Diritto Sostanziale

Principio di autonomia della responsabilità dell’ente

a cura di avv. Francesco Mazza, avv. Francesco Catanzaro, avv. Maria Laura De Caro, avv. Serena Lacaria, avv. Alessio Russo, dott.ssa Annalaura Ludovico Da poco più di un ventennio è stata introdotta all’interno del nostro ordinamento, tramite il d.lgs. n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti i quali divengono, così, centri di imputazione autonomi e ulteriori rispetto all’autore persona fisica del reato. L’art. 1 del d.lgs. in esame chiarisce il campo di applicazione della disciplina relativa alla “responsabilità da reato degli enti”, stabilendo che essa possa sorgere sia a carico degli enti forniti di personalità giuridica sia a carico di quelli che ne sono privi. Non sono invece soggetti a tale normativa gli enti di cui al comma 3: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono attività di rilievo costituzionale. La ratio di tale esclusione va ricercata nella considerazione che, con riferimento a detti enti, le tipologie di sanzioni previste dal decreto legislativo 231/2001, quali la sanzione pecuniaria e la sanzione interdittiva, sarebbero inapplicabili o disfunzionali, perché i loro effetti negativi, lungi dal ricadere direttamente sull’ente, si produrrebbero invece in capo ai cittadini. Occorre precisare, inoltre come non sia sufficiente che tali soggetti commettano un fatto di reato, ma è necessario, affinché sorga anche la responsabilità dell’ente, che il comportamento penalmente illecito sia commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, con la precisazione ex art. 5 comma 2 che, qualora il soggetto attivo del reato agisca per un interesse esclusivo proprio o di terzi, la responsabilità dell’ente non può sorgere. Così facendo si assiste ad un superamento del dogma secondo cui “societas delinquere et puniri non potest” per il quale solo una persona fisica può rispondere della commissione di un reato e non anche un soggetto giuridico. Tuttavia, la normativa in esame, per come delineata e precisata anche dalla Suprema Corte, prevede che l’ente possa andare esente dalla responsabilità da reato, ma le condizioni di tale esenzione dipenderanno dalla qualifica rivestita dall’autore del reato: Se il soggetto attivo del reato si trova in una posizione apicale all’interno dell’ente, quest’ultimo potrà sottrarsi a responsabilità solo dimostrando di aver adottato ed efficacemente attuato i modelli di gestione idonei a prevenire la commissione di reati; Se il reo si trova in posizione subordinata, deve essere l’accusa a dimostrare in giudizio che il modello di gestione adottato non era idoneo o non era stato adeguatamente attuato. In relazione a quanto sopra delineato appare doveroso rappresentare le posizioni dottrinali e giurisprudenziali sopravvenute, soprattutto relativamente al principio di autonomia della responsabilità dell’ente sancito dall’art. 8, comma 1, lett. b) del d.lgs. 231/2001.   Un esempio esplicativo della disciplina in esame è certamente riconducibile all’ipotesi di prescrizione del reato presupposto, la cui conseguenza è quella secondo cui il giudice istruttore sarà comunque tenuto a valutare e procedere tramite un percorso processuale del tutto autonomo ed infatti, essa sussiste anche nelle ipotesi in cui il reato “presupposto” si estingue, eccezion fatta per le ipotesi di amnistia. L’illecito dell’ente, pertanto, pur essendo inscindibilmente correlato alla commissione di un reato da parte di una persona fisica nell’interesse o a vantaggio dell’ente, risulta comunque caratterizzato da autonomia giuridica e a confermarlo è la Suprema Corte in due sentenze che si qualificano come promotrici di un pensiero per il quale si ricostruisce la struttura dell’illecito dell’ente secondo un modello di tipo colposo. La prima sentenza in esame è la n. 21640/2023 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, all’interno della quale viene precisato che il giudice di merito non solo non ha accertato gli specifici profili di colpa di organizzazione, ma non ha neppure verificato se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. Nel percorso motivazionale dell’impugnata pronuncia, ha chiarito la Corte di Cassazione, i criteri valutativi, tramite i quali la Corte d’Appello sia pervenuta all’affermazione della responsabilità dell’ente, sono stati valutati tramite una formula del tutto generica decisamente inidonea a sostenere l’affermazione di responsabilità in capo all’ente ai sensi del d. lgs. 231/2001, in quanto totalmente carente di elementi concreti indicativi dell’interesse e della consapevolezza dell’ente. Nel motivare quanto appena sostenuto, la Suprema Corte richiama un’altra sentenza, la n. 23401/2022 della Sesta Sezione Penale dell’11.11.2021, dep. 2022, secondo la quale: “l’addebito della responsabilità dell’ente non si fonda su un’estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale del soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di auto – normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato presupposto, secondo lo schema legale dell’attribuzione di responsabilità mediante analisi del modello organizzativo”. Si è perciò affermato che, in tema di responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali, ai fini del giudizio di idoneità del modello organizzativo adottato, il giudice di merito è chiamato ad adottare il criterio epistemico – valutativo della c.d. “prognosi prostuma”: tale criterio si sostanzia nell’attività da parte del giudice di collocarsi, seppur idealmente, nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare se, nell’ipotesi in cui si fosse osservato il modello organizzativo per come previsto, il pericolo di verificazione dell’illecito si sarebbe eliminato o quanto meno ridotto. Sarà lo stesso giudicante, pertanto, a dover dimostrare, al fine di giustificare l’affermazione di responsabilità dell’ente, la carenza di quel complesso di regole elaborate dall’ente per la prevenzione del rischio reato, le quali trovano la loro sede naturale all’interno dei “Modelli di organizzazione, gestione e controllo” (MOG), meglio delineati all’interno degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001. Anche la dottrina maggioritaria si trova d’accordo nel sostenere quanto affermato dalla Suprema Corte, soprattutto in relazione all’operato del giudice di merito relativamente all’adeguatezza del modello sopraindicato in quanto dovrà dimostrare, tramite una verifica concreta e non tramite un semplice criterio sillogistico per cui la commissione del reato equivale all’inidoneità dell’assetto organizzativo, se l’eventuale rispetto della normativa sancita dal MOG idoneo delineato dall’ente avrebbe portato a far sì che l’evento non si verificasse. In conclusione, la responsabilità dell’ente deriva dall’idoneità e correttezza del modello organizzativo

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Spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche

di Angela La Gamma   Il presente contributo mira ad offrire spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche, ex D.lgs. 231/2001 e di adeguatezza ed efficace applicazione del Modello di Organizzazione Gestione e controllo, partendo dall’analisi della pronuncia emessa dalla Corte di Cassazione, Quarta sezione penale, in data 5 ottobre 2023, avente numero 1636/2023 r.g sent. La sentenza in commento affronta la spinosa tematica della responsabilità dell’ente nelle ipotesi di morte (o infortunio) sul lavoro occorsa ad un dipendente e, nello specifico, della responsabilità derivante alla società dal presunto delitto di omicidio colposo commesso da soggetto apicale, il legale rappresentante dell’ente, nella qualità di datore di lavoro, fattispecie contemplata all’art. 25 septies del Dlgs 231/2001. La Suprema Corte, nell’annullare con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Firenze – la quale, confermando una pronuncia resa dal Tribunale di Pisa, aveva condannato, per il delitto di omicidio colposo ai danni di un operaio intento a rimuovere dei rifiuti boschivi derivanti da lavorazioni, tanto il datore di lavoro, quanto la persona giuridica- muove pesanti critiche ai giudici di secondo e primo grado. In particolare, la Cassazione, nella pronuncia in commento, rileva una serie di “errori giuridici” commessi dal Tribunale e reiterati dalla Corte d’Appello. In primo luogo, la Corte fiorentina è incorsa, secondo i Giudici di legittimità, in un’erronea valutazione, nel momento in cui ha edificato la responsabilità dell’ente su condotte che erano “riferibili, in astratto ancor prima che in concreto, esclusivamente alla persona fisica”: secondo le previsioni contenute nel D.lgs. 231/01, al contrario, la responsabilità dell’Ente va a sommarsi e non si confonde con quella della persona fisica che ha commesso l’illecito, è autonoma rispetto alla tradizionale responsabilità penale personale ed è legata alla commissione di un reato ricompreso nel catalogo dei reati presupposto previsti dal decreto medesimo. I Giudici di prime e seconde cure, inoltre, sono incorsi in un ulteriore errore valutativo, sempre secondo la Cassazione, allorquando hanno ritenuto coincidente il Modello di Organizzazione Gestione e controllo, di cui l’ente era dotato, con il sistema di gestione della sicurezza sul lavoro. Ancora, l’ultima censura che ha determinato l’annullamento con rinvio alla Corte d’appello di Firenze è relativa alla mancata prova circa la ricorrenza dei presupposti di imputazione della responsabilità, sanciti nell’art. 5 del D.lgs 231/01, il quale richiede, indefettibilmente, che il reato c.d. presupposto, quand’anche colposo, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’Ente. Pare opportuno soffermarsi, brevemente, su tali due ultime censure mosse dai Giudici di legittimità alla Corte territoriale fiorentina, ossia l’aver confuso, sovrapponendoli, gli ambiti di operatività, rispettivamente, del MOG e del sistema di gestione della sicurezza sul lavoro e l’aver trascurato la necessità che fosse provato l’interesse o il vantaggio per l’ente derivante dalla commissione dell’illecito. Con riferimento al primo punto, giova ricordare che il Modello di Organizzazione e Gestione, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs .231/01, è uno strumento di gestione aziendale che individua le procedure operative sviluppate per ridurre il rischio che soggetti apicali o sottoposti commettano reati a vantaggio o nell’interesse della società. Orbene, il MOG è affatto coincidente con il modello di gestione della sicurezza sul lavoro che è incentrato sul DVR (Documento Valutazione dei Rischi) e sul POS (Piano Operativo di Sicurezza): a differenza del primo, il modello di gestione della sicurezza sul lavoro individua i rischi connessi a quella specifica attività lavorativa e determina i mezzi e le misure idonee ad eliminarli o ridurli; al contrario il MOG, ha una portata molto più ampia, non limitata ad una specifica attività o settore di attività ed  è volto a prevenire il rischio di commissione di reati da parte di soggetti interni all’ente. Ciò attraverso la previsione di specifiche procedure aziendali di compliance, sottoposte al vaglio ed al controllo dell’Organismo di Vigilanza e caratterizzate da flussi informativi costanti che permettano di verificarne, non solo l’adozione ma anche e, forse, soprattutto, l’efficace attuazione. È vero che sotto il profilo della colpa dell’Ente, tanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione del MOG, quanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione modello di gestione della sicurezza sul lavoro, forniscono la prova della colpa in organizzazione da parte della società. Ma è altrettanto vero che ciò non significhi che i due piani siano coincidenti o, peggio, sovrapponibili, in quanto, come detto, i due modelli sono proiettati e normativamente destinati a finalità completamente differenti; né, tantomeno, bisogna ritenere che il verificarsi del reato implichi, ex sé, che il MOG adottato dall’Ente fosse inefficace o inidoneo a prevenire illeciti della stessa indole di quello in concreto verificatosi. Il D.lgs.231/01, infatti, all’art. 6, nel momento in cui “impone” l’adozione di un modello organizzativo valido ed efficace, non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma prevede, al contrario la c.d. colpa di organizzazione dell’Ente, intesa come mancata predisposizione di una serie di accorgimenti preventivi, idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quelli realizzati: è necessario cioè, al fine di sancire una responsabilità della persona giuridica, il riscontro, al suo interno, di un deficit organizzativo. L’addebito di responsabilità all’Ente, in altri termini – e come chiarito dalla giurisprudenza – non si fonda su un’estensione più o meno automatica della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente a fronte dell’obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato (cfr. Cass. Pen. sez. IV n. 570 del 2023), tanto è vero che, come detto, la responsabilità è esclusa se la società, prima della commissione del fatto, abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi (sul punto cfr. Cass. Pen. Sez. 6 n. 23401 dell’11/11/2021 cd. Impregilo – Cass pen. N. 21640 del 19 maggio 2023). È evidente, quindi, l’errore di fondo in cui sono incorsi i Giudici toscani, i quali hanno confuso i due piani di responsabilità e che deve essere ora sanato da una nuova sezione della Corte d’appello di Firenze, alla luce dei principi di diritto sanciti dalla Corte

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IL MONITO DELLA CONSULTA

  di Francesco Iacopino   Abuso di ufficio e abusi interpretativi della Magistratura Uno dei giudizi più autorevoli, insospettabili e severi verso la costante forzatura interpretativa della magistratura italiana in tema di abuso in atti d’ufficio lo ha dato la Corte Costituzionale (sent. n. 8/2022). Nel legittimare la costituzionalità dell’ultima, restrittiva riforma del 2020, la Corte così si esprime: << l’intervento normativo oggi in discussione riflett(e) due convinzioni, […] entrambe diffuse: a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione. […] l’esigenza di contrastare tali fenomeni, incidendo sulle relative cause […] non nasce con l’emergenza epidemiologica, ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere>>. Il ragionamento della Consulta è chiarissimo. L’abuso d’ufficio è norma “di chiusura” del sistema dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa. Una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo della gestione della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante. Per garantire un punto di equilibrio, il legislatore ha più volte inutilmente tentato, negli ultimi 30 anni, di fissare limiti alle incursioni della magistratura penale sulle scelte dei pubblici funzionari. Ma la giurisprudenza ha sistematicamente travalicato i rigidi paletti normativi, vanificando ogni iniziativa di riforma e riaprendo ampi scenari di controllo sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Tutto ciò, oltre ad alterare gli equilibri nella divisione dei poteri dello Stato, ha dato l’abbrivio al fenomeno della “burocrazia difensiva” e alla c.d. “paura della firma”. Ecco perché, di fronte alla trentennale ostinazione della magistratura di autoassegnarsi, anche a seguito della riforma del 2020, attraverso la figura “abusata” dell’abuso d’ufficio, un potere di controllo “no limits”, onnivoro, sull’operato dei pubblici funzionari e più in generale sulla politica, l’abrogazione dell’art. 323 c.p. appare oggi il “male minore” per recuperare una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente. Non spaventi l’eventuale abolitio criminis. La mala gestio del pubblico funzionario, nei casi più gravi, sarà sempre regolata dalla leva penale ricorrendo ad altre specifiche fattispecie di reato, mentre nelle ipotesi residuali competerà al giudice “naturale”, quello amministrativo, lo scrutinio dei profili di (il)legittimità dell’atto. Del pari, il pubblico funzionario dovrà rispondere al giudice erariale, con il proprio patrimonio, ogni qual volta sarà accertata una sua condotta infedele e dannosa per l’amministrazione. A margine della soluzione radicale proposta, urge comunque risolvere il “cuore” del problema, vale a dire il rispetto del “limite” da parte di chi, ai “limiti del potere”, fino ad oggi ha opposto strenuamente un “potere senza limiti”. (pubblicato su “PQM-Il Riformista”, il 30 dicembre 2023)

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Il metodo nelle associazioni di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.)

    Dott. Antonio Baudi   Abstract – Lo scritto affronta il dibattuto tema della natura del metodo mafioso qualificante la fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., disposizione innovativa introdotta dall’art. 1 della legge 13 settembre 1982 n. 646, quale forma speciale di associazione delittuosa. Dopo una preliminare trattazione della base associativa analizza gli elementi costitutivi del delitto (accordo, struttura, metodo, finalità) e si sofferma in maniera specifica sul metodo mafioso come requisito essenziale caratterizzante le associazioni del tipo, associazioni plurime operanti  nelle rispettive zone di influenza, tutte accomunate dalla tipologia normativa, e di recente problematizzate quanto alla connotazione giuridica di diverse, e nuove, realtà manifestatesi nel sociale, talune qualificate come forme di “mafia silente”. All’uopo introduce il principio di giuridicità rilevando che il principio di materialità, persistendo nel valorizzare il solo dato fenomenico, trascura che la fattualità non è isolabile, e quindi percepibile, senza il contributo derivante dal piano di rilevanza normativa. ove confluisce il complesso profilo del fatto penale nella sua consistenza duplice, storica e normativa, integrante il configurato principio di giuridicità. Quindi valorizza sul piano ermeneutico l’elemento del metodo mafioso e dell’avvalimento come requisito ricorrente in atto in funzione della necessaria offensività dell’illecito. In proposito, posto che Il delitto in esame è tradizionalmente reputato come reato di pericolo e a tutela anticipata, tale qualifica viene utilizzata per sostenere l’assunto secondo cui “l’avvalersi” andrebbe letto in senso potenziale, cioè come “il potersi avvalere”. Tale impostazione di pensiero viene censurata in questa sede sembrando più corretto l’orientamento che reputa la natura mista dell’offensività dell’illecito, in parte di pericolo ed in parte di danno: di pericolo rispetto al programma da compiere, di danno rispetto al metodo, che dunque va inteso come requisito che deve rinvenirsi in atto.   SOMMARIO –  1. Le ragioni della riforma e la disposizione speciale. 2. La base associativa. 3. Gli elementi costitutivi della fattispecie. 4. Il principio di giuridicità come guida ermeneutica per individuare il metodo mafioso come requisito essenziale di ogni associazione del tipo. 5. L’avvalimento della forza intimidatrice e i profili di offensività penale. (Il contributo è stato sottoposto in forma anonima, con esito favorevole, alla valutazione di un revisore esperto).   LEGGI CONTRIBUTO

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Il panpenalismo riduce al minimo lo Stato sociale

In nome della sicurezza sono aumentate le categorie dei “nemici” da punire di Alberto Scerbo (ordinario Filosofia del diritto presso Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro) e Orlando Sapia (segretario Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro)   Negli ultimi decenni si è realizzato un’accentuazione delle istanze repressive all’insegna di una legislazione “emergenziale” senza fine. Si sono andate sviluppando le dinamiche tipiche del «populismo penale» che hanno prodotto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Uno sguardo rapido, a titolo di esempio, ai più recenti interventi può essere utile. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo, per la rapina e per l’estorsione. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici” e ha reintrodotto i reati di mendicità e blocco stradale. Sempre nel medesimo solco, sono le previsioni relative alla misura di prevenzione del Daspo Urbano, introdotto dal decreto c.d. Menniti D.L. n. 14/2017 e poi ampliato dal decreto Salvini, ovverosia esecutivi di differente colore realizzano la medesima politica. Nel 2022, sempre con decretazione d’urgenza, è stato introdotto l’art. 633 bis c.p. che punisce l’invasione di terreni o edifici in occasione dei rave party. Successivamente, a seguito della tragedia di Cutro, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023, c.d. decreto Cutro, che ha inasprito le pene per il reato di immigrazione clandestina e introdotto il delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da venti a trenta anni. È del mese di settembre l’emanazione del D.L. n. 123/2023, c.d. Decreto Caivano, che contiene norme finalizzate ad ampliare l’applicazione delle misure cautelari nei confronti dei minori. Infine, recentissimo è un comunicato stampa, n. 59, del Consiglio dei Ministri, nel quale si dà notizia dell’approvazione di tre disegni di legge che introdurranno, qualora diverranno legge, nuove norme in materia di sicurezza. Spicca la modifica della normativa relativa al differimento della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età, così da rendere tale rinvio facoltativo anziché obbligatorio, come è attualmente. Tale norma, pensata nei riguardi di alcune decine di donne di etnia ROM e dei bambini al seguito, rischia di confinare all’interno del mondo penitenziario le madri ed i loro neonati. Tra le altre novità, oltre ad aumenti di pena per varie fattispecie di reato, si segnala la creazione del reato di “rivolta in istituto penitenziario”, art. 415 bis c.p., che probabilmente realizzerà un’anticipazione della soglia punitiva, così da colpire anche condotte non concretamente offensive. La previsione normativa dimostra come il Legislatore non tenga in alcuna considerazione il fatto che, laddove vi sono state rivolte nelle carceri ciò è avvenuto per le condizioni di estrema sofferenza subite dalla popolazione detenuta e causate dal cronico problema del sovraffollamento carcerario valso allo Stato italiano alcune condanne dinanzi alla CEDU. In sostanza, la parola d’ordine della sicurezza pubblica ha soppiantato il modello penalistico di matrice illuministica costituzionalmente orientato. Ha prodotto la frantumazione del principio di proporzionalità della pena, ha rinforzato gli istituti, più fluidi, della prevenzione a detrimento della tipicità legale. Le categorie di “nemici” non sono più solamente i mafiosi e i terroristi, ma, a seconda delle circostanze, i rom, i rumeni, i migranti, i sex offenders, i giovani frequentatori di rave party, in generale tutti coloro che appartengono al mondo degli “esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei nuovi barbari”. Compare lo spettro del novecentesco diritto penale d’autore (Täterstrafrecht), in cui la colpevolizzazione, il giudizio e la pena non riguardano più ciò che si è fatto, ma solamente ciò che si è. La continua implementazione del sistema penale a garanzia della presunta sicurezza della comunità evidenzia una crisi di legittimazione dello Stato, che ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche. Lo Stato minimo nei contenuti sociali, diviene massimo nell’esercizio del potere punitivo.   (pubblicato il 30 novembre 2023 su Il Dubbio)

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IL PARADIGMA LIBERALE NEL DIRITTO PENALE POST MODERNO: UN REQUIEM EVITABILE?

Abbiamo trascorso due giorni straordinari per intensità e contenuti. Ciascun relatore ha apportato un contributo di idee e offerto stimoli di riflessione davvero molto alti. E il comune “sentire” sulla necessità di pubblicare gli atti del convegno rappresenta la migliore risposta circa la qualità raggiunta dall’evento. Ne sono molto felice, soprattutto perché di un tema così delicato e complesso, qual è la crisi del paradigma liberale, si è parlato in un distretto problematico come quello calabrese, davanti a una avvocatura penalista che si è fatta carico, politicamente, di affrontare le difficoltà della giurisdizione nel difficile equilibrio – spesso ‘saltato’ – tra le esigenze di difesa sociale e quelle di tutela delle libertà individuali. Un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile la riuscita dell’evento e a coloro – e sono stati tanti – che lo hanno impreziosito assicurandone la presenza. Un ringraziamento particolare e ‘speciale’ ai miei preziosi compagni di viaggio, il direttivo della Camera penale, ineguagliabile per generosità e impegno, e ai qualificati relatori che hanno dato, ciascuno da par suo, davvero il meglio di sè. Alla prossima. Il nostro è soltanto un arrivederci. Francesco Iacopino

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Omicidio nautico: Reato di nuovo conio. Se ne sentiva davvero la necessità?

di Angela La Gamma – ottobre 2023 Ci risiamo. A meno di dieci giorni dall’ormai famigerato decreto Caivano, in cui è contenuta una sfilza di previsioni a carattere fortemente repressivo, con un grave e intollerabile abbassamento della soglia dell’imputabilità e una espansione del già eccessivo ambito di applicazione delle misure di prevenzione, prende vita, nell’ordinamento italiano, un nuovo reato. Stavolta il neo-nato delitto porta il nome di “omicidio nautico” e determinerà una modifica agli articoli 589 bis, 589 ter, 590 bis e 590 ter del codice penale, nonché si ritiene, agli articoli 590 quater e quinquies, in tema di omicidio e lesioni stradali. Il disegno di legge, approvato il 21 settembre scorso, in via definitiva, alla Camera con 268 voti favorevoli ed un solo contrario, e che, a febbraio, aveva già ricevuto il via libera in Senato, non avendo subito modifiche, diventerà legge tra una manciata di giorni, dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Ed ecco, quindi, che le pene previste per il delitto di omicidio stradale e per quello di lesioni stradali, diventano applicabili anche ai fatti commessi con violazione delle norme sulla circolazione marittima; pene esemplari, inoltre, anche per chi viene trovato alla guida di un natante da diporto in stato di alterazione psicofisica determinato dall’assunzione di alcol o di sostanze stupefacenti Non solo. Sotto il profilo procedurale, è stato esteso l’obbligo di arresto in flagranza anche al conducente di un mezzo nautico che sia trovato in stato di ebbrezza alcolica o abbia assunto sostanze stupefacenti o psicotrope. Una nuova fattispecie di reato quindi, in tutto e per tutto equiparata all’omicidio ed alle lesioni stradali della quale, a dirla tutta, non si sentiva affatto la necessità. E invero, la circolazione con mezzi da diporto è senza dubbio, ad avviso di chi scrive, completamente differente dalla circolazione stradale, non fosse altro perché più contenuta e limitata oggettivamente e soggettivamente; ciò induce a nutrire serie perplessità sull’adattabilità della normativa (si ricorderà, di tipo emergenziale) dettata in materia di omicidio e lesioni stradali alla differente ipotesi di fatti avvenuti in mare o, comunque, alla guida di imbarcazioni. Quale è stato, questa volta, l’allarme sociale che ha indotto il legislatore ad intervenire facendo ricorso allo strumento penalistico? Nessuno. Sebbene l’emergenzialismo degli ultimi anni non sia affatto una scriminante alla compulsività legislativa, anzi il contrario, stavolta non vi è nemmeno un fatto di grave allarme sociale cui imputare la responsabilità dell’agire irresponsabile del nostrano legislatore. L’introduzione della nuova fattispecie di reato, altro non è, se non l’ulteriore esempio – come se già non bastassero i precedenti – dell’ipertrofia del diritto penale in Italia. Quando si ha un calo del consenso popolare, quando le famiglie sono allo stremo, quando le promesse elettorali sono rimaste, appunto, scatole piene solo di belle parole, ecco che si tenta di riacquistare il rispetto della cittadinanza mediante un inasprimento delle sanzioni ovvero inventando nuove fattispecie di delitti. Un dato deve essere rilevato. Nel caso in esame, l’impatto sotto il profilo formale sarà meno evidente e gravoso, dal momento che non verranno introdotti nuovi articoli nel codice penale, ma verranno, soltanto, apportate modifiche a quelli già esistenti in materia di omicidio e lesioni stradali; quello che deve destare allarme e far riflettere, però, è la facilità con cui si fa ricorso, in maniera ormai quotidiana, al diritto penale, il quale, al contrario dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, il rimedio minimale riservato alla repressione di fatti gravissimi e tassativamente tipizzati. E, invece, esempi quali il decreto Caivano, il decreto Cutro ed oggi il nuovo reato di omicidio nautico, mettono in evidenza come ci si trovi in un’epoca dominata dal panpenalismo, dalla pervasività del diritto penale, inoculato, ormai, in ogni piega del tessuto sociale, che vede il legislatore nelle vesti di un moderno giustiziere, il cui agire è veicolato, esclusivamente, da emotività momentanea e da un magnetismo ancestrale verso la creazione di nuovi reati. Questa corsa alla repressione, però, sta portando il potere legislativo a non operare una preliminare considerazione della realtà normativa esistente e, di conseguenza, a partorire nuove fattispecie delittuose che, spesso, rimangono puramente simboliche, dettate dalla bramosia di placare e tenere a freno l’opinione pubblica, distraendola dalle effettive criticità. Quale sarà il prossimo frutto di questa deriva giustizialista che sta infettando l’Italia, nella quale il diritto penale è sempre più il mezzo privilegiato per perseguire fini politici o morali? La sensazione è che non passerà molto tempo prima della nuova, improbabile, creazione… (Foto tratte dal web)

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