SAN GIORGIO SESSANTAQUATTRO ANNI DOPO, TRA SOGNO E REALTÀ. PARLA GIORGIO SPANGHER
di Angela La Gamma* – È innegabile che l’attuale sistema processuale di tipo accusatorio sia in profonda crisi: il codice di procedura penale del 1988, a causa delle continue interpolazioni e riforme asistematiche, ha perso la sua connotazione accusatoria, per assumere, pian piano, una inquietante veste inquisitoria. Al fine di arginare tale deriva, l’UCPI ha pensato di elaborare, attraverso l’opera di una commissione istituita ad hoc, una bozza di legge-delega contenente proposte di riforma dell’attuale codice di procedura penale. Queste proposte di riforma sono state presentate nel corso di un evento che si è svolto il 14 e il 15 marzo scorsi sull’isola di San Giorgio Maggiore (Venezia), presso la Fondazione Giorgio Cini. La scelta del luogo non è stata casuale: nel 1961, infatti, nei locali della predetta fondazione studiosi del calibro di Carnelutti, Vassalli, De Marsico, Foschini, solo per citarne alcuni, gettarono le basi del nuovo codice accusatorio, in riforma di quello inquisitorio all’epoca vigente. Stante la rilevanza dell’evento, nonché della tematica ad essa sottesa, abbiamo pensato di offrire ai nostri lettori il punto di vista di uno dei massimi procedural-penalisti italiani, il professor Giorgio Spangher, il quale ci ha illustrato la sua visione prospettica in merito alla possibile riforma del codice di procedura penale; un piccolo inciso, l’intervista al professore è stata permeata ed infiammata da quel sacro fuoco della passione per la materia che lo anima da una vita e che è veramente un peccato non possa trasparire nello scritto. Professore, Le chiedo, innanzitutto quale è la sua impressione a caldo sull’evento del 14 e 15 marzo scorsi? «Sicuramente è stata una bella esperienza che è andata anche al di là delle aspettative, perché all’inizio si pensava potesse essere solo una mera ricognizione delle criticità. Orbene; è noto che il processo penale italiano sia un processo assolutamente dissestato su cui si è intervenuto con modifiche occasionali ed a-sistematiche; si tratta di un sistema che non riesce ad avere alcuna organicità. Ed allora, in un simile contesto, l’idea di Venezia, di riprendere l’esperienza del 1961 da cui era nato il seme del sistema accusatorio dell’88 è stata una idea vincente, anche perché, con gli anni, i problemi si sono accresciuti. Nel 1961, ad esempio, non c’era la criminalità organizzata, non c’era il sistema delle fonti attuale; l’evento di Venezia, quindi, è stato un’esperienza e un’occasione di confronto interessante, perché, quantomeno, si è tracciata la direzione di una possibile riforma, che poi è quella di un sistema accusatorio che non può essere quello dell’88, ma che, certamente, deve avere nell’accusatorietà i suoi cardini fondamentali di base». Scendiamo ora nello specifico delle proposte riformatorie, partendo dalle indagini preliminari e dalle questioni ad esse connesse, alcune proposte avanzate e illustrate a San Giorgio prevedono, ad esempio, di limitare e regolamentare le proroghe delle indagini, o per quel che concerne le misure cautelari personali, di individuare un giudice funzionalmente competente ovvero di eliminare ogni presunzione legale di sussistenza delle esigenze cautelari o di limitare la custodia cautelare disposta per le esigenze di cui alla lett. C) dell’art. 274 c.p.p. solo a casi determinati. Con riferimento alle misure cautelari reali, invece, si è proposto di porre dei limiti ai sequestri attraverso, ad esempio, la previsione di gravi indizi di concreta sussistenza del fatto. Orbene, queste proposte, una volta che dovessero essere inserite nell’impianto codicistico, determineranno una maggiore garanzia dei diritti della persona indagata? «Allora partiamo da un dato. Nelle riforme del processo penale si usa l’espressione “tutto si tiene”; cioè, non è che si può intervenire, ad esempio, sulle impugnazioni, senza tenere in considerazione la fase dibattimentale e prima ancora quella delle indagini, ma occorre che la riforma sia organica e ricostruisca un sistema che organico, ormai, non lo è più. Naturalmente non è possibile mandare le lancette dell’orologio indietro fino all’88 perché l’idea di una indagine preliminare snellissima non è sostanzialmente più praticabile; e però occorre cercare di ridimensionare la fase dell’indagine da quel gigantismo che ha assunto. E le proposte di riforma, che mirano a vincolare maggiormente il pubblico ministero a tempistiche determinate ed a favorire un controllo del giudice, soprattutto sulla inazione del p.m., appaiono importanti. Già una riduzione dei termini di durata delle indagini era stata operata dalla riforma Cartabia, ora si cerca di ridurli ulteriormente, ma si fa un’operazione aggiuntiva. Il giudice non sarà più il giudice dell’atto, il famoso giudice dell’88 e non sarà neanche il giudice del procedimento. Sarà il giudice del fascicolo e ciò gli consentirà di controllare quello che fa il pubblico ministero senza intervenire. Al giudice viene attribuito un ruolo di garante, di vigile, per evitare l’inerzia del PM e le proroghe chieste dopo mesi di inattività. Così come, per quanto riguarda le limitazioni all’incidente probatorio, sarebbe opportuno che lo stesso si svolgesse, non innanzi al Gip, bensì dinnanzi al giudice chiamato a decidere: solo così può essere ripristinato il canone dell’immediatezza. L’art. 392 c.p.p. è scritto male e va riformulato con riferimento non ad un giudice qualsiasi, bensì al giudice del contraddittorio e della decisione. Altra proposta rilevante, passando alla tematica delle misure cautelari, è l’individuazione di un giudice della cautela, così come sono importanti, a mio avviso, gli ulteriori limiti che vengono previsti per l’applicazione delle misure custodiali. E ciò sia per ciò che concerne gli interventi sull’ultimo periodo della lettera C) dell’art. 274 c.p.p., sia per quel che riguarda la volontà di eliminare le presunzioni di cui all’art. 275 c.p.p. che non c’erano nel codice dell’88. Stessa cosa per le misure reali; anche in questo caso la previsione espressa di limiti, finora solo individuati dalla Cassazione ma mai esplicitati in una norma, è utile per garantire le legalità anche nel c.d. “processo alle cose”. Certo, un qualche spiraglio di garantismo si è iniziato a vedere nella giurisprudenza della Suprema Corte da quando è Presidente Margherita Cassano, la quale, a differenza di Giovanni Canzio, è più legata al dato normativo e meno all’efficientismo; Canzio vedeva il processo come una macchina che deve funzionare. E invece Margherita Cassano è più orientata
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