismo della gente di Calabria del tempo e incoraggia – attraverso i suoi personaggi – al riscatto, cogliendo i segni del progresso e insinuando la speranza che un cambiamento sia possibile. Pur narrando storie di miseria, arretratezza culturale, povertà e sfruttamento, davanti alle umiliazioni egli mette anche le speranze, governato dal “pessimismo della ragione, ma anche dall’ottimismo della volontà”. I personaggi dei suoi libri sono inizialmente braccianti e pastori, che tentano di lottare per una emancipazione alla quale, per le troppe avversità della vita, spesso rinunceranno. Tuttavia, nel seguito della produzione letteraria, queste figure lasceranno lo spazio all’operaio intellettuale che si ribella e cerca di cambiare il suo destino. L’autore, infatti, avanza nel suo percorso di scrittore osservando la realtà in movimento, in una chiave neorealista. Se nella raccolta La Marchesina i racconti sono ambientati nel mondo contadino, dove la classe dei nobili rappresenta nell’immaginario l’unico benessere possibile, quale alternativa alla fatica di badare agli animali e alla terra, in una realtà di arretratezza, dove si inizia a comprendere che l’istruzione può rappresentare un mezzo per vincere le ingiustizie sociali, con l’antologia Gente in viaggio prende l’avvio il tema del viaggio, per evadere, conoscere la città, il progresso per poi scoprirne le distorsioni, le superficialità, la corruzione che fanno riemergere l’autenticità delle origini. Esce, così, fuori anche il tema dell’emigrazione, come possibilità di riscatto ed emancipazione, trattata mirabilmente in molti suoi libri, da attento osservatore e protagonista allo stesso tempo di questo strappo dalla propria terra. Strati, in questa fase, sembra interessato soprattutto agli aspetti antropologici della cultura e della società calabrese, responsabili di una certa concezione della vita. Il suo realismo, infatti, riesce a cogliere lo stretto legame tra la cultura popolare e gli aspetti sociologici e storici della nostra regione. Nella sua produzione letteraria affronta, quindi, il tema dell’emigrazione, sia quella della prima parte del Novecento, determinata dalla voglia di riscatto, per cui l’America era vista come la meta da prediligere, sia quella successiva al ventennio fascista, quale fuga verso le nazioni più ricche soprattutto in Europa, toccando, con ancora maggior dolore, quella interna verso le zone più industrializzate del Paese che, rappresentando una Italia che procede a due velocità, lascia emergere la sofferenza per la scelta di lasciare indietro il Meridione, con la conseguenza di strappare le nuove generazioni alla loro terra e alle loro famiglie. Insomma, Strati esprime una narrativa impegnata, attenta al sociale, volta alla gente comune che è portatrice e destinataria del messaggio che l’autore vuole veicolare al lettore. Tenerissimo Tibi e Tascia, storia di due bambini, nel Mezzogiorno degli anni ’30, calati in un’atmosfera di innocenza e giocosità, sebbene vivano l’infanzia in un contesto miserabile e povero. Tibi riuscirà, seppur con la pena del distacco, ad emanciparsi da tanto dolore e partirà per una vita migliore; Tàscia rimarrà in una realtà di fatica e ignoranza, emblematica della sua condizione di donna nel primo dopoguerra. In a Mani vuote, il sogno del Nuovo Mondo, tanto agognato da Emilio, il protagonista, per sfuggire all’impoverimento della famiglia, a causa della morte del padre, e ad una madre autoritaria che preferisce sfacciatamente l’altro figlio, si delinea una narrazione che analizza i rapporti familiari e sociali. La vita sperata non lo renderà felice, troppi i disagi legati all’integrazione e alle difficoltà di apprendere una nuova lingua, per cui riapparirà, dimentico delle sofferenze che lo hanno portato ad emigrare, la nostalgia del rientro in Italia. In questo romanzo, come ne La Teda (dal nome della torcia di resina con cui si faceva luce nei tuguri dove uomini e animali vivevano insieme), ambientata nel

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MAGISTRATI E AVVOCATI, TRA VERITÀ E GIUSTIZIA. RIFLESSIONI SPARSE.

di Francesco Iacopino* Nel nostro ambiente si afferma, simpaticamente, che avvocati e magistrati sono, da sempre, come quelle vecchie coppie di coniugi che mal si sopportano ma sono assolutamente incapaci di vivere l’uno senza l’altro. Al di là della boutade, lo stato costituzionale di diritto, fondato sugli apriori dei diritti umani, affida all’avvocato il ruolo di mediazione tra apparato giudiziario e singolo cittadino e di garanzia nella tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona. L’avvocato ha il dovere di impegnare il magistrato, sia esso requirente o giudicante, a misurarsi con l’altro punto di vista, a confrontarsi con i risultati delle proprie azioni, perché la realtà può (e deve) essere guardata da prospettive diverse e perché nella complessità del nostro mondo è molto alto il rischio (e il prezzo) dell’errore giudiziario. L’avvocato ha, in altri termini, la responsabilità di alimentare nella giurisdizione il confronto sul terreno delle idee e dei valori costituzionali, coagulando in tale direzione – come ebbe a dire Vincenzo Maiello – le «energie migliori affinché al diritto penale di lotta si reagisca con una lotta per il diritto». Quindici anni fa Paolo Borgna, già procuratore aggiunto a Torino, per i tipi di Laterza ha pubblicato un libro intitolato «difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore». Scrive il procuratore nel Suo piccolo pampleth: «il rischio che può accecare e dannare il magistrato è quello di credere, a un certo punto, di dover non soltanto affermare il diritto ma la giustizia con la iniziale maiuscola. La storia però ci insegna – come ci ricorda Gustavo Zagrebelsky – che coloro i quali credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano, sono particolarmente esposti al rischio del fanatismo e del dogmatismo, in materia etica e politica. Perché chi pensa di aver trovato la Giustizia e la Verità prima o poi si sentirà in dovere di imporle agli altri. L’avvocato – con la sua presenza, il suo ruolo nel processo, il suo sguardo che ci osserva mentre operiamo ogni giorno – ci impedisce di cadere in questo baratro».  L’avvocato, con la sua professione di carità, nel difendere i diritti di chi si trova a tu per tu con il dolore, è lì a ricordare (a tutti) i destini di coloro che entrano nel circuito della penalità. È l’avvocato il tramite tra le carte e la vita degli altri: costantemente, assillantemente, giustamente. È lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevare il magistrato da quel peso indicibile. Ci ha insegnato Calamandrei che «l’ufficio più umano dell’avvocato è quello di stare ad ascoltare i clienti». Ecco perché, ancora una volta, ha ragione Borgna quando scrive che «l’avvocato è il miglior amico del pubblico ministero: lo aiuta a difendere la sua salute mentale», perché ciò che ci unisce è la condivisione del dolore degli altri, perché essere avvocato è una scelta di vita: un servizio in difesa della dignità dell’uomo. E allora, attingendo ancora agli insegnamenti di Calamandrei dobbiamo riconoscerci che il rispetto tra avvocati e magistrati non può che essere reciproco, perché obbedisce alla legge dei vasi comunicanti: non si può abbassare il livello dell’uno senza che si abbassi il livello dell’altro. Non è questione di rispetto della persona, perché per quello è sufficiente la buona educazione. È una questione di rispetto della funzione. Quel rispetto tra avvocati e magistrati nasce soltanto dalla consapevolezza della relazione di reciprocità che esiste tra le due funzioni.  Perché l’avvocato, innamorato del suo cencio nero, libero e indipendente, è colui il quale è chiamato a «difendere tutti» e «appartenere a nessuno», per usare le felici espressioni di Gian Paolo Zancan, avvocato e senatore della Repubblica: «ho difeso tutti, non sono appartenuto a nessuno». Tutti noi, tra gli attori della giurisdizione, dobbiamo recuperare la dimensione del ragionamento condiviso, individuare punti di incontro su cui edificare il miglioramento qualitativo della risposta alla domanda di giustizia, nella consapevolezza che la vera unità che dobbiamo perseguire e pazientemente ricercare, alimentandola anche nel discorso pubblico e nel pensiero comune, è quella tra avvocatura, magistratura e interessi del cittadino. In questa direzione l’avvocatura penalista sarà sempre francamente aperta al leale confronto e al dialogo costruttivo.    *Presidente Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro  

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“IL PROBLEMA NON CONSISTE NEL DECIDERE SE È NECESSARIO SEPARARE LE CARRIERE, QUANTO PIUTTOSTO NELL’INTERROGARSI COME MAI SIANO UNITE…”

di Tullio Padovani*- In tema di separazione delle carriere possiamo prender le mosse da un’affermazione sicuramente condivisa: giudice e pubblico ministero, pur assumendo entrambi la qualifica di «magistrati», esercitano due funzioni radicalmente diverse. La circostanza è di tale pacifica evidenza che proprio da essa i sostenitori dell’attuale assetto normativo ritengono di trarre un argomento pragmaticamente risolutivo per la sua perpetuazione. Una volta assicurato che un pubblico ministero non possa mutare il proprio ufficio in quello di giudice se non una o due volte nel corso della carriera, e peraltro con precisi vincoli di distanza dalle sedi ricoperte, perché si dovrebbe insistere ancora nella richiesta di carriere fin dall’origine ed istituzionalmente separate? Per essere posta correttamente, la questione deve essere pregiudizialmente sottratta ad una specie di strabismo concettuale che l’affligge quale effetto surrettizio dell’assetto esistente, e riproposta in termini simmetricamente inversi. Se è pacifico che le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono: – come sono – eterogenee, ed anzi, potenzialmente conflittuali (perché l’uno – il potere di giudicare – assume ad oggetto l’altro, e cioè l’esercizio del potere d’accusa), a quale titolo si dovrebbe accettare o addirittura giustificare l’omogeneità della carriera a partire dal reclutamento e nel contesto di un unico «ordine»? Il problema non consiste nel decidere se è necessario separare le carriere, quanto piuttosto nell’interrogarsi come mai siano unite. Le ragioni che ci si industria di esporre a favore della conservazione sono – pare – fondamentalmente tre: tutte inconsistenti, sia pure per ragioni diverse. Prima ragione. Per corrispondere a pieno ai postulati dello stato di diritto è necessario che giudice e pubblico ministero, pur se investiti di poteri diversi, ma ugualmente significativi in termini di garanzia delle posizioni soggettive coinvolte nel loro esercizio, condividano un’uguale «cultura della giurisdizione», su cui è quindi edificata la pari qualifica di «magistrato». Rompendo il legame genetico originario segnato dall’appartenenza ad un unico «ordine», il pubblico ministero – par di intendere – uscirebbe dal seminato del diritto (cultura è, in fondo, coltura dello spirito) e si trasformerebbe, in pericolo o in atto poco importa, in una sorta di pianta selvatica. Ma l’argomento si riduce ad una nebbiolina che il sole del mattino dissolve. Infatti, se per “giurisdizione” (oggetto dell’auspicata cultura comune) si intende lo ius dicere, e cioè la risoluzione di un conflitto in base alla legge, si tratta, né più né meno, che del munus giudiziale per eccellenza: esattamente ciò che qualifica il giudice, e solo il giudice. Se viceversa si vuol accedere ad una nozione lata, concependo la giurisdizione come lo svolgimento di un’attività regolata dalla legge e strumentale per la risoluzione, da parte del giudice, del conflitto contenzioso, bisogna convenire che la comunanza invocata per il pubblico ministero coinvolge in realtà l’intero ceto forense, ed in particolare anche la sua terza, indefettibile componente, costituita dall’avvocato difensore. La cultura della giurisdizione, intesa in questo senso lato, autorizzerebbe bensì l’unicità delle carriere, ma a condizione che a questa unicità concorressero tutti i componenti del ceto forense. Un’apocalisse che non può nemmeno definirsi tale (e cioè come un’autentica rivelazione): si tratta, infatti, della regola comune agli ordinamenti di common low. Avendo acquisito il processo accusatorio (sia pure come argutamente notava Cherif Bassiouni, mediante una semplice cartolina postale) non ci sarebbe niente di strano che ci procurassimo anche l’aria in cui esso respira. Da noi sarebbe forse troppo? Può darsi, ma allora smettiamo di invocare la «cultura della giurisdizione» per tener in piedi un tavolino con due sole gambe: non regge. Seconda ragione. Un pubblico ministero con carriera distinta e separata da quella del giudice finirebbe – si lamenta – facile preda della funzione di governo; sarebbe, in un modo o nell’altro, alle dipendenze dell’esecutivo. Sul punto bisogna intendersi. Se si tratta di ipotizzare un vincolo di dipendenza gerarchica, il discorso finisce prima di cominciare, perché «il pubblico ministero gode [e deve godere] delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (art. 107, comma 4° Cost.): non si tratta certo di tutte le garanzie stabilite nei confronti del giudice (e la norma costituzionale lo sottointende con l’evidenza della specificità), ma di garanzie deve trattarsi; e di certo un vincolo di dipendenza gerarchica non potrebbe concepirsi in termini di «garanzia», il cui oggetto non può evidentemente prescindere dall’assicurare l’«indipendenza» (cui si riferisce espressamente l’art. 108, comma 2 Cost. in riferimento alla posizione del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali). Ma la questione dell’esercizio del potere d’accusa non si prospetta certo in termini di vincolo gerarchico. Il problema è il controllo sull’esercizio di tale potere “anomico e terribile”, per riprendere un’efficace espressione di Antoine Garapon. Infatti – come con tagliente lucidità scriveva Giovanni Falcone – «se il potere dell’accusa non comporta responsabilità, tutti la temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta in qualunque contesto». Parole forti ma parole vere. La citazione del grande Magistrato (isolato e combattuto anche per queste parole) prosegue poi con la domanda retorica: «come è possibile che in un regime liberaldemocratico […] non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti?». Appunto: come è possibile? Terza ragione. Sul tavolo dell’unicità delle carriere vien calato un preteso asso: l’art. 112 Cost. secondo cui: «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Così come il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101, comma 2° Cost.), il pubblico ministero è gravato da un obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale. Indistintamente, indefettibilmente, incondizionatamente, quale luminosa garanzia di uguaglianza e di parità di trattamento. Il trait d’union che unisce giudice e pubblico ministero, entrambi vincolati, l’uno alla legge, l’altro all’esercizio dell’azione penale, è dunque il ponte su cui passa un’unica carriera per entrambi. Ma, più che di un argomento si tratta piuttosto delle comiche finali. Scriveva Robert H. Jackson, nel 1940 General Attorney degli Stati Uniti d’America: «L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una delle maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve

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A PROPOSITO DELLA C.D. “CULTURA DELLA GIURISDIZIONE”

  di Francesco Calabrese*   Il dibattito sulla legge costituzionale di riforma dell’ordinamento giudiziario, con la previsione della separazione delle carriere tra magistrato del pubblico ministero e magistrato giudicante, si sta progressivamente infervorando. Letture dietrologiche ed argomenti ad hominem si sostituiscono sempre più spesso ad un sano confronto sui temi e sulle ragioni che ciascuna delle parti adduce a sostegno della propria posizione. L’auspicio, in questo senso, è che lo stesso si mantenga nei limiti di un confronto sui contenuti. Dunque, dovrebbe porsi in analisi l’intervento normativo, gli effetti che ne potrebbero derivare sull’assetto istituzionale e l’incidenza che gli stessi possano assumere rispetto alla situazione che è in atto. In questa prospettiva si pone, pertanto, il presente contributo.    Ovviamente, affermare che la separazione delle carriere assuma – a parere di chi scrive – un’importanza fondamentale per realizzare (rectius, cominciare a realizzare) a pieno i principi di un “giusto” processo accusatorio è imprescindibile. Ma sarebbe anche ovvio limitarsi a ribadirne la valenza solo ed esclusivamente in questa prospettiva. Attraverso queste riflessioni, dunque, ci si ripropone di analizzare in maniera approfondita uno dei temi che viene spesso addotto per contrastare la riforma in atto: la realizzazione della cosiddetta “cultura della giurisdizione”. Locuzione assai suggestiva, questa, che essenzialmente sottende una sorta di comune contesto di appartenenza tra organo giudicante e organo requirente tale per cui, essendo entrambi intrisi di tale “retaggio culturale”, difficilmente potrebbe accadere che un’indagine penale possa essere “forzata” a tal punto da risultare non ortodossa rispetto ai meccanismi di acquisizione della prova; ovvero che, prima ancora delle norme poste a garanzia della ortodossia metodologica nelle indagini del pubblico ministero, vi sarebbe questa comune base culturale che lo porrebbe quale egli stesso “giudice” delle prove in corso di formazione o da acquisire, in termini tali da garantire un equilibrio nello sviluppo della stessa attività investigativa. In ciò richiamandosi – lo si consenta – la ormai desueta figura del giudice istruttore, del tutto avulsa da un contesto di tipo schiettamente accusatorio quale dovrebbe essere il nuovo processo penale. Il riferimento viene espresso in svariate e multiformi graduazioni esplicative: dal fatto che, essendo il pubblico ministero egli stesso giudice, difficilmente potrebbe perdere quell’equilibrio valutativo che lo caratterizza; al fatto che la comune appartenenza tra organo requirente ed organo giudicante vorrebbe il primo in una posizione di fortissimo imbarazzo laddove dovesse sostenere, di fronte al secondo, un’accusa fondata su basi assolutamente infondate; alla conclusiva affermazione secondo cui, semmai, una pregressa esperienza del pubblico ministero quale organo giudicante risulti estremamente formativa sul piano culturale, tanto da renderlo maggiormente esperto ed equilibrato. Così, in questa prospettiva, vengono addotte tutta una serie di situazioni (magari anche derivanti da casi concreti che si sono verificati) in cui sarebbe dimostrato che la suddetta “cultura della giurisdizione” abbia effettivamente assunto una funzione limitatrice rispetto ad eventuali impulsi tesi a forzare le modalità di acquisizione della prova. Rispetto a questa ricostruzione, di converso, ne viene contrapposta un’altra secondo cui, in realtà, questa comune appartenenza a tale ambito culturale rischi di determinare un forte – certamente maggiore del dovuto – condizionamento in capo all’organo giudicante che, proprio in virtù di tale condivisione, rischia di riconnettere in capo al pubblico ministero, una patente di fondatezza del procedimento di acquisizione delle prove (e dei relativi risultati). Dunque – si obietta rispetto alla prima opzione – questa comune appartenenza, più che portare il pubblico ministero verso una cultura della giurisdizione sposta invece la funzione giudicante verso l’angolo della pubblica accusa; con tutte le consequenziali determinazioni che da ciò ne possano derivare in punto di realizzazione di un processo di valutazione della prova che sia equilibrato e “terzo”. Anche in questo caso si susseguono richiami a situazioni concrete in cui tali evenienze si sono verificate, ponendo in assoluto rilievo la necessità che, dunque, sia in ogni caso garantita la terzietà della funzione giurisdizionale. Orbene, già da tale preliminare – anche se approssimativa – esposizione delle due posizioni sarebbe fin troppo agevole propendere per la seconda: il rischio che la funzione giurisdizionale possa essere in alcun modo condizionata, infatti, non può essere in ogni caso commensurato rispetto a qualsivoglia garanzia delle modalità acquisitive della prova. O, se si vuole, avere un pubblico ministero che possa in alcun modo forzare le modalità acquisitive risulta chiaramente subvalente rispetto ad un mancato o inefficace controllo giurisdizionale delle suddette procedure. La comparazione, ovviamente, è fondata su basi prettamente probabilistiche, su elementi prognostici, e dunque lascia il tempo che trova; tuttavia, appare già preliminarmente imprescindibile evidenziare come i due valori in gioco (da una parte la terzietà del giudizio e, dall’altra, la ortodossia nella acquisizione probatoria) non possano essere in alcun modo messi a confronto. In ogni caso, non è su questo campo che si vuole porre il focus delle presenti riflessioni. Il tema, invece, lo si vorrebbe spostare su un piano diverso di schietta natura, per così dire, epistemologica: su quale base cognitiva è fondato l’assunto secondo cui l’appartenenza alla comune “cultura della giurisdizione” garantisca un processo acquisitivo delle prove conforme alle regole del giusto processo? In effetti, se si riflette bene su tale punto, ci si rende conto di come l’assunto secondo cui la comune appartenenza a tale milieu culturale dovrebbe garantire una corretta esplicazione dell’attività acquisitiva delle prove sia sostanzialmente autoreferenziale. E ciò non solo perché non risulta fondato su alcun elemento giustificativo sul piano generale e formale; ma soprattutto perché, nel concreto, non esiste un mezzo che, prima ancora del controllo giurisdizionale, garantisca che i meccanismi di acquisizione della prova siano stati esplicati in maniera ortodossa sol perché attivati da un pubblico ministero imbevuto di tale cultura. In buona sostanza, dunque, non sussiste alcun principio generale – né di carattere giuridico, né di carattere epistemologico – che possa in alcun modo sostenere l’assunto secondo cui l’appartenenza a tale ambito culturale determini ipso facto la garanzia di una sorta di ortodossia acquisitiva della prova. E soprattutto, non esiste alcuno strumento – di natura prettamente processuale o meno che sia – che, sia sul piano potenziale che su

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IL GIUDICE: UN FREDDO OPERATORE DEL DIRITTO?

di Maria Clausi*- Molti pensano che chi opera nel mondo del diritto nel suo agire sia guidato esclusivamente dalla logica e dalla rigida osservanza delle norme. Probabilmente per molti sarà così: il diritto e le sue logiche come esigenza suprema che non può essere piegata a nulla! In verità, il diritto è sterile se non si interpreta in modo da renderlo più vicino all’uomo. Cristo, a proposito della rigida osservanza dei numerosi divieti imposti di sabato, affermava: Il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato (Vangelo secondo Marco, capitolo 2). E così anche Marx, nella sua critica al pensiero di Hegel, affermava: la legge esiste per l’uomo e non l’uomo per la legge. Il giudice, dunque, nello svolgimento della sua delicatissima funzione non può compiere una rigida e fredda applicazione delle norme, senza tener conto che quelle norme sono destinate a regolare una vita, una sorte; a incidere sulla storia di un uomo e della sua famiglia. Il giudice che ha una formidabile preparazione giuridica, ma una scarsa sensibilità umana, sarà un buon tecnico, non un buon giudice. Il giudice, pur evitando coinvolgimenti emotivi che potrebbero paralizzare il suo lavoro, deve necessariamente fare uso di buon senso, umanità, carità ed empatia. Egli non può spogliarsi della sua dimensione umana quando svolge la sua funzione. Un giudice deve essere anche un po’ filosofo, sociologo, psicologo e letterato e la sua cultura giuridica deve essere arricchita da quella umanistica. Egli deve saper comprendere e conoscere la realtà del suo tempo ed i fenomeni, nel loro costante divenire, che si creano in seno alla società perché questi influenzano l’agire del singolo. Specie nel settore penale il giudice deve saper essere un attento osservatore del comportamento umano e della realtà che lo circonda. Nel processo penale il giudice deve saper cogliere i contesti sociali e famigliari che hanno determinato la condotta del reo: egli deve saper essere un buon indagatore dell’animo umano. Ma soprattutto nel momento in cui siede dietro il suo scranno in udienza e quando siede dietro la sua scrivania in camera di consiglio egli deve tenere sempre a mente che dietro quel fascicolo che sta sfogliando vi sono degli esseri umani, col loro vissuto, la loro coscienza, il loro presente, il loro futuro, il loro dolore ed il loro sconforto. La lettura del codice, indispensabile ad una corretta valutazione del fatto, deve essere accompagnata dalla lettura dell’anima e deve essere sorretta da una coscienza vigile e severa, soprattutto con sé stesso. Una buona lettura del codice farà una buona sentenza, ma solo una lettura del codice illuminata dalla coscienza farà una sentenza giusta. *Giudice onorario

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CITTADINANZA, PARRESIA E AVVOCATURA

di Massimo La Torre* – I. Intendo qui intrattenermi su tre grandi esperienze della storia politica e giuridica occidentale. Si tratta della cittadinanza, della parresia, o libertà radicale di parola, e dell’avvocatura. Inizio dunque con la cittadinanza. Il tema è immenso (invero tutte e tre le nozioni qui messe in gioco sono assai vaste). Di cittadinanza, in genere, si parla in tre significati. (i) La cittadinanza, dal punto di vista del diritto internazionale, si definisce come appartenenza, nazionalità. (ii) Vi è poi una definizione più vicina al diritto costituzionale e più centrale per la filosofia politica e del diritto, che è quella della partecipazione alla decisione sulla legge in una comunità politica. (iii) Vi è infine un terzo approccio alla cittadinanza, più sociologico, in cui la cittadinanza si definisce come appartenenza in termini sociali (gli inglesi parlano a tal proposito di “membership“, o “belonging“) o addirittura come appartenenza attiva, come coinvolgimento all’interno di una comunità dal punto di vista sociale, coinvolgimento relativo alla vita politica, impegno di partito od anche sindacale. Ora, chi sparla ritiene (e crede che la posizione adottata trovi conforto nella storia della nozione e della pratica di questa) che il senso centrale, il cuore della nozione corrisponda al suo significato “politico” o “costituzionale”: la partecipazione come titolarità di diritti politici.             Mi sia consentito argomentare innanzitutto a contrario. La cittadinanza non è mera “titolarità di diritti umani”. Questo è un punto molto importante: la cittadinanza – purtroppo – non è solo appartenenza o titolarità di diritti umani. Non si lascia ridurre a queste due situazioni. Su ciò ha scritto in maniera intensa e radicale una delle filosofe più interessanti del Novecento qual è Hannah Arendt, autrice di uno splendido libro come Le origini del totalitarismo[1]. Arendt riflette sulla grande tragedia del Novecento, ed arriva a questa conclusione: guai ad essere solo titolari di diritti umani. Se si è titolari di soli diritti umani si è persi. Perché? Perché non si ha cittadinanza: ciò che ci offre protezione è la cittadinanza. Ciò che ci protegge è fondamentalmente la comunità politica, la capacità di darsi delle leggi in un contesto istituzionale e di contribuire al darsi delle norme in tale contesto, unitamente alla capacità di poter rendere effettive queste norme. I diritti umani, purtroppo, non offrono nulla di ciò. Lo dà la cittadinanza. Ed ecco perché la cittadinanza viene inclusa tra i diritti umani: l’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo stabilisce che il diritto alla cittadinanza è un diritto umano fondamentale[2]. Ma se un soggetto è titolare di soli diritti umani e non gli viene concessa la cittadinanza è posto in una situazione di pregiudizio, di grave pericolo. Fondamentalmente è uno stateless, apolide, un “senza patria”. (B) Ora, la cittadinanza non è nemmeno soltanto “capacità giuridica o soggettività giuridica”. Hannah Arendt sbaglia, allorché crede che la soggettività di diritto equivalga alla cittadinanza. Chi ha compiuto gli studi del primo anno di Giurisprudenza sa bene che la soggettività giuridica non equivale – fortunatamente – alla cittadinanza. Anche il non-cittadino è soggetto di pieno diritto: egli può stipulare un contratto, acquisire ed essere titolare di diritti reali, agire in giudizio etc. È possibile una qualche attività giuridica importante ed un riconoscimento della soggettività giuridica anche per il non-cittadino. C’è tuttavia chi non vuole questo, e forse ciò non era del tutto chiaro alla Arendt. La cittadinanza però non è mera “appartenenza”. Ché questa è un criterio spesso definito in termini etnici o comunitaristici, senza che ciò implichi alcuna qualità di soggetto autonomo padrone di un proprio progetto di vita. La sudditanza è anch’essa appartenenza, ma non è ovviamente cittadinanza, che rinvia ad una posizione di autonomia e dignità. Il suddito subisce l’appartenenza, il cittadino decide su di essa. Determinante per la vigenza di uno status proprio di cittadinanza è l’attribuzione di una competenza su competenza, come accade per la sovranità di cui la cittadinanza non è che un’altra faccia. Si è cittadini e v’è cittadinanza, e si è titolari del diritto di contribuire alla produzione ella norma sulla cittadinanza. La cittadinanza non è neppure “partecipazione”, là dove questa si intenda come partecipazione “non qualificata”, nel senso sociologico menzionato prima. Non basta essere membro di un sindacato o di un partito politico, o di un comitato di quartiere per avere cittadinanza: la cittadinanza è titolarità dei diritti politici, della possibilità di contribuire ed avere accesso alla produzione della legge, della norma giuridica. Ciò significa anche che cittadinanza e democrazia sono situazioni intimamente connesse. La cittadinanza è una delle due facce della moneta dell’ordine politico democratico. L’altra faccia è la sovranità, il potere di deliberare e di statuire la norma vincolante per la comunità di riferimento. Giungo pertanto alla mia tesi centrale sulla cittadinanza. La definizione di cittadinanza che adotto non è propriamente “mia”, fa parte di una antica tradizione di pensiero. Questa di séguito ritengo sia la definizione corretta. Il cittadino è membro partecipante di una comunità politica e lo è mediante l’accesso alla produzione delle norme giuridiche, tanto generali quanto individuali, vale a dire alla legislazione e – in particolar modo – anche alla giurisdizione. Questo è un punto chiave per l’idea che qui presento. Il cittadino deve poter accedere anche alla giurisdizione, alla produzione della norma individuale (utilizzando la terminologia kelseniana, adottando pertanto la differenza tra norma generale del legislatore e norma individuale contenuta nella sentenza, nella decisione giudiziale). Il cittadino deve poter accedere a tale produzione di norme su un piede di uguaglianza con gli altri cittadini. Tale uguaglianza si specifica – questo è un punto fondamentale – nella comune libertà di chiedere e dare ragione. La cittadinanza implica il potere, una libertà, di chiedere ragioni e di dare ragioni per ciò che concerne tutti gli atti di autorità che si esige siano applicabili al cittadino stesso. La cittadinanza si inventa in Grecia, fondamentalmente, e ad Atene in particolare. La tradizione politica e culturale degli Antichi, nonostante tutti i salti, i cambiamenti e le fasi di “quiescenza” del Cristianesimo (che sconvolge il mondo classico) e

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GESÙ DEVIANTE E CRIMINALE? DALLA PREDICAZIONE AL PROCESSO

Charlie Barnao* e Domenico Bilotti** –    Gesù deviante universale A partire dal 1970 le scienze sociali hanno avuto un ruolo sempre più importante negli studi sui Vangeli. I primi sforzi si sono concentrati nell’applicazione di specifiche teorie sociologiche agli studi biblici ma, nel tempo, la ricerca ha attinto anche da una gamma più ampia di discipline, tra cui l’antropologia culturale, le scienze politiche, il diritto, l’economia, la psicologia sociale. Il mio lavoro sui Vangeli si inserisce nel filone di studi delle scienze sociali che utilizzano la strumentazione concettuale e teorica della sociologia della cultura e della sociologia della devianza per leggere gli episodi principali che caratterizzano la vita di Gesù nel suo percorso di predicazione e diffusione di un modello culturale e di vita. Gli interrogativi di partenza che mi sono posto, in continuo dialogo con il lavoro di Bilotti che si è occupato in particolare della vicenda giuridica e processuale di Gesù, sono i seguenti. Gesù di Nazaret era davvero un criminale? È davvero questa la ragione principale per cui fu torturato e, quindi, giustiziato dalle autorità del suo tempo? È esistito un legame tra il suo essere “uomo marginale” – ai confini di culture diverse, sempre dalla parte di coloro che occupano le posizioni più basse della gerarchia sociale – e la sua condanna? In che modo il rapporto tra “cultura” e “diritto” ha influenzato la sua sorte? E infine quali sarebbero oggi per lui, dopo oltre duemila anni di diffusione del suo messaggio culturale, gli esiti della sua vicenda? Nel tentativo di dare una (almeno iniziale) risposta a queste domande, si è avviato così un lungo (e, ovviamente, ancora in itinere) percorso di ricerca e riflessione sociologica sul significato culturale dell’azione di Gesù nel suo e nel nostro tempo. Partendo dalla lettura dei Vangeli, in dialogo con la letteratura scientifica sul tema, la riflessione si è avviata ed è stata accompagnata da un confronto su queste tesi, attraverso incontri e dibattiti organizzati ad hoc con gli attori sociali più diversi: studenti universitari, detenuti dell’Alta sicurezza del carcere di Catanzaro, esperti di esercizi spirituali ignaziani, studiosi di molteplici discipline scientifiche, tutti a diverso titolo interessati a discutere sul tema. Le aule universitarie (nel carcere di Catanzaro e nel campus universitario di Germaneto) sono diventate così delle vere e proprie incubatrici in cui maturavano, si criticavano, si re-indirizzavano le idee che emergevano, di volta in volta, dal confronto reciproco in un processo di analisi, interpretazione e attualizzazione sociologica dei Vangeli. Gesù adottava senz’altro una condotta estremamente deviante per il suo tempo e proprio per queste ragioni formali fu condannato ad una pena estrema, rivolta ai criminali peggiori: la morte per crocifissione, fuori dalle mura della città. Ma, al di là degli specifici episodi e degli specifici reati che gli venivano contestati e che lo avrebbero portato alla condanna e alla morte, tutta la vita di Gesù è costellata da azioni devianti. Gesù è un deviante culturale. La cultura proposta da Gesù nel suo percorso di vita era contraria alle norme sociali del suo tempo, divenendo, talvolta, addirittura un modello contrapposto a quello dominante. I comportamenti proposti da Gesù sono spesso talmente “fuori dalla norma” e di rottura con la società che lo circonda che frequentemente non sono stati compresi neanche dagli apostoli e da coloro che erano a lui più vicini. Il tema della devianza di Gesù si presenta così in stretta relazione con il rapporto tra “puro” e “impuro”. Infatti nei Vangeli (come in molte società umane) la riflessione su ciò che è “impuro” talvolta riguarda una riflessione sulle relazioni tra ordine e disordine, tra normale e deviante, tra essere e non essere, tra forma e assenza di forma, tra vita e morte. Ma il modello culturale di devianza che viene formalizzato nei Vangeli non è deviante solo per il mondo in cui Gesù visse. Il modello culturale proposto da Gesù è deviante in modo universale. Se è sottolineato da molti studiosi come Gesù fosse considerato un individuo profondamente deviante in relazione al suo contesto contemporaneo, il suo “modo di procedere”, il suo “modo di essere”, trasmessi ai suoi discepoli e a tutti coloro che con lui entravano in relazione, può essere considerato addirittura deviante in ogni tempo e in ogni luogo, perché mina alle basi alcuni veri e propri universali culturali, elementi presenti e comuni a qualsiasi cultura umana. In particolare il modello culturale proposto da Gesù sembra destabilizzare e relativizzare l’importanza dei legami di sangue (a cominciare dalla famiglia), del sistema di stratificazione sociale (per esempio, le disuguaglianze strutturate in base a classi e ceti), delle tradizioni culturali più rigide e maggiormente riconosciute nella comunità (prima fra tutte la religione). Se il modello culturale proposto da Gesù è universalmente deviante, allora dobbiamo dedurre che sarebbe deviante anche nei confronti del nostro odierno modello culturale dominante. E su questi presupposti, quindi, ci possiamo chiedere: cosa accadrebbe oggi se Gesù si presentasse a noi? Come verrebbe accolto il suo messaggio culturale? In che modo la nostra società giudicherebbe devianti le sue azioni, adattate al contesto culturale dei nostri giorni? È ovviamente difficile rispondere con precisione ad una domanda del genere e certamente sarebbe necessario un lungo lavoro di analisi e di riflessione, che in questa sede non possiamo affrontare. Di sicuro in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, caratterizzato dalla crisi delle democrazie e dal ritorno degli autoritarismi/nazionalismi/ fascismi da una parte e, dall’altra, dal dilagare del populismo penale con conseguente ritorno alla “crudeltà” nel diritto, un messaggio  come quello di Gesù, che si presenta come universalistico, antiautoritario, interclassista e particolarmente deviante verso ogni forma di discriminazione sociale, gerarchia di dominio e ingiustizia sociale, sarebbe molto probabilmente considerato come profondamente sovversivo, pericoloso ed estremamente violento (almeno da un punto di vista simbolico) contro l’ordine costituito. La repressione nei confronti di un attore sociale, Gesù, che attraverso azioni quotidiane e radicali si facesse interprete di un messaggio del genere, sarebbe, con ogni probabilità, estremamente dura e il suo tipo di comportamento deviante verrebbe forse inquadrato

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L’AZIONE COME STRUTTURA DIALETTICA DI UN CONFLITTO

di Domenico Bilotti* –  La più stimolante contraddizione nel vissuto telesiano consiste nella sua afferenza a un mondo di relazioni sociali ancora in gran parte profondamente derivativo, rispetto alla demografia e ai rapporti civili in opera, e nella schietta rivendicazione di un orizzonte di senso meno ipostatizzato e conservatore delle mode del periodo. Ciò certo non fa di Bernardino Telesio un rivoluzionario, sicuramente non nel senso che al lemma hanno attribuito il diritto costituzionale e la dottrina dello Stato negli ultimi due secoli. Ne individua la teoresi, tuttavia, in una interlocuzione critica coi saperi e in una modalità tutta nuova di secondarne la diffusione. Sul piano dell’analisi giuridica serve adesso comprendere se quella spinta controtendenziale abbia avuto, o meno, riflessi empiricamente riscontrabili, nel metodo della discussione giudiziaria e delle sue categorie operative di riferimento. Dal punto di vista redazionale, il De Rerum Natura Iuxta Propria Principia precorre la manualistica dei secoli successivi, anche sul piano della stesura – per altro verso, secondo una modalità di scrittura molto frequente nell’accademia meridionale. Telesio portava con sé una sorta di set di appunti, per le dispute, le lezioni e i dibattiti cui partecipava, e mano a mano certosinamente ingrossava il blocco, conferendogli struttura più rifinita. Il primo libro dell’opera è pubblicato a Roma soltanto nel 1565: da oltre un ventennio, però, era ben nota l’elaborazione telesiana e, almeno dal decennio precedente, sia a Napoli sia in Roma è probabile circolassero appunti e sintesi del più vasto opus telesiano. Che il primo libro monografico dell’A. appaia quando ormai è ultracinquantenne dimostra invero l’ulteriore processo di composizione dell’opera, secondo una sua coerenza interna, ma anche tramite un iter progressivo fatto di revisioni continuative. Il De Rerum Natura è in sostanza (esattamente come per i grandi dottrinari della scienza privatistica nel Novecento) un libro noto quanto ai suoi orientamenti di fondo, ben prima che sia integralmente pubblicato. Probabilmente, anzi, hanno un ruolo a che sia presto edita anche la seconda sezione del volume, solo cinque anni più tardi, a Napoli, le pressioni entusiastiche di un mondo culturale interessato a leggere finalmente a sistema le tesi del filosofo cosentino, non bastando più la singola circostanza oratoria nella quale volta per volta fossero state presentate, nella sede di un dibattito specialistico. È probabile, ancora, che Telesio stesso sia addivenuto a questa decisione per almeno tre ordini di motivi. Il primo, quello più comprensibile agli occhi della posterità, è che avere una fonte ufficiale, scritta e finanche vistata dal suo autore, avrebbe consentito di eliminare interpolazione esterne, garantendo così una più salda e attendibile circolazione della stessa. Su Telesio poi gravavano singolari sospetti per posizioni strutturalmente eterodosse, rispetto alla linea ufficiale del magistero ecclesiastico e alla tradizione teologica che ne sostanziava, nella pratica, la dottrina e il consenso. Da questo punto di vista, come ogni oppositore al sentire comune del suo tempo, che però accetta di non violarne le istituzioni, Telesio è un singolare tipo di umanista, eppure non tanto di nuovo conio. Proviene da una famiglia altolocata, nella quale il rapporto con le autorità ecclesiastiche è sempre stato radicato, risalente e solido. Come si è precedentemente osservato, per quanto non lo fosse in senso stretto, talvolta Telesio era definito dalle fonti un chierico. Se chierico era, tuttavia, lo era soprattutto nel senso storico-etimologico e socio-culturale delle esperienze dei clerici vagantes, a base della nascita del sistema universitario europeo: pensatore itinerante, spirito acceso, di abilità pedagogico-persuasiva. Non invece nel senso strettamente giuscanonistico che ancora modellava lo strumentario intellettuale del giurista di rango, per il tramite dell’utrumque ius nella dottrina privatistica (che a quella straordinaria fase di significazione interordinamentale, tra digesto e corpus, ancora guardava, per formazione, se non per convinzione) e del diritto inquisitoriale nelle procedure criminali. Telesio aveva viepiù prole legittima e una moglie alla quale era affezionatissimo: è lo stato vedovile che rende plausibile la proposta di Pio IV; in assenza di quello, il diritto vigente cinquecentesco avrebbe potuto far qualificare Telesio anche come consigliori ecclesiastico, giammai quale vescovo o porporato. En passant, la tanto vituperata inquisizione, certo esecrabile sul piano delle condanne emesse e delle ragioni giustificative e apologetiche delle medesime, tuttavia fu, alla stregua di quanto oggi notano internazionalisti e processualisti, la prima base per configurare una giurisdizione generale alternativa al primato delle sovranità territoriali. Lì, e ieri, promossa in ragione dell’universalismo teologico; qui, e oggi, legittimata de facto da una governance e da una petizione sui diritti umani non più demandabile alla sola cornice statuale, dove anzi più spesso le violazioni avvengono. Quale che ne sia stato l’impatto, la tardiva pubblicazione del De Rerum Natura è così bilanciamento tra il mantenere una posizione esteriore il più possibile cautelata, rispetto alle rimostranze canoniche, e l’opportunità di rendere però chiaro (senza travisamenti esterni) quanto l’analisi telesiana andava svolgendo e sviluppando. Ed è proponibile un terzo ordine di motivi, per cui finalmente l’inesausto Telesio scelse finalmente di pubblicare i risultati delle sue ricerche e delle sue riflessioni: il fatto, da un lato, che fosse mano a mano più convinto della piattaforma gnoseologica avanzata e che, dall’altro, esistesse ormai sia nell’ambiente partenope, che in quello pontificio un pubblico interessato all’opera. I tempi per la gestazione matura del testo integrale si rivelano, del resto, autenticamente telesiani: il primo volume è del 1565, l’edizione completa è del 1586 – napoletana, e questa è conseguenza biografica. Nel primo periodo romano, la protezione di curia ha un peso; negli ultimi due decenni di vita, sono i nobili Carafa di Nocera a garantire al filosofo favori e consensi. È il periodo nel quale Telesio diventa in un certo senso l’intellettuale di riferimento in un certo tipo di convivi e simposi. Gli sono amici il drammaturgo e numismatico Annibal Caro – nonostante il petrarchista fosse teoreticamente ancora devoto al vetusto verbo aristotelico – e il grande letterato Torquato Tasso, che personalmente consola Telesio per il dramma del figlio ucciso. Perché Telesio non è percepito dalla cultura, prossima, successiva come un fautore del riformismo giuridico? Bisogna ammettere che giurista professionale non è; la sua

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