Diritto Sostanziale

DELL’INFANTICIDIO. CRONACA RECENTE DI UN DELITTO ANTICO

di Vittoria Aversa –  [..] Maria Farrar, nata in aprile, defunta nelle carceri di Meissen, ragazza madre, condannata, vuole mostrare a tutti quanto siamo fragili. Voi, che partorite comode in un letto e il vostro grembo gravido chiamate «benedetto», contro i deboli e i reietti non scagliate l’anatema. Fu grave il suo peccato, ma grande la sua pena. Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri.1 Così si conclude una delle poesie più strazianti di Bertolt Brecht, dedicata all’infanticida Maria Farrar, rinchiusa in carcere per il suo crimine e lì uccisa da altre detenute. La storia di Maria è simile a quella di molte altre donne che, vittime della propria condizione, compiono un atto che indigna la società. Sgomento è il sentimento dominante. Sgomento è la parola che si ripete con frequenza anche nel comunicato stampa rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma in relazione all’ultimo di tali delitti che ha scosso gli animi del nostro Paese. L’uccisione del neonato ad opera della madre è e resta un gesto inconcepibile per le coscienze dei più; il figlio ucciso è percepito come figlio di tutti e la richiesta di vendetta, per l’atto intollerabile compiuto dalla donna degenere, diviene collettiva, informando di sé il processo penale che ne consegue. Storicamente, tale riprovazione sociale trova una definizione compiuta nei codici penali a partire dal Cinquecento, ove l’omicidio dell’infante è punito con pene severe poiché considerato omicidio aggravato dalla presunzione della premeditazione e dal vincolo di sangue. È il dibattito giuridico di orientamento positivista a dare impulso alla mitigazione del trattamento sanzionatorio dell’infanticidio, ricavando gli elementi di specialità rispetto all’omicidio che, in quel momento storico, si incentrano su due condizioni essenziali e strettamente correlate al ruolo sociale della donna: la illegittimità del concepimento e la causa d’onore. La causa d’onore è, in realtà, elemento costitutivo del reato anche nel nostro codice penale fino al 1981; l’art. 578 c.p., sino a quella data vigente, prevede infatti la pena della reclusione da tre a dieci anni per chiunque cagioni la morte di un neonato immediatamente dopo il parto, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto. È solo con la L. 5 agosto 1981 n. 442 che cambia la formulazione della norma incriminatrice attraverso l’eliminazione della rilevanza penale della causa d’onore, il mutamento della qualità del soggetto agente, che è “la madre” e non più “chiunque”, e l’introduzione di due elementi specializzanti rispetto all’omicidio: il dato cronologico (il fatto deve essere commesso “durante” o “immediatamente dopo” il parto) e le condizioni di “abbandono materiale e morale” della madre al momento del parto, tali da determinarne la decisione. Pur essendo pacifico che le condizioni di abbandono materiale e morale debbano sussistere oggettivamente e congiuntamente e debbano essere connesse al parto, si è a lungo dibattuto sull’interpretazione della nozione di “abbandono materiale e morale”. Come sempre accade, l’esegesi dei concetti muta al mutare del sentire comune. La giurisprudenza formatasi nel primo decennio successivo alla novella legislativa richiedeva per la configurabilità della situazione di abbandono che fosse in concreto verificato uno stato di derelizione, di solitudine, di emarginazione, di carenza di mezzi e di rapporti socio- economici oltre che affettivi2, sussistente qualora la madre si venga a trovare isolata nel seno della propria famiglia e privata dell’affetto e delle cure dell’uomo con il quale abbia concepito il neonato3, uno stato di isolamento assoluto considerato non ontologicamente compatibile con la presenza nel territorio di strutture socio-sanitarie, sempre che l’agente si trovi nelle condizioni sociali e culturali di utilizzare tali presidi4. L’opzione ermeneutica più recente e prevalsa nella giurisprudenza di legittimità ritiene, invece, che la concreta situazione di abbandono non debba rivestire il carattere dell’assolutezza e costituisca un requisito della fattispecie oggettiva da leggere tuttavia “in chiave soggettiva” o comunque in senso “individualizzante”.5 La valutazione del requisito obiettivo deve pertanto essere “individualizzata” sulla peculiare situazione della partoriente, come da lei percepita, prescindendo dall’oggettiva presenza, nel contesto territoriale di appartenenza, di adeguate strutture e presidi sanitari, ricorrendo il concetto di abbandono laddove la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna, determinata anche da un ambiente familiare non comunicativo e totalmente incapace di cogliere l’evidenza del suo stato e di avvertire l’esigenza di aiuto e sostegno necessari al dramma da lei vissuto, le impedisca tuttavia di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione6. Divengono, quindi, indicatori della condizione di abbandono non solo i casi di gravidanza nascosta oppure osteggiata con conseguente solitudine materiale e affettiva, la povertà estrema, il contesto sociale degradato, ma anche l’insufficiente maturità culturale della gestante o comunque una condizione psicologica individuale gravemente alterata dall’esperienza emotiva e mentale che accompagna la gravidanza ed il parto.7 È la percezione della donna a diventare il fulcro della valutazione del giudicante. Non v’è chi non s’avveda della complessità – ai fini della qualificazione giuridica del fatto in termini di infanticidio ovvero di omicidio – dell’accertamento concreto, sul piano probatorio, della componente soggettiva dell’abbandono, della peculiare solitudine esistenziale della madre partoriente in un contesto in cui la solitudine esistenziale si atteggia a male generale del nostro tempo ed è, allora, esclusivamente ad esso, nella solennità dell’aula, che deve lasciar spazio, anche nei più recenti casi di cronaca, lo sgomento. Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri.   1 “Della infanticida Marie Farrar”, Libro di devozioni domestiche. Brecht Bertolt. Traduzione di Roberto Fertonani. Einaudi, 1997.  2 Cass. Sez I n. 1007/87. 3 Cass. Sez. I n. 3326/88. 4 Cass. Sez I n. 8489/91. 5 Così Cass. Sez. 1, n. 40993 del 7 ottobre 2010, Grieco, Rv. 248934 – 01; Sez. 1, n. 26663 del 23 maggio 2013, Bonito, Rv.256037 – 01 Sez. 1, n. 28252 del 22 gennaio 2021, Izzo, Rv. 281673 – 01. 6 Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2267 del 03/12/2013 – dep. 2014, Fynn, non mass. 7 Cass. Sez. I, 3 maggio 2022, dep. 30 giugno 2022 n. 24949.

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Il sistema penale e i suoi nemici

di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –  L’approccio critico al sistema penale ha lo scopo di valorizzare la “ideologia della libertà, dei diritti individuali e dei limiti alla coercizione che è consustanziale, “necessaria” all’ esercizio effettivo di qualsiasi posizione di potere”[1]. Ciò significa che l’attenzione del giurista deve essere indirizzata a contrastare la deriva autoritaria e la passione punitiva dei poteri pubblici e, al contrario, a valorizzare la costruzione di un sistema di limiti e a preservare e rafforzare il complesso delle libertà e dei diritti fondamentali.   Queste finalità, semplici, ma vitali, sono state purtroppo contraddette dall’indirizzo costantemente adottato dalle istituzioni di procedere nei termini di un rafforzamento dei poteri “di polizia” e di un’accentuazione delle istanze repressive, in accordo con l’attuazione di una legislazione “emergenziale” senza fine. Una prospettiva che, con il tempo, si è posta come un connotato strutturale, quasi qualificante, dell’ordinamento giuridico, alimentato da sempre nuove, e differenti, emergenze, che ha prodotto una moltiplicazione delle fattispecie incriminatrici, invadendo in modo incisivo i più diversi ambiti dell’esistenza. In verità, si è assistito ad un progressivo arretramento dello Stato in tema di aiuto ed intervento in favore dei soggetti più svantaggiati e alla graduale contrazione delle politiche sociali a tutti i livelli, sicché le scelte del potere politico si sono orientate verso un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. A specifico supporto dei programmi nebulosi, spesso improvvisati, di politica criminale, ma in piena aderenza alle pretese emotive sostenute dalla collettività, il più delle volte indotte dalle grida “propagandistiche” di una classe dirigente interessata a mascherare gli autentici problemi economici e sociali dietro il velo immaginario della paura. E con la precisa volontà di precostituirsi sacche di consenso politico, affidandosi alla risposta “irrazionale” della pancia della collettività[2]. Si è prodotto, così, un autentico mutamento di paradigma, che ha maggiormente ridotto lo spazio operativo del mondo dei giuristi e della società libera finalizzato a restringere i confini di manovra della forza dello Stato[3]. E ha fatto esplodere l’idea che alla materia penalistica vada affidato un compito eminentemente repressivo, quasi espressivo di un sentimento vendicativo, capace di svolgere un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica. Si sono andate sviluppando, così, “le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing”[4], in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Un sistema in cui “l’uso salvifico delle leggi punitive o del controllo dell’ordine pubblico è assunto a religione di massa”[5], sicché l’aspetto rilevante non è dato tanto dalla ricerca della verità o dalla realizzazione della giustizia, quanto dalla sacralizzazione dell’azione punitiva, che ottunde la riflessione e neutralizza i problemi sociali, che permangono, ma vengono celati tra le pieghe delle punizioni. Le forme finiscono in tal modo a prevalere sui contenuti, di modo che si soprassiede sugli effetti perversi di un sistema penale che si sostiene sull’accanimento repressivo, ma finge di ignorare le lungaggini processuali causate da un fenomeno di overload del contenzioso, e i conseguenti e(o)rrori giudiziari, che non appaiono più effetti fisiologici dell’ordinamento, ma ormai patologici, in ragione dei numeri spropositati. Senza dimenticare le questioni spinose collegate all’esecuzione penale e alle condizioni di sovraffollamento delle carceri. Chiaramente, queste scelte politiche, nelle declinazioni sostanzialistiche, processualistiche e di esecuzione, sono la naturale conseguenza del ruolo che si è deciso politicamente di attribuire al sistema penale, che appare sempre più dissonante rispetto alla tavola di valori cristallizzata dalla Costituzione italiana, dove sono fissati i punti fondamentali di un modello garantista di stretta legalità, in cui l’esercizio del potere punitivo è improntato ad un paradigma che ha la finalità di garantire quell’insieme di diritti propri dell’uomo indagato, imputato e eventualmente condannato nelle fasi che via via si possono susseguire. E che mira ad una riduzione delle fattispecie penali, da una parte, e ad una previsione proporzionale ed equilibrata delle pene, dall’altra, in considerazione della loro essenziale finalità rieducativa, secondo quanto disposto dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/1990[6]. Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione certamente tardiva, laddove le riforme sono intervenute, mentre per altri aspetti risulta completamente assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354, il nuovo codice di procedura penale è stato varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930, che si è tentato, con scarsi risultati, di rendere costituzionalmente orientato. Inoltre, il legislatore, a partire dagli anni novanta del secolo passato, ha realizzato una legislazione complessivamente repressiva, nella quale la strettoia delle garanzie si è andata progressivamente assottigliando. Uno sguardo rapido, a titolo esemplificativo, agli ultimi interventi riformatori può essere utile per focalizzare il percorso compiuto dal legislatore italiano. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo (art. 624 bis c.p.), per la rapina (art. 628 c.p.) e per l’estorsione (art. 629 c.p.). Il dato che colpisce è che le modifiche realizzate hanno riguardato i minimi edittali delle pene, con ciò enfatizzando la furia repressiva statale e avvalorando l’idea di pubblici ministeri e giudici considerati alla stregua di “magistrati di scopo”, chiamati alla più severa determinazione delle pene in concreto. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018 convertito dalla Legge n. 132 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici”, fino ad un massimo di sei anni di reclusione. È stata, inoltre, data nuova linfa vitale al reato di mendicità, abrogato con i provvedimenti di depenalizzazione del 1999, e reintrodotto quale “esercizio molesto di accattonaggio”, art. 669 bis c.p. Analoga operazione è stata realizzata con il reato

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ANTIRICICLAGGIO: UN FOCUS SULLA FIGURA DEL PROFESSIONISTA

di Manuel Curcio –   Nell’ordinamento italiano determinate categorie di professionisti sono soggette a particolari condizioni nell’esercizio della propria attività e ciò in quanto gli stessi possono incorrere in situazioni potenzialmente rischiose in termini di legalità, soprattutto in ragione della natura della clientela con la quale si interfacciano. L’Italia, attualmente, rispetto il fenomeno del riciclaggio, ha dunque previsto un sistema basato su un vero e proprio doppio binario corrispondente a due diverse esigenze, sia di carattere sistematico che di tipo sanzionatorio. Infatti, se da un lato il legislatore nazionale ha previsto la rilevanza codicistica delle condotte sostanziatesi negli illeciti di cui agli artt. 648bis (riciclaggio) e 648ter (autoriciclaggio) c.p., riconoscendo in tal senso una punibilità secondo i canoni tipici del diritto criminale, dall’altro versante, invece, soprattutto per via dei numerosi impulsi di matrice sovranazionale[1], l’Italia si è dovuta munire di un sistema a carattere per lo più amministrativo con l’intento non soltanto di reprimere determinati comportamenti ma bensì di prevenirli, anticipando, quindi, la soglia di rilevanza della singola condotta. In particolare, mediante l’introduzione del D.lgs 321/2007, il legislatore ha voluto porre in essere un sistema di protezione dell’integrità dei sistemi economici e finanziari da ingerenze criminose, con una spiccata attenzione al fenomeno del riciclaggio[2], soprattutto per quel che attiene il finanziamento del terrorismo. Volendolo definire genericamente, è stato instaurato un meccanismo di controllo e di verifica ex ante in modo tale che, determinate categorie di soggetti professionali e qualificati, considerati maggiormente a rischio per via dell’intrinseca natura dell’attività in concreto esperita, potessero sottostare ad un regime preventivo differenziato.   I soggetti destinatari del D.lgs 231/2007 sono indicati dal Capo III del decreto e coinvolgono sia le persone fisiche che le persone giuridiche. Soffermandoci maggiormente sulla categoria dei professionisti, l’art. 12 sancisce come debbano intendersi in tal senso: a) ragionieri, commercialisti, consulenti del lavoro e coloro i quali siano iscritti nell’albo dei periti commerciali, b) qualsiasi altro soggetto che renda i servizi forniti da periti, consulenti e altri individui che svolgono in maniera professionale attività in materia di contabilità e tributi(da intendersi compresi anche le associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, CAF e patronati) c) i notai e gli avvocati soltanto nel caso in cui, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare ovvero nell’ambito di assistenza nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti: il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche; nonché la gestione di denaro, strumenti finanziari o di altri beni; l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli; l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società; la costituzione, la gestione o l’amministrazione   di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi; d) i prestatori di servizi relativi a società e trust ad esclusione dei soggetti rientranti nelle categorie poc’anzi esplicate. Rispetto ai suddetti soggetti, la legge impone una serie di obblighi volti alla verifica della clientela di riferimento. In tal senso il fine preventivo del decreto si manifesta nell’obbligo di esercizio di un’attività prodromica con la quale il legislatore delimita l’ambito di rischio di alcune operazioni economiche maggiormente esposte al pericolo di contaminazione criminosa. Parlando concretamente, si prevedono due macro categorie di adempimenti a carico dei professionisti, in primis, come già anticipato, l’art. 16 del D.lgs 231/2007 richiede l’adeguata verifica della clientela e dell’effettivo titolare del bene ovvero del servizio: qualora la prestazione professionale in questione abbia ad oggetto mezzi di pagamento, beni od utilità di valore pari o superiore a 15.000 euro; quando vengono eseguite prestazioni professionali occasionali consistenti nella trasmissione o la movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15.000 euro, indipendentemente dal fatto che siano effettuate con un’operazione unica o con più operazioni che appaiono collegate o frazionate tra loro; tutte le volte che l’operazione sia di valore indeterminato o non determinabile. A tali fini, la costituzione, gestione o amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi integrano, a priori, un’operazione di valore non determinabile. In ogni caso poi, la norma ad esame, come vera e propria clausola di chiusura, sancisce l’obbligo di adeguata verifica ogni qual volta vi sia un sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile; ovvero quando sorgano dubbi sulla veridicità o sull’adeguatezza dei dati precedentemente ottenuti ai fini dell’identificazione di un cliente. Il contenuto degli obblighi di adeguata verifica è disciplinato dall’art. 18 del D.lgs 231/2007, il quale dispone come il singolo professionista sia chiamato a svolgere: l’identificazione del cliente secondo parametri oggettivi e riconoscibili e quindi ricavabili sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente; l’identificazione dell’eventuale titolare effettivo con annessa verifica circa l’identità del medesimo; l’ottenimento d’informazioni sullo scopo e sulla natura prevista del rapporto continuativo o della prestazione professionale; lo svolgimento di un controllo periodico e costante nel corso del rapporto continuativo o nello svolgimento della prestazione professionale. In questo contesto, l’ulteriore macro insieme di adempimenti relativi alla normativa sull’antiriciclaggio attiene ai profili di registrazione[3] e segnalazione[4] delle varie operazioni effettuate. Nel primo caso si impone al professionista una vera e propria rendicontazione intesa non soltanto con riguardo alle operazioni in quanto tali, ma bensì anche rispetto al proprio sistema di verifica all’epoca esperito rispetto quello specifico cliente; mentre, per quel che attiene le segnalazioni, il legislatore ha previsto l’obbligo di comunicazione all’UIF (Unità di informazione finanziaria Italia) ovvero all’ordine professionale competente ogni qualvolta vi sia il dubbio o il ragionevole motivo di  sospettare che siano in corso o che siano state compiute, o quantomeno tentate, operazioni di riciclaggio ovvero di finanziamento del terrorismo, o che comunque i fondi oggetto delle operazioni, indipendentemente dalla loro entità, provengano da attività criminosa. In merito alle sanzioni, si sottolinea come l’art. 55 del D.lgs 231/2007 ha introdotto una serie di illeciti, sia di natura penale che meramente amministrativa, relazionati alla violazione delle disposizioni contenute nel decreto in questione. Sul fronte del diritto penale, si segnala l’instaurazione di una

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LA PRESCRIZIONE. TRA LA RIFORMA ORLANDO E LA NUOVA RIFORMA CARTABIA

Redatto da Sara Spanò Ernesto Ruggiero e Mariada Megna –   LA NORMA L’articolo 157 c.p. prevede: “La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante. Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 c.p. e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni. I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 375 terzo comma, 449 e 589, secondo e terzo comma, e 589 bis, nonché per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. I termini di cui ai commi che precedono sono altresì raddoppiati per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo, per il reato di cui all’articolo 572 e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II e di cui agli articoli 609 bis,609 quater, 609 quinquies e 609 octies salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell’articolo 609 bis ovvero dal quarto comma dell’articolo 609 quater. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato. La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti”. RATIO LEGIS L’istituto della prescrizione trova la propria ratio nel cosiddetto principio di economia dei sistemi giudiziari, nonché nell’esigenza di garantire un effettivo diritto di difesa all’imputato. Infatti, la prescrizione è considerata la più importante causa di estinzione del reato, in quanto strettamente correlata al decorso del tempo atto ad affievolire la necessità e l’interesse in capo allo Stato di punire penalmente un fatto previsto dalla legge come reato. Al contempo poi, in linea con quanto previsto in materia di equo processo dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, viene considerata rilevante la durata non troppo eccessiva del processo, così che la prescrizione rappresenta lo strumento per evitare abusi da parte del sistema giudiziario. Ne discende, quindi, che maggiore è il tempo impiegato per reprimere le condotte antigiuridiche, minore sarà l’esigenza di una tutela penale, nel pieno rispetto della concezione rieducativa della pena. COME SI CALCOLA LA PRESCRIZIONE? Per calcolare il tempo necessario ai fini della prescrizione di un dato reato si deve fare riferimento al massimo della pena edittale prevista a norma del Codice Penale. In relazione a quanto detto, è opportuno fare una distinzione: per i delitti il termine minimo di prescrizione è di sei anni, invece, per le contravvenzioni il termine minimo è di quattro anni. I reati puniti con l’ergastolo non sono suscettibili di prescrizione e inoltre, il termine massimo di sei anni viene raddoppiato nel caso di alcuni delitti considerati gravi dall’ordinamento ed elencati nel comma 6 dell’art 157 c.p. Come ad esempio, il reato di violenza sessuale o di maltrattamenti in famiglia il termine massimo di prescrizione viene raddoppiato. Ad ogni modo, per comprendere al meglio tale calcolo, a titolo esemplificativo, si può fare riferimento al reato di furto, previsto ai sensi dell’art. 624 c.p. In tal caso, al primo comma, viene previsto “Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 154 euro a 516 euro”. Ebbene, innanzitutto, si parla di un delitto, ove è prevista una reclusione da sei mesi a tre anni. A mente di ciò, come precedentemente accennato, in caso di delitti, il termine minimo di prescrizione – nonostante il massimo della pena edittale prevista a norma dell’art. 624 c.p. è di tre anni – deve essere considerato nella misura di sei anni e pertanto la prescrizione massima per il reato di furto sarà sei anni e non tre anni. Tuttavia, possono verificarsi degli atti interruttivi suscettibili di far ripartire la decorrenza del termine di prescrizione che, in ogni caso, non può superare la soglia massima pari ad un ¼ del periodo prescrizionale. Chiaro è che non vi possono essere infiniti atti interruttivi, altrimenti il reato non andrebbe mai in prescrizione. Nel caso in cui, invece, siano presenti delle circostanze attenuanti ovvero circostanze aggravanti, di queste non si deve tenere assolutamente conto, a meno che non vi siano delle circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale. TABELLA ESEMPLIFICATIVA DEI TEMPI NECESSARI AL CALCOLO DELLA PRESCRIZIONE RELATIVAMENTE AL DELITTO DI FURTO ED ALLE SUE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTI. REATO PRESCRIZIONE ORDINARIA PRESCRIZIONE MASSIMA PRESCRIZIONE MASSIMA IN CASO DI RECIDIVA AGGRAVATA PRESCRIZIONE MASSIMA IN CASO DI RECIDIVA REITERATA PRESCRIZIONE MASSIMA PER DELIQUENTI ABITUALI E PROFESSIONALI Art.624 c.p. (furto) 6 anni 7 anni e 6 mesi 9 anni 10 anni 12 anni Art.624-bis c.p. (furto in abitazione e furto con strappo) 7 anni 8 anni e 9 mesi 15 anni e 9 mesi 17 anni e 6 mesi 14 anni Art.625 c.p. (circostanze aggravanti) 6 anni 7 anni e 6 mesi 13 anni e 6 mesi 15 anni 12 anni Art.625-bis c.p.(Circostanze attenuanti) La norma non prevede un fatto reato La norma non prevede

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Il diritto giurisprudenziale e i problemi del fine-vita

  di Antonio Baudi –  Introduzione sul tema della vita umana Nella complessa categoria della materia vivente la vita umana occupa una collocazione privilegiata, sistematicamente superiore a quella degli organismi del mondo vegetale e animale. In tale contesto la vita umana si presenta fenomenicamente come un dato di fatto, un esistere ricompreso tra un inizio (la nascita) e una fine (la morte). Nel contempo la vita è in sé anche un valore, anzi un valore fondamentale, perché la vita sorregge ogni altro interesse e ogni altro specifico valore, i quali, in assenza di vita, non potrebbero nemmeno configurarsi. Nella dimensione valoriale la vita umana si abbina alla dignità, la quale, essenzialmente intesa come rispetto connaturato, è ormai esplicitamente esaltata in ogni livello culturale. Quanto al tema che interessa, il fine-vita coincide banalmente con la morte, accadimento che occorre definire concettualmente nel suo profilo fattuale e, nello specifico, in quanto evento provocato da una causa umana, estranea, operante dall’esterno all’insaputa del destinatario, oppure intranea, perché cooperativa, materialmente o psichicamente, della altrui morte. In effetti si tratta di evento che più di ogni altro compromette l’esistenza umana dal momento che la morte ne determina la radicale cessazione. Il concetto di morte sembra ovvio: si muore quando cessa la vita. Eppure il concetto è dibattuto a livello scientifico e la stessa dottrina giuridica si pone il problema della precisa individuazione del tempo di accadimento. L’interesse specifico deriva dalla emergenza di situazioni in cui necessita individuarne il momento a partire dal quale sia possibile ritenere un soggetto sia morto e quando invece sia da considerare ancora in vita. La demarcazione è rilevante, anzi ai nostri fini è di portata fondamentale. Ove il soggetto fosse ancora in vita l’omicidio non potrebbe definirsi consumato e potrebbe porsi il problema legato alla liceità dell’eutanasia che, come è noto, riguarda solo il caso in cui un soggetto sia da considerare ancora in vita. L’individuazione del momento della morte assume un ulteriore rilievo in ambito sanitario, come si evince dalle più comuni regole deontologiche e dalla stessa previsione di cui all’art. 32 della Costituzione. Infatti, il dovere del medico di curare viene meno solo nel momento in cui si verifica la morte, poiché, qualora si perseverasse nel praticare cure nonostante l’intervenuto decesso, saremmo in presenza di un trattamento terapeutico inutile e sproporzionato rispetto ai prevedibili risultati, dunque contrario ai principi deontologici che vietano l’accanimento terapeutico. Prima che venissero alla luce le moderne tecniche di rianimazione, la morte veniva generalmente considerata come cessazione delle funzioni cardiache, respiratorie e nervose, dandosi così rilevanza all’aspetto meccanico (biologico) della vita piuttosto che al profilo psichico, della coscienza umana. La diversa prospettiva è stata discussa in senso critico anche dal Comitato italiano per la Bioetica, secondo cui riferire il momento della morte alla cessazione dell’attività della coscienza determina numerose incertezze; in particolare, secondo il Comitato, l’idea che la morte debba essere legata alla coscienza dell’uomo risulterebbe ambigua perché non sussistono criteri obiettivi in grado di stabilire la sicura cessazione della coscienza stessa. Le riferite impostazioni teoriche sul concetto di esistenza e, di conseguenza, il problema della esatta individuazione del tempo di morte connesso con quello sulla nozione di morte vanno confrontate con la presa di posizione del legislatore, che, a differenza di quanto accade per l’eutanasia, di cui non esiste né una definizione normativa né una regolamentazione specifica, ne ha definito in maniera precisa il confine. La disposizione, elaborata dal legislatore con riferimento ai trapianti di organi, fu subito indicata come un modello di autorevolezza scientifica, tanto che la sua ratio è stata poi trasfusa nell’art. 1 della legge 29 dicembre 1993, n. 578, ai sensi del quale “la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”, quindi intesa come morte celebrale. L’identificazione normativa del concetto di morte, oltre a fornire un elemento di certezza giuridica, assume portata generale. La morte, dunque, è oggi identificata, sotto il profilo giuridico, nel momento della cessazione delle attività del sistema nervoso centrale, anche se dovessero essere ancora attive, con l’ausilio di particolari macchinari, le funzioni di altri organi.   L’imperativo di non uccidere Uccidere è verbo complesso perché, come tante altre denominazioni normative, si riferisce a due evenienze diverse: comprende da un lato il risultato, identificato nell’evento cagionato, la morte, e comprende dall’altro lato il comportamento, l’atto che ha causato la morte; con una necessaria precisazione, sia rispetto all’evento, che interessa in quanto riguardante la morte altrui, sia rispetto alla causa, perché interessa in quanto atto commesso da un essere umano. Uccidere è vietato ed il divieto fonda l’enunciato “non uccidere”, imperativo categorico negativo. Non uccidere è una regola di varia genesi. La regola ha matrice religiosa, ed in tali termini è formulato categoricamente il quinto comandamento del cristianesimo. La regola ha matrice etica, ed è condiviso in via generale che sia un male assoluto uccidere. La regola ha matrice giuridica: nello specifico il nostro codice penale punisce come il più odioso e grave dei delitti l’omicidio commesso da condotta umana e punisce il fatto sotto diversi e tipizzati profili di colpevolezza a seconda che l’evento morte sia cagionato intenzionalmente, oppure sia colposo, preterintenzionale (o commesso altrimenti, secondo inquadramento ormai superato). La diversa natura della regola, se religiosa etica o giuridica, si chiarisce meglio convertendo l’imperativo categorico in forma ipotetica. L’uccisione dal punto di vista religioso è un peccato mortale e l’autore merita l’inferno, quando sarà. L’uccisione dal punto di vista etico comporta la disistima morale e sociale: l’autore è un reprobo. La condotta omicidiaria dal punto di vista giuridico espone l’autore al processo e costui, ove se ne accerti la colpevolezza, merita una condanna a lunga pena reclusiva carceraria, se non addirittura, in casi aggravati, all’ergastolo. E’ dunque pacifico ed indiscusso che la vita altrui non sia disponibile. Per la verità la regola non è assoluta, vigente inderogabilmente in ogni tempo ed in ogni luogo. Basterebbe pensare all’uccisione del nemico in tempo di guerra o alla pena di morte quale sanzione penale: si noti in proposito che la pena di morte

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Breve commento alla sentenza della Corte Costituzionale n.48/2024

di Domenico Pasceri* – Si segnala all’attenzione dei lettori la tematica di particolare rilevanza sociale, prima ancora che giuridica, che è stata affrontata per la prima volta nel nostro Ordinamento dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 48/2024. Il tema trattato inerisce la rilevanza dell’istituto comunemente noto come “poena naturalis” e del suo rapporto con la finalità cui deve protendere la pena inflitta dallo Stato per la commissione di un illecito di rilevanza penale: ossia se sia conforme a giustizia punire l’autore di un reato colposo che sia rimasto, a sua volta, vittima del reato stesso ed abbia già patito una sofferenza interiore tale che, l’ulteriore persecuzione da parte dello Stato, risulterebbe inutile (in termini di rieducazione) oltre che sproporzionata ed eccessivamente afflittiva. La nozione di “poena naturalis”, quale concetto giuridico volto all’individuazione e alla valorizzazione di quella sofferenza interiore che l’autore del fatto illecito già subisce per gli effetti nefasti del reato stesso, è istituto già riconosciuto in alcuni ordinamenti europei come ad esempio quello tedesco, laddove è pacificamente ammessa la possibilità per il giudice di non irrogare la pena prevista dal sistema giudiziario quando il colpevole ha già subito le conseguenze “naturali” della propria condotta in misura “…talmente grav(e) che l’applicazione di una pena sarebbe manifestamente priva di scopo” (§ 60 StGB). Il caso trattato dal Tribunale rimettente era assolutamente calzante rispetto al tema trattato, in quanto ha avuto ad oggetto il decesso di un lavoratore, nipote stretto del titolare dell’azienda, che, in occasione di alcuni lavori su di un tetto, a causa della mancata attuazione di alcune misure di sicurezza, cadeva perdendo la vita. La vicenda si connotava di particolari che mettevano in risalto proprio quel patimento interiore richiesto dall’istituto in esame perché, all’arrivo dei soccorsi, questi trovano lo zio, particolarmente legato al nipote, che si disperava tentando inutilmente di rianimarlo. Inoltre, a dimostrazione del profondo legame familiare, anche durante il processo i genitori del ragazzo defunto non si costituirono parte civile. Proprio nell’alveo del principio insito nella teorica della “poena naturalis” ed in ragione del caso specifico oggetto di giudizio, il Giudice rimettente ha inteso sottoporre alla Consulta il problema dell’assenza nell’ordinamento italiano del giusto collocamento dell’istituto in commento e dei riflessi che esso avrebbe potuto avere sulla punibilità del reo, posto che, in siffatti casi «…qualora fosse introdotta l’auspicata possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere – onde evitare l’applicazione di una pena che risulterebbe sproporzionata in considerazione del dolore già patito dall’autore del reato – l’imputato potrebbe senz’altro beneficiarne» (cfr. Sentenza Consulta par.1.1). Ed allora, con ordinanza del 20 febbraio 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’art. 529 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 13 e 27, terzo comma, della Costituzione, «nella parte in cui, nei procedimenti relativi a reati colposi, non prevede la possibilità per il giudice di emettere sentenza di non doversi procedere allorché l’agente, in relazione alla morte di un prossimo congiunto cagionata con la propria condotta, abbia già patito una sofferenza proporzionata alla gravità del reato commesso». Al fine di superare il vaglio della non manifesta infondatezza delle questioni da affrontare, il giudice a quo ha correttamente evidenziato come la denunciata lacuna normativa andasse a violare i principi costituzionali di necessità, proporzionalità e umanità della pena, in ragione del fatto che, la sanzione irrogata dall’ordinamento statuario, in aggiunta alla sofferenza già patita, sarebbe percepita alla stregua di «un crudele accanimento dello Stato», non solo inidonea ad assolvere a quella funzione rieducativa a cui la pena stessa dovrebbe protendere, ma anche del tutto inutile nella prospettiva di ogni sua possibile declinazione finalistica, sia essa generalpreventiva, specialpreventiva o retributiva. Essa si risolverebbe, argomenta il Giudice rimettente, solo in una «fredda conseguenza di rigidi automatismi, quasi l’applicazione di un sillogismo, noncurante della sottostante vicenda umana di sofferenza». V’è da dire però che la Corte, seppur superando l’eccezione inerente il limite della discrezionalità riservata al legislatore nella configurazione della sanzione penale e delle cause di improcedibilità (la Corte sul punto ha ribadito il principio ormai granitico secondo cui l’ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della politica criminale, trova il limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle sue scelte) non ha potuto addentrarsi oltre nella tematica alla stessa sottoposta in ragione della eccessiva ampiezza che la pronuncia additiva avrebbe avuto. Secondo il pronunciato della Corte, infatti, il Tribunale di Firenze non avrebbe ben definito i confini del petitum, tanto da risultare incompatibile con il tipo di pronuncia richiesta, posto che, pur ammessa la rilevanza della pena naturale per i reati tra congiunti, i confini della non punibilità avrebbero poi incluso tutte le ipotesi di reato colposo (ivi comprendendo, tra l’altro, non solo i delitti ma anche le contravvenzioni), ed anche i rapporti inerenti i familiari non strettamente intesi (in ragione del novero soggettivo molto ampio indicato dall’art.307 quarto comma cp che si estende fino a includere rapporti di parentela in linea collaterale di grado inferiore al secondo e persino vincoli di affinità). Purtuttavia, (ed è questo quello che veramente conta) il pronunciato della Corte, sebbene di rigetto, ha comunque riconosciuto l’importanza e la centralità della tematica affrontata, lasciando al contempo intendere che il tema della pena naturale, se correttamente definito nei suoi confini applicativi, potrebbe trovare la giusta collocazione anche nel nostro Ordinamento per disciplinare quelle “…situazioni-limite nelle quali sarebbe difficile non riconoscere che infliggere una pena sarebbe uno sterile adempimento legale privo di senso e di ragione” (da: La “Pena Naturale” al vaglio della Corte Costituzionale di Tullio Padovani).  La Corte infatti, criticando anche sotto altro profilo l’ordinanza di rimessione, ha sottolineato come l’istituto della pena naturale non può essere ricondotto nell’alveo di una pronuncia in rito (qual è la declaratoria ex art. 529 cpp), ma va ricondotto nell’alveo del diritto sostanziale, presupponendo con ciò il pieno accertamento delle modalità del fatto, ben potendo essa costituire “…in thesi, un’esimente di carattere sostanziale, ovvero ancora una circostanza attenuante soggettiva” (cfr. sentenza par.5.3.1). Ciò che si auspica, pertanto, è che, lo

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Principio di autonomia della responsabilità dell’ente

a cura di avv. Francesco Mazza, avv. Francesco Catanzaro, avv. Maria Laura De Caro, avv. Serena Lacaria, avv. Alessio Russo, dott.ssa Annalaura Ludovico Da poco più di un ventennio è stata introdotta all’interno del nostro ordinamento, tramite il d.lgs. n. 231/2001, la responsabilità amministrativa degli enti i quali divengono, così, centri di imputazione autonomi e ulteriori rispetto all’autore persona fisica del reato. L’art. 1 del d.lgs. in esame chiarisce il campo di applicazione della disciplina relativa alla “responsabilità da reato degli enti”, stabilendo che essa possa sorgere sia a carico degli enti forniti di personalità giuridica sia a carico di quelli che ne sono privi. Non sono invece soggetti a tale normativa gli enti di cui al comma 3: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono attività di rilievo costituzionale. La ratio di tale esclusione va ricercata nella considerazione che, con riferimento a detti enti, le tipologie di sanzioni previste dal decreto legislativo 231/2001, quali la sanzione pecuniaria e la sanzione interdittiva, sarebbero inapplicabili o disfunzionali, perché i loro effetti negativi, lungi dal ricadere direttamente sull’ente, si produrrebbero invece in capo ai cittadini. Occorre precisare, inoltre come non sia sufficiente che tali soggetti commettano un fatto di reato, ma è necessario, affinché sorga anche la responsabilità dell’ente, che il comportamento penalmente illecito sia commesso “nell’interesse o a vantaggio dell’ente”, con la precisazione ex art. 5 comma 2 che, qualora il soggetto attivo del reato agisca per un interesse esclusivo proprio o di terzi, la responsabilità dell’ente non può sorgere. Così facendo si assiste ad un superamento del dogma secondo cui “societas delinquere et puniri non potest” per il quale solo una persona fisica può rispondere della commissione di un reato e non anche un soggetto giuridico. Tuttavia, la normativa in esame, per come delineata e precisata anche dalla Suprema Corte, prevede che l’ente possa andare esente dalla responsabilità da reato, ma le condizioni di tale esenzione dipenderanno dalla qualifica rivestita dall’autore del reato: Se il soggetto attivo del reato si trova in una posizione apicale all’interno dell’ente, quest’ultimo potrà sottrarsi a responsabilità solo dimostrando di aver adottato ed efficacemente attuato i modelli di gestione idonei a prevenire la commissione di reati; Se il reo si trova in posizione subordinata, deve essere l’accusa a dimostrare in giudizio che il modello di gestione adottato non era idoneo o non era stato adeguatamente attuato. In relazione a quanto sopra delineato appare doveroso rappresentare le posizioni dottrinali e giurisprudenziali sopravvenute, soprattutto relativamente al principio di autonomia della responsabilità dell’ente sancito dall’art. 8, comma 1, lett. b) del d.lgs. 231/2001.   Un esempio esplicativo della disciplina in esame è certamente riconducibile all’ipotesi di prescrizione del reato presupposto, la cui conseguenza è quella secondo cui il giudice istruttore sarà comunque tenuto a valutare e procedere tramite un percorso processuale del tutto autonomo ed infatti, essa sussiste anche nelle ipotesi in cui il reato “presupposto” si estingue, eccezion fatta per le ipotesi di amnistia. L’illecito dell’ente, pertanto, pur essendo inscindibilmente correlato alla commissione di un reato da parte di una persona fisica nell’interesse o a vantaggio dell’ente, risulta comunque caratterizzato da autonomia giuridica e a confermarlo è la Suprema Corte in due sentenze che si qualificano come promotrici di un pensiero per il quale si ricostruisce la struttura dell’illecito dell’ente secondo un modello di tipo colposo. La prima sentenza in esame è la n. 21640/2023 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, all’interno della quale viene precisato che il giudice di merito non solo non ha accertato gli specifici profili di colpa di organizzazione, ma non ha neppure verificato se tale elemento abbia avuto incidenza causale rispetto alla verificazione del reato presupposto. Nel percorso motivazionale dell’impugnata pronuncia, ha chiarito la Corte di Cassazione, i criteri valutativi, tramite i quali la Corte d’Appello sia pervenuta all’affermazione della responsabilità dell’ente, sono stati valutati tramite una formula del tutto generica decisamente inidonea a sostenere l’affermazione di responsabilità in capo all’ente ai sensi del d. lgs. 231/2001, in quanto totalmente carente di elementi concreti indicativi dell’interesse e della consapevolezza dell’ente. Nel motivare quanto appena sostenuto, la Suprema Corte richiama un’altra sentenza, la n. 23401/2022 della Sesta Sezione Penale dell’11.11.2021, dep. 2022, secondo la quale: “l’addebito della responsabilità dell’ente non si fonda su un’estensione, più o meno automatica, della responsabilità individuale del soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente, a fronte dell’obbligo di auto – normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato presupposto, secondo lo schema legale dell’attribuzione di responsabilità mediante analisi del modello organizzativo”. Si è perciò affermato che, in tema di responsabilità delle persone giuridiche per i reati commessi dai soggetti apicali, ai fini del giudizio di idoneità del modello organizzativo adottato, il giudice di merito è chiamato ad adottare il criterio epistemico – valutativo della c.d. “prognosi prostuma”: tale criterio si sostanzia nell’attività da parte del giudice di collocarsi, seppur idealmente, nel momento in cui l’illecito è stato commesso e verificare se, nell’ipotesi in cui si fosse osservato il modello organizzativo per come previsto, il pericolo di verificazione dell’illecito si sarebbe eliminato o quanto meno ridotto. Sarà lo stesso giudicante, pertanto, a dover dimostrare, al fine di giustificare l’affermazione di responsabilità dell’ente, la carenza di quel complesso di regole elaborate dall’ente per la prevenzione del rischio reato, le quali trovano la loro sede naturale all’interno dei “Modelli di organizzazione, gestione e controllo” (MOG), meglio delineati all’interno degli artt. 6 e 7 del d. lgs. 231/2001. Anche la dottrina maggioritaria si trova d’accordo nel sostenere quanto affermato dalla Suprema Corte, soprattutto in relazione all’operato del giudice di merito relativamente all’adeguatezza del modello sopraindicato in quanto dovrà dimostrare, tramite una verifica concreta e non tramite un semplice criterio sillogistico per cui la commissione del reato equivale all’inidoneità dell’assetto organizzativo, se l’eventuale rispetto della normativa sancita dal MOG idoneo delineato dall’ente avrebbe portato a far sì che l’evento non si verificasse. In conclusione, la responsabilità dell’ente deriva dall’idoneità e correttezza del modello organizzativo

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Spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche

di Angela La Gamma   Il presente contributo mira ad offrire spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche, ex D.lgs. 231/2001 e di adeguatezza ed efficace applicazione del Modello di Organizzazione Gestione e controllo, partendo dall’analisi della pronuncia emessa dalla Corte di Cassazione, Quarta sezione penale, in data 5 ottobre 2023, avente numero 1636/2023 r.g sent. La sentenza in commento affronta la spinosa tematica della responsabilità dell’ente nelle ipotesi di morte (o infortunio) sul lavoro occorsa ad un dipendente e, nello specifico, della responsabilità derivante alla società dal presunto delitto di omicidio colposo commesso da soggetto apicale, il legale rappresentante dell’ente, nella qualità di datore di lavoro, fattispecie contemplata all’art. 25 septies del Dlgs 231/2001. La Suprema Corte, nell’annullare con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Firenze – la quale, confermando una pronuncia resa dal Tribunale di Pisa, aveva condannato, per il delitto di omicidio colposo ai danni di un operaio intento a rimuovere dei rifiuti boschivi derivanti da lavorazioni, tanto il datore di lavoro, quanto la persona giuridica- muove pesanti critiche ai giudici di secondo e primo grado. In particolare, la Cassazione, nella pronuncia in commento, rileva una serie di “errori giuridici” commessi dal Tribunale e reiterati dalla Corte d’Appello. In primo luogo, la Corte fiorentina è incorsa, secondo i Giudici di legittimità, in un’erronea valutazione, nel momento in cui ha edificato la responsabilità dell’ente su condotte che erano “riferibili, in astratto ancor prima che in concreto, esclusivamente alla persona fisica”: secondo le previsioni contenute nel D.lgs. 231/01, al contrario, la responsabilità dell’Ente va a sommarsi e non si confonde con quella della persona fisica che ha commesso l’illecito, è autonoma rispetto alla tradizionale responsabilità penale personale ed è legata alla commissione di un reato ricompreso nel catalogo dei reati presupposto previsti dal decreto medesimo. I Giudici di prime e seconde cure, inoltre, sono incorsi in un ulteriore errore valutativo, sempre secondo la Cassazione, allorquando hanno ritenuto coincidente il Modello di Organizzazione Gestione e controllo, di cui l’ente era dotato, con il sistema di gestione della sicurezza sul lavoro. Ancora, l’ultima censura che ha determinato l’annullamento con rinvio alla Corte d’appello di Firenze è relativa alla mancata prova circa la ricorrenza dei presupposti di imputazione della responsabilità, sanciti nell’art. 5 del D.lgs 231/01, il quale richiede, indefettibilmente, che il reato c.d. presupposto, quand’anche colposo, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’Ente. Pare opportuno soffermarsi, brevemente, su tali due ultime censure mosse dai Giudici di legittimità alla Corte territoriale fiorentina, ossia l’aver confuso, sovrapponendoli, gli ambiti di operatività, rispettivamente, del MOG e del sistema di gestione della sicurezza sul lavoro e l’aver trascurato la necessità che fosse provato l’interesse o il vantaggio per l’ente derivante dalla commissione dell’illecito. Con riferimento al primo punto, giova ricordare che il Modello di Organizzazione e Gestione, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs .231/01, è uno strumento di gestione aziendale che individua le procedure operative sviluppate per ridurre il rischio che soggetti apicali o sottoposti commettano reati a vantaggio o nell’interesse della società. Orbene, il MOG è affatto coincidente con il modello di gestione della sicurezza sul lavoro che è incentrato sul DVR (Documento Valutazione dei Rischi) e sul POS (Piano Operativo di Sicurezza): a differenza del primo, il modello di gestione della sicurezza sul lavoro individua i rischi connessi a quella specifica attività lavorativa e determina i mezzi e le misure idonee ad eliminarli o ridurli; al contrario il MOG, ha una portata molto più ampia, non limitata ad una specifica attività o settore di attività ed  è volto a prevenire il rischio di commissione di reati da parte di soggetti interni all’ente. Ciò attraverso la previsione di specifiche procedure aziendali di compliance, sottoposte al vaglio ed al controllo dell’Organismo di Vigilanza e caratterizzate da flussi informativi costanti che permettano di verificarne, non solo l’adozione ma anche e, forse, soprattutto, l’efficace attuazione. È vero che sotto il profilo della colpa dell’Ente, tanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione del MOG, quanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione modello di gestione della sicurezza sul lavoro, forniscono la prova della colpa in organizzazione da parte della società. Ma è altrettanto vero che ciò non significhi che i due piani siano coincidenti o, peggio, sovrapponibili, in quanto, come detto, i due modelli sono proiettati e normativamente destinati a finalità completamente differenti; né, tantomeno, bisogna ritenere che il verificarsi del reato implichi, ex sé, che il MOG adottato dall’Ente fosse inefficace o inidoneo a prevenire illeciti della stessa indole di quello in concreto verificatosi. Il D.lgs.231/01, infatti, all’art. 6, nel momento in cui “impone” l’adozione di un modello organizzativo valido ed efficace, non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma prevede, al contrario la c.d. colpa di organizzazione dell’Ente, intesa come mancata predisposizione di una serie di accorgimenti preventivi, idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quelli realizzati: è necessario cioè, al fine di sancire una responsabilità della persona giuridica, il riscontro, al suo interno, di un deficit organizzativo. L’addebito di responsabilità all’Ente, in altri termini – e come chiarito dalla giurisprudenza – non si fonda su un’estensione più o meno automatica della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente a fronte dell’obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato (cfr. Cass. Pen. sez. IV n. 570 del 2023), tanto è vero che, come detto, la responsabilità è esclusa se la società, prima della commissione del fatto, abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi (sul punto cfr. Cass. Pen. Sez. 6 n. 23401 dell’11/11/2021 cd. Impregilo – Cass pen. N. 21640 del 19 maggio 2023). È evidente, quindi, l’errore di fondo in cui sono incorsi i Giudici toscani, i quali hanno confuso i due piani di responsabilità e che deve essere ora sanato da una nuova sezione della Corte d’appello di Firenze, alla luce dei principi di diritto sanciti dalla Corte

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IL MONITO DELLA CONSULTA

  di Francesco Iacopino   Abuso di ufficio e abusi interpretativi della Magistratura Uno dei giudizi più autorevoli, insospettabili e severi verso la costante forzatura interpretativa della magistratura italiana in tema di abuso in atti d’ufficio lo ha dato la Corte Costituzionale (sent. n. 8/2022). Nel legittimare la costituzionalità dell’ultima, restrittiva riforma del 2020, la Corte così si esprime: << l’intervento normativo oggi in discussione riflett(e) due convinzioni, […] entrambe diffuse: a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione. […] l’esigenza di contrastare tali fenomeni, incidendo sulle relative cause […] non nasce con l’emergenza epidemiologica, ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere>>. Il ragionamento della Consulta è chiarissimo. L’abuso d’ufficio è norma “di chiusura” del sistema dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa. Una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo della gestione della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante. Per garantire un punto di equilibrio, il legislatore ha più volte inutilmente tentato, negli ultimi 30 anni, di fissare limiti alle incursioni della magistratura penale sulle scelte dei pubblici funzionari. Ma la giurisprudenza ha sistematicamente travalicato i rigidi paletti normativi, vanificando ogni iniziativa di riforma e riaprendo ampi scenari di controllo sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Tutto ciò, oltre ad alterare gli equilibri nella divisione dei poteri dello Stato, ha dato l’abbrivio al fenomeno della “burocrazia difensiva” e alla c.d. “paura della firma”. Ecco perché, di fronte alla trentennale ostinazione della magistratura di autoassegnarsi, anche a seguito della riforma del 2020, attraverso la figura “abusata” dell’abuso d’ufficio, un potere di controllo “no limits”, onnivoro, sull’operato dei pubblici funzionari e più in generale sulla politica, l’abrogazione dell’art. 323 c.p. appare oggi il “male minore” per recuperare una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente. Non spaventi l’eventuale abolitio criminis. La mala gestio del pubblico funzionario, nei casi più gravi, sarà sempre regolata dalla leva penale ricorrendo ad altre specifiche fattispecie di reato, mentre nelle ipotesi residuali competerà al giudice “naturale”, quello amministrativo, lo scrutinio dei profili di (il)legittimità dell’atto. Del pari, il pubblico funzionario dovrà rispondere al giudice erariale, con il proprio patrimonio, ogni qual volta sarà accertata una sua condotta infedele e dannosa per l’amministrazione. A margine della soluzione radicale proposta, urge comunque risolvere il “cuore” del problema, vale a dire il rispetto del “limite” da parte di chi, ai “limiti del potere”, fino ad oggi ha opposto strenuamente un “potere senza limiti”. (pubblicato su “PQM-Il Riformista”, il 30 dicembre 2023)

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Il metodo nelle associazioni di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.)

    Dott. Antonio Baudi   Abstract – Lo scritto affronta il dibattuto tema della natura del metodo mafioso qualificante la fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., disposizione innovativa introdotta dall’art. 1 della legge 13 settembre 1982 n. 646, quale forma speciale di associazione delittuosa. Dopo una preliminare trattazione della base associativa analizza gli elementi costitutivi del delitto (accordo, struttura, metodo, finalità) e si sofferma in maniera specifica sul metodo mafioso come requisito essenziale caratterizzante le associazioni del tipo, associazioni plurime operanti  nelle rispettive zone di influenza, tutte accomunate dalla tipologia normativa, e di recente problematizzate quanto alla connotazione giuridica di diverse, e nuove, realtà manifestatesi nel sociale, talune qualificate come forme di “mafia silente”. All’uopo introduce il principio di giuridicità rilevando che il principio di materialità, persistendo nel valorizzare il solo dato fenomenico, trascura che la fattualità non è isolabile, e quindi percepibile, senza il contributo derivante dal piano di rilevanza normativa. ove confluisce il complesso profilo del fatto penale nella sua consistenza duplice, storica e normativa, integrante il configurato principio di giuridicità. Quindi valorizza sul piano ermeneutico l’elemento del metodo mafioso e dell’avvalimento come requisito ricorrente in atto in funzione della necessaria offensività dell’illecito. In proposito, posto che Il delitto in esame è tradizionalmente reputato come reato di pericolo e a tutela anticipata, tale qualifica viene utilizzata per sostenere l’assunto secondo cui “l’avvalersi” andrebbe letto in senso potenziale, cioè come “il potersi avvalere”. Tale impostazione di pensiero viene censurata in questa sede sembrando più corretto l’orientamento che reputa la natura mista dell’offensività dell’illecito, in parte di pericolo ed in parte di danno: di pericolo rispetto al programma da compiere, di danno rispetto al metodo, che dunque va inteso come requisito che deve rinvenirsi in atto.   SOMMARIO –  1. Le ragioni della riforma e la disposizione speciale. 2. La base associativa. 3. Gli elementi costitutivi della fattispecie. 4. Il principio di giuridicità come guida ermeneutica per individuare il metodo mafioso come requisito essenziale di ogni associazione del tipo. 5. L’avvalimento della forza intimidatrice e i profili di offensività penale. (Il contributo è stato sottoposto in forma anonima, con esito favorevole, alla valutazione di un revisore esperto).   LEGGI CONTRIBUTO

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