Diritto Processuale

POLITICA E MAGISTRATURA SULLO SFONDO DELLE RIFORME

 di Giuseppe Cioffi* –  All’avvio di un nuovo assetto governativo e dopo una riforma dell’ordinamento giudiziario impostata e portata a compimento in tempi diversi da governi alternatisi alla guida del Paese, le attuali idee di cambiamento in corso di esame parlamentare danno adito ad immancabili occasioni di contrasti tra la parte politica che rappresenta la maggioranza ed esprime l’esecutivo e la magistratura associata, ovvero quella porzione di magistratura particolarmente ispirata a moralismo ideologico, c’è da chiedersi quale e quanta attenzione verrà riservata al vero problema, che è quello del rapporto tra cittadino e apparato giudiziario. Nel momento attuale e dopo rinnovati moniti in tempi diversi da parte della più alta carica dello stato a confrontarsi in modo dialogante e rispettoso delle prerogative degli organi costituzionali, sembra, ancora una volta, che la magistratura dimentichi la vera emergenza che affligge il mondo giudiziario, ormai da anni, e che realmente rappresenta un pericolo per la democrazia , atteso che l’accesso ad una tutela giudiziale effettiva è un servizio non solo necessario, ma fondamentale per la vita dei cittadini, sotto diversi punti di vista. Infatti, se incidere sull’assetto dell’organo giudiziario è stato considerato importante e primario, ritengo che, oggi, ancora più fortemente, debba essere avvertita l’esigenza di collegare l’ordine giudiziario, così come riformato, alle aspettative che la collettività nutre verso l’organizzazione del servizio giudiziario e cioè l’efficienza e la celerità. Infatti, benché l’esigenza di accelerare la durata dei processi sia continuamente oggetto di discussione, ed è particolarmente attenzionata dall’attuale Guardasigilli, è doveroso tenere a mente come le lungaggini dei meccanismi processuali non riguardano solamente un problema di consenso ideologico, ma incidono direttamente sull’andamento dell’economia. Soprattutto in tempi di congiunture economiche non favorevoli e di ricorso a piani straordinari di credito europeo (come oggi avviene con il PNRR), le lentezze processuali rappresentano inevitabilmente un fattore di ulteriore rallentamento delle dinamiche economiche e produttive, che incide sfavorevolmente nel settore dell’impresa così come del lavoro dipendente, del commercio e degli scambi internazionali, generando sfiducia negli investitori esteri. Per personale esperienza, oltre quella maturata sia in ambito associativo che extra giudiziario, mi sento di invitare a considerare che, nonostante gli sforzi di accelerazione profusi dai colleghi delle indagini preliminari, e i successi conseguiti grazie alla dedizione e capacità di inquirenti e Giudici, sono numerose, e di sistema, le lungaggini del settore penale che, spesso, vanificano ogni effetto positivo faticosamente guadagnato nelle battute iniziali, tanto da rendere ancora oggi il processo la vera e unica sanzione effettiva. Perciò, seppur in un’ottica di attento bilanciamento con i principi costituzionali e con attenzione anche alle esperienze internazionali di diritto comparato, non vanno trascurate, prime fra tutte, la proposta di rendere esecutiva la sentenza di primo grado e di procedere alla demolizione del totem della obbligatorietà dell’azione penale, passando necessariamente per la separazione delle carriere tra organo giudicante e inquirente. Si tratta di questioni da affrontare con serietà e urgenza perché potrebbero rappresentare un modo efficace per avviare a soluzione il dramma dell’eccessiva durata delle attività processuali. Su questi temi, tuttavia, è auspicabile un dibattito e confronto sereno tra la parte politica, attualmente alla guida del paese, e la parte tecnica qualificata, rappresentata dalla magistratura, dall’avvocatura e dall’accademia ed è necessario escludere riserve di matrice ideologica e pregiudizi dettati da ansia moralista, atteso che, di fronte alla gravità del problema, vanno tenuti in primaria considerazione gli interessi dei consociati. In questa prospettiva è necessario puntare anche ad adeguare le regole organizzative ad una concezione di stampo sostanzialistico, meglio consona e rispondente a visioni comunitarie, con un graduale abbandono della concezione formalistica, tanto cara alla nostra tradizione giuridica, ma in tempi attuali responsabile di dilatazione temporale non più sostenibile. Allora, la levata di scudi della magistratura associata, mai come in questi tempi schierata verso provvedimenti governativi o iniziative politiche della maggioranza, e gli allarmi verso presunti attentati alla democrazia sono ancora fuori dalle logiche di rispetto degli interessi dei cittadini, perché ispirate a visioni formalistiche e ideologiche, e vanno sostanzialmente nella direzione opposta, rispetto a quella auspicata, di un dialogo costruttivo sui temi urgenti dei veri problemi della giustizia. Un simile atteggiamento genera danni nell’ambito del sistema dei rapporti sociali, come nel mondo produttivo del paese, sia in prospettiva microeconomica che macroeconomica, e concorre a quella condizione di stagnazione in cui versa attualmente la nostra nazione, in un sistema fermo e arretrato rispetto agli altri partner europei. Alla magistratura, pertanto, nel rispetto delle sue competenze, poteri e posizioni istituzionali, va chiesto di concorrere con gli altri, più autenticamente tali, poteri dello stato alla soluzione degli urgenti problemi dell’organizzazione giudiziaria, di cui si è dato conto e che affliggono più direttamente la società e il mondo economico e che, ormai, da troppi anni attendono di essere affrontati seriamente e con soluzioni efficaci.   *Magistrato Tribunale di Napoli Nord – già Presidente ANM sottosezione Napoli Nord

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INTERVISTA AD ADELMO MANNA*

di Danilo Iannello** –    Professore, da tempo era nell’aria un imminente intervento del legislatore in relazione al delitto di abuso d’ufficio. Prima di addentrarci nelle problematiche giuridiche sottese, e che in questi giorni si stanno agitando, le chiedo quale sia il suo pensiero sulla radicale abolizione dell’istituto Per rispondere a questa domanda opero un richiamo a quanto ho già avuto modo di scrivere nel saggio apparso su Sistema Penale (Abolizione dell’abuso d’ufficio e gli ulteriori interventi in tema di delitti contro la P.A.: note critiche, 6 agosto 2024) e su Legislazione penale, (Dalla “burocrazia difensiva” alla “difesa della burocrazia”? Gli itinerari incontrollati della riforma dell’abuso d’ufficio, 17.12.2020), insieme al prof. Giandomenico Salcuni. Venendo al punto personalmente ho manifestato, anche per iscritto, la mia contrarietà all’abolizione dell’abuso d’ufficio, e ne spiego le motivazioni. Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad abolire l’abuso d’ufficio sono così sintetizzabili: un carico giurisprudenziale esiguo e questo perché l’abuso d’ufficio ha subìto diverse riforme che sono il sintomo di un contrasto fra il legislatore e la giurisprudenza, che si è ampiamente dimostrata come “giuscreativa”, nel senso che l’abuso d’ufficio, che originariamente nel 1930 era un abuso innominato, era una norma residuale rispetto all’interesse privato in atti d’ufficio. Una volta abolito l’interesse privato in atti d’ufficio è assurto, invece, a nuova vita, e negli anni ’90 vi è stata la suddivisione tra abuso “per finalità patrimoniali” e abuso “per finalità non patrimoniali”. Giunti a questo punto, però, il problema fondamentale era diventato quello della descrizione della fattispecie, che si è pian piano ristretta sempre più perché, proprio a causa di questo contrasto fra il legislatore e la giurisprudenza, il legislatore ha inteso restringere progressivamente i confini della fattispecie. Di converso, la giurisprudenza cercava in tutti modi di inserirvi il vizio dell’”eccesso di potere”, soprattutto sotto il profilo del “conflitto di interessi”. Il legislatore, nell’ultima elaborazione della fattispecie di abuso di ufficio, fa infatti riferimento alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente prevista dalla legge o da atti aventi forza di legge – e questo è il punto più rilevante – “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Quest’ultima locuzione è strumentale a far fuoriuscire dal perimetro applicativo della norma incriminatrice l’eccesso di potere. È ovvio, però, che a questo restringimento consegua una espansione degli esiti assolutori, divenendo molto arduo il condannare. Professore, proprio la riforma cui stava facendo riferimento, quella intervenuta nel 2020, in piena emergenza pandemica, ad opera del secondo Governo Conte, sappiamo bene come non abbia sortito gli effetti prefigurati. L’esperienza professionale quotidiana ci insegna che tale intervento sia rimasto, nei fatti, disatteso. Abbiamo continuato, ad esempio, ad assistere a contestazioni ancorate all’art. 97 Cost., in evidente e totale dissonanza con il testo emendato, nonché con lo spirito che aveva portato a quella riforma. Lei ritiene che, in disparte alle ragioni squisitamente giuridiche, vi sia stata una precisa volontà politica di ripristinare un corretto equilibrio tra il potere legislativo e quello giudiziario? È molto probabile che sia frutto anche di ciò. È un problema molto attuale, quello dei confini tra potere legislativo e potere giurisprudenziale, basti pensare a quanto sta avvenendo in questi giorni in tema di migranti, a seguito della pronuncia del Tribunale di Roma; è evidente quindi che questa è la preoccupazione del legislatore. Detto ciò, però, dobbiamo verificare le conseguenze dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Il prof. Gian Luigi Gatta ha operato un resoconto specifico, da cui è venuto fuori che in Italia vi siano state oltre tremila sentenze di condanna passate in giudicato dal 1930 ad oggi. Con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio tutte queste sentenze dovranno essere revocate e sostituite con una pronuncia perché il fatto non è più preveduto dalla legge come reato. Questo è il rovescio della medaglia. Non si è tenuto conto che poteva esistere una strada intermedia, riformare, cioè, la fattispecie criminosa, prendendo spunto delle indicazioni frutto del lavoro della Commissione Morbidelli, che è stata istituita nel febbraio del 1996 dall’allora Ministro della Giustizia, Caianiello (cfr. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, 25 ss. e, quivi, 27 ss.). A mio avviso, infatti, l’abuso d’ufficio non è una norma di scarso rilievo, poiché al suo interno è ricompresa, in primo luogo, la “prevaricazione” del pubblico agente nei confronti del cittadino, che è il modello ottocentesco del codice penale Zanardelli, in secondo luogo lo “sfruttamento privato dell’ufficio” e, soprattutto, il “favoritismo affaristico”. Ecco perché si doveva partire dal lavoro della Commissione Morbidelli per creare una fattispecie di abuso d’ufficio che avesse come base il “conflitto di interessi”, sul modello dell’art. 2634 del c.c. Sussisteva, dunque, una strada alternativa per rendere efficace l’abuso d’ufficio, senza sterilizzarlo. Professore, poc’anzi ha fatto riferimento al lavoro di ricerca svolto dal prof. Gatta, sulle condanne intervenute dal 1930 ad oggi. Le statistiche giudiziarie, però, da sempre restituiscono una percentuale impietosa di condanne, 9 ogni 5.000 processi celebrati, circa lo 0,2%. Dinanzi a tali numeri, possiamo concretamente ipotizzare il rischio di un vuoto di tutela? Una norma penale incriminatrice non può essere giudicata soltanto sotto il profilo della sua efficacia, perché la norma penale ha una funzione non solo, ovviamente, di prevenzione speciale, ma anche di prevenzione generale; nell’ottica, in particolare del collega Pagliaro (Pluridimensionalità della pena, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, Padova, 1964, 327, nonché, quivi, ID, Il diritto penale fra norma e società, Scritti 1956-2008, III, I, Milano, 2009, 861 ss. e, spec., 862-863), ciò significa funzione di “orientamento culturale” dei cittadini. Quindi, rispetto ad una formulazione della norma come quella previgente, risulta ovvia l’impossibilità di dimostrare un abuso d’ufficio, ma ciò non significa che la strada dell’abolizione fosse obbligata, poiché sarebbe stato preferibile procedere, come rilevato, ad una riformulazione della stessa. Un abuso d’ufficio riformato, quindi, con possibilità di essere applicato senza dover sconfinare in “figure sintomatiche” come l’”eccesso di potere”, ma prendendo come modello l’infedeltà patrimoniale con il conflitto di interessi come base, rimane una norma che ha un suo significato in relazione al pubblico agente, che deve agire secondo la disposizione

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RIFLESSIONI FUORI BINARIO SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL PROCESSO PENALE

di Nunzio Citrella* –  Apocalittici o integrati dinanzi all’uso dell’intelligenza artificiale nel processo penale? Ciò che è certo è che la consapevolezza e lo studio approfondito del fenomeno attuale assumono un’importanza ben più rilevante delle terrificanti descrizioni distopiche: troppo spesso i tratti di uno scontro epico tra l’uomo e la macchina, con il primo destinato a soccombere. Partiamo quindi dalla situazione attuale che ci vede vivere e operare nel triste ed insignificante mondo disegnato dall’acritico e impersonale copia-incolla. Un mondo reso arido (… e molto noioso per il giurista) in cui le esigenze quantitative di produzione giuridica seriale, quasi fordista, mettono in ombra l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, quel servizio ragionato volto a regolare i rapporti tra esseri umani. Così, ad esempio, quante copiose ordinanze applicative di misure cautelari sono il copia-incolla di elaborate richieste di applicazione della misura che sono il copia-incolla di CNR che copiano e incollano indiscriminatamente fonti indiziarie? Così la metodologia investigativa, nel sistema della mal gestita abbondanza che caratterizza il nostro tempo, è spesso stata (anche) quella di creare un pagliaio intorno ad ogni ago, con l’effetto di affidare alla difesa il difficile e talvolta insormontabile compito di ricerca degli elementi rilevanti all’interno di un compendio investigativo disordinato e lutulento. Sembra che l’accostamento tra catena di montaggio e copia-incolla sia assolutamente calzante.In questa ottica l’Intelligenza Artificiale, con la sua indubbia capacità di gestione di enormi quantità di dati e con una sufficiente capacità di riassumerne i contenuti, diventa indubbiamente uno strumento che rende meno appetibile il ricorso a queste strategie investigative sovrabbondanti, limitandone la portata, a patto che si sappia quali domande porre alla nostra strana “alleata” digitale. L’Intelligenza Artificiale ben gestita si candida a diventare uno strumento di parità sostanziale tra le parti del processo penale, favorendo un dialogo paritario finalmente incentrato sul dato qualitativo e disinnescando l’acriticità che discende dall’uso indiscriminato e disumanizzante del copia-incolla. Una riflessione è però necessaria conseguenza di questo ragionamento: se le parti possono snellire il compendio indiziario, riassumendolo tramite I.A., sembra inimmaginabile una realtà in cui viene impedito al Giudice di utilizzare lo stesso strumento per la gestione di dati probatori o per la redazione di parti della motivazione. Il Giudice può finalmente accantonare l’indiscriminato uso di copia-incolla che ha realmente distrutto la credibilità di molti provvedimenti e usare un nuovo strumento per muoversi criticamente all’interno del compendio probatorio. Sul tema del “muoversi criticamente” si innesta la possibilità di re-introdurre nel sistema processuale una qualità dell’avvocatura che è stata fin troppo umiliata dalle esigenze di produzione industriale delle sentenze: la restituzione del processo all’uomo, paradossalmente grazie alla macchina. L’Avvocato non dovrà soltanto conoscere e far applicare la legge sostanziale o processuale, ma indosserà la Toga per rivendicare agli occhi del Giudice l’umanità, per introdurre quelle sfaccettature della dimensione umana che finora non s’è avuto il tempo di valutare nei processi (non quanto sarebbe stato opportuno o necessario). L’Avvocato ricorderà sempre e comunque al Giudice che Egli non è un operaio che lavora alla catena di montaggio delle sentenze, ma un essere umano chiamato ad introdurre con prepotenza e orgoglio l’elemento emozionale nella sua produzione giuridica. Il Penalista che conosce l’essere umano e lo porta dentro le torri d’avorio della Giustizia accompagnerà per mano il Giudice invitandolo a porre ad I.A. le domande giuste, quelle che gli consentiranno di personalizzare e personificare la sua sentenza. In questo futuro prossimo, l’Avvocato non è più chiamato ad essere un mero conoscitore del diritto, ma diventa (o forse torna ad essere) un vero e proprio umanista, restituendo il diritto alle scienze umane. La sorte, che non manca certo di ironia, ci invita ad utilizzare a questo scopo giusto ciò che di meno umano ci fornisce il panorama delle nostre disponibilità. La macchina imita l’uomo, indirettamente gli impone di ricordare chi è, quale è il suo ruolo, nella vita come – per quel che ci riguarda in questa sede – nel processo penale; la macchina impone alla coscienza del Giudice di essere carne e sangue, di “complicare” gli algoritmi innestandovi le infinite variabili dell’emotività umana. Non v’è alcuna accettabile alternativa al Giudice umano ed emotivo, fortunatamente fallibile ma giusto, convinto e non persuaso dall’esito di un dibattito regolato da altri due esseri umani, portatori di tesi e antitesi contrapposte che si integrano, si contestano, si scontrano e portano ad una verità condivisa. Non v’è alternativa in senso sostanziale perché la rinuncia all’umanità e all’emotività del Giudice rischia di condurre a soluzioni aberranti su temi che la statistica non può risolvere. Un esempio per tutti: I.A. simula ragionamenti razionali e quindi è capace di creare una moltitudine di catene causali plausibili che non potranno essere altro che ontologicamente ragionevoli e quindi sempre e comunque integranti un ragionevole dubbio che rischia di generare un loop inaccettabile. Non v’è alternativa in senso sociale, rappresentando il processo penale uno strumento di catarsi laica nel quale il Giudice assume la funzione di personificazione delle istanze del gruppo sociale che proprio attraverso il rito risolve il conflitto. L’esclusione dell’umanità del Giudice dal processo, intendendosi l’umanità non solo come figura fisica presente in aula ma soprattutto come contributo emozionale al processo decisionale, comporterebbe l’impossibilità per il gruppo sociale di impersonarsi nel Decidente. Il rischio è quello di generare un pesante vuoto nella risoluzione governata dei conflitti sociali e in un’ultima analisi aprendo le porte a inaccettabili scenari degni di quel futuro distopico paventato dai più fantasiosi apocalittici. Tornando alla domanda iniziale, è allora probabile che l’unica via sia quella di essere “consapevolmente integrati”, non ingenuamente ottimisti né aristocraticamente pessimisti, fieramente portatori della nostra imperfetta ma irrinunciabile umanità. *Presidente Camera penale degli Iblei

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PROPOSITI DI RIFORMA DELLA CUSTODIA CAUTELARE: SPERANZE O PERPLESSITÀ?

di Domenico Nicolas Balzano – Avverto, in premessa, il dovere di scusarmi con quei lettori, i quali avranno la pazienza di leggere questo articolo, invece che cestinarlo, come meriterebbe, e lo faccio specificando che non ho potuto respingere il garbatissimo invito del mio amico e maestro Francesco Iacopino a scrivere un articolo per la rivista, della quale è responsabile, e che, affermatasi nell’ammirazione dell’Avvocatura nazionale, è orgoglio dell’intera, e a me tanto cara, Avvocatura calabrese. Un argomento, che m’è parso di grande interesse e meritevole di riflessioni comuni, è quello della custodia cautelare e dei suoi abusi, ritornato al centro dell’attenzione con l’annunzio del progetto di riforma del ministro Nordio, colto gentiluomo, anche di idee liberali – le Sue, non quelle di chi lo circonda – e, forse, ancora meritevole di fiducia. Il suo progetto di riforma si incentra su due aspetti: l’interrogatorio preventivo e la collegialità dell’ordinanza. È lecito avere speranze per l’avvio di una nuova stagione o è doveroso maturare perplessità a tal riguardo? Mi sembra che speranza – non molta – e perplessità – anche troppa – siano destinate a convivere. L’interrogatorio preventivo, cioè la possibilità di rappresentare preventivamente elementi idonei a scongiurare l’applicazione della misura, è verosimile sia destinato all’insuccesso e non solo per le numerose eccezioni, per le quali ad esso non si procede e che è prevedibile si estendano sino al punto da costituire un’eccezione il suo svolgimento, ma perché  si tratterebbe di un atto, asseritamente di natura garantista, che, però, contraddicendola, si svolgerebbe in condizioni di minorata difesa, salvo che l’indagato non disponga – ma è assai raro – di elementi decisivi: un inattaccabile alibi, la dimostrazione di un’omonimia e poco altro. Risulterà del tutto irrilevante quel che dirà l’indagato ad un organo giudicante che non dispone di poteri istruttori necessari per la verifica della tesi difensiva. È verosimile, pertanto, che la decisone risulterà identica a quella che sarebbe stata anche senza l’interrogatorio. Se però, tale atto, appare difficilmente idoneo a scongiurare custodie cautelari ingiustificate non è scevro da potenziali pregiudizi; ed è la ragione per la quale parlavo di minorata difesa. Quante concrete possibilità avrà di rappresentare un’argomentata e lucida tesi difensiva l’indagato che abbia conoscenza solo dell’ipotesi di addebito ma nessuna o quasi – ed altrettanto il suo difensore – del materiale investigativo raccolto spesso in numerosi e ponderosi faldoni? Il rischio che egli commetta peccati di ingenuità è reale. E quanta probabilità di ascolto avrà un difensore, il quale, per scongiurare tali peccati, consigli di avvalersi della facoltà di non rispondere, se il suo assistito affida proprio all’interrogatorio la sua speranza di evitare la misura? Peraltro, è noto quanto qualsiasi accusato sopravvaluti il peso delle sue tesi e la propria capacità di rappresentarle efficacemente. È dubbio, che quest’aspetto della riforma si traduca in un vantaggio per l’indagato ma è, invece, ben più probabile si traduca in un pregiudizio, anche irreparabile.   Anche il tema della collegialità dell’ordinanza impone riflessioni. Il principio che ispira la riforma è quello che tre teste ragionino meglio di una e garantiscano maggiore equilibrio. E non sempre è così. Anzi. Peraltro, si può, per davvero, essere certi che il provvedimento collegiale sia il risultato un confronto tra più intelligenze autonome ed equivalenti sotto il profilo dell’incidenza sul provvedimento? Come funzionino gli organi collegiali è noto a tutti gli Avvocati, i quali ben sanno che la vera collegialità è assai rara. Nella realtà c’è sempre un componente il collegio – il relatore – che ha maggiore conoscenza del fascicolo. Spesso è addirittura l’unico che ne abbia. La sua opinione condiziona l’asserita collegialità. Neppure è infrequente che nel collegio vi sia un componente il quale con maggiore determinazione si batte per imporre la sua tesi ed è molto spesso il più autorevole ma purtroppo il meno disponibile ad accedere alla tesi difensiva. Una presumibile falsa collegialità è destinata, dunque, a rivelarsi irrilevante quanto ad una significativa riduzione degli eccessi o addirittura degli abusi cautelari. Ma c’è un ulteriore aspetto di riforma, che, piuttosto che irrilevante, la renderebbe pericolosa e nociva. Il ministro, in occasione di un convegno a Napoli, ne parlò, ed, io, ascoltando agghiacciai. Egli disse che se l’emissione dell’ordinanza veniva sottratta alla competenza di un giudice monocratico e riservata ad un organo collegiale, non vi sarebbe più stata la necessità di affidarne la verifica di legittimità formale e sostanziale ad altro organo collegiale: il tribunale per il riesame. L’impugnazione del provvedimento sarebbe stata limitata al solo ricorso per cassazione. Se dovesse compiersi la riforma, anche con tale appendice, i risvolti negativi risulterebbero evidenti. Il ricorso per cassazione può essere proposto solo per ragioni di legittimità e non di merito. Queste ultime venivano rappresentate al tribunale per il riesame, ma non potrebbero essere proposte al giudice di legittimità. Di esse – se anche decisive – la difesa non potrà fare altro uso che quello di riassumerle in un’istanza al giudice che ha emesso la misura e in caso di rigetto, al tribunale per il riesame, nei tempi assai più lunghi previsti per tale peculiare procedura. Peraltro, il giudice della misura, monocratico che sia o collegiale che dovrebbe diventare – provvede “inaudita altera parte” – valuta le ragioni del p.m., non anche quelle difensive, anche se procede all’interrogatorio preventivo, nel quale parla l’indagato ma non il difensore. L’udienza di riesame è la prima – e spesso anche l’unica – occasione per la valutazione degli elementi addotti dalla difesa. Ed è quella, nella quale si completa il contraddittorio sulla misura, sino ad essa inesistente, per la presenza di un’unica voce e di nessuna risposta. Eliminarla, pertanto, in nome dell’inutilità di una seconda deliberazione collegiale significherebbe rinunziare al contraddittorio sulla misura ed espellere il difensore dal procedimento cautelare. Vi sarebbe poco da esserne lieti! Luci ed ombre, dunque, nella riforma annunziata, pallide le prime ed ancora spesse le seconde. È certamente una luce il fatto che il ministro abbia riconosciuto che la misura cautelare è spesso un abuso e un’emergenza che reclama una soluzione non più differibile. È ancora

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QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

 Avvocati Giovanni Fioresta e Piero Funaro –  Modello di eccezione di incostituzionalità degli articoli 168-bis del codice penale, 550 del codice di procedura penale e 73, comma quinto, decreto del presidente della repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, per violazione degli articoli 3 e 27, comma terzo della costituzione.        È necessario premettere che l’istituto della messa alla prova prevede la possibilità per l’imputato di ottenere l’estinzione  del reato, ponendo in essere condotte finalizzate all’eliminazione  delle conseguenze del reato, risarcendo il danno ed effettuando  lavori  di pubblica utilità. La messa alla prova dell’imputato può essere concessa solo  ove il giudice ritenga possibile formulare una prognosi favorevole circa la futura astensione da  parte  dell’imputato  dalla  commissione  di ulteriori reati e ancor prima non vi siano elementi per una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129  del  codice  di  procedura penale (art. 464-quater, comma 3 del codice di procedura penale). La recente modifica intervenuta sul quinto  comma  dell’art.  73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (di cui all’art. 4, comma terzo, decreto-legge 20 marzo 2023, n. 123, convertito dalla legge 13 novembre 2023, n. 159), che ha innalzato il  limite  massimo di pena previsto per detta ipotesi delittuosa – portandolo da quattro anni di reclusione a cinque anni -, tuttavia, impedisce  all’imputato di accedere all’istituto della messa alla  prova,  in  quanto  l’art. 168-bis del codice penale lo consente per  i soli  reati  punti  con «pena edittale detentiva non superiore nel massimo  a quattro  anni, sola, congiunta o alternativa alla pena  pecuniaria»  oppure «per  i delitti indicati dal comma 2 dell’art. 550 del  codice  di  procedura penale» ovvero per i delitti per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero. Come spesso accade negli ultimi anni, la iperproduzione di leggi, promulgate in fretta e senza le opportune analisi, lascia profondi buchi normativi, provocando gravissime disparità di trattamento anche evidenti, con conseguente necessità di attenzionare la Corte Costituzionale. A seguito della citata modifica, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 DPR 309/90 è stato escluso dall’alveo dei delitti per i quali è possibile definire il giudizio con le forme della messa alla prova, a causa della mancata previsione (mediante rinvio ai criteri sopra menzionati) nel novero dei reati per i quali l’art. 168-bis del codice penale può trovare applicazione, essendo soddisfatti tutti gli altri requisiti. L’esclusione dall’applicazione dal detto istituto estintivo appare incostituzionale, in quanto – per i motivi meglio esplicitati nel prosieguo – comporta una disparità di  trattamento  rispetto  a situazioni analoghe ovvero addirittura deteriori, oltre che a porsi in contrasto con la finalità rieducativa di cui all’art. 27 della Costituzione. Si ritiene infatti che la disciplina risultante dal combinato disposto degli articoli 168-bis  del  codice  penale  –  550  del  codice  di procedura penale – 73, comma quinto,  decreto  del  Presidente  della Repubblica n. 309/1990 sia contraria ai  principi  di  uguaglianza  e ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di finalità rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione). Quanto al principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, infatti, si evidenzia che la recente riforma introdotta con decreto legislativo n. 150 del 2022 aveva ampliato il novero dei reati per i quali può essere disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova, tra l’altro inserendo alla lettera c) del secondo comma dell’art. 550 del codice di procedura penale (casi di citazione diretta a giudizio) la fattispecie prevista  dall’art.  82, primo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, proprio in materia di delitti concernenti le sostanze stupefacenti. Il delitto previsto dal primo comma del citato art. 82 punisce la condotta di chi «pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze,  ovvero  induce una persona all’uso medesimo» con la pena della reclusione da uno a sei anni, oltre alla multa. Risulta di lampante evidenza l’identità dei beni tutelati dalle due fattispecie suindicate (quella di cui all’art. 73 comma V e 82), anche perché poste nella medesima disposizione legislativa, a soli 9 articoli di distanza. Sotto altro profilo, colui il quale commetta il delitto ritenuto dal legislatore più grave, vale a dire quello di cui all’art. 82 dpr 309/90 alla luce della più elevata pena edittale, si troverà a godere del beneficio della messa alla prova, a differenza dei soggetti puniti per la condotta edittalmente più lieve commessa dopo l’entrata in vigore della riforma. Ne discende l’evidente disparità di trattamento tra le due fattispecie: benché aventi ad  oggetto  identico  bene  giuridico  e nonostante lo stesso legislatore abbia ritenuto più grave il delitto di cui all’art. 82 decreto del Presidente  della  Repubblica  citato, sanzionandolo con pena edittale maggiore, solo  per  quest’ultimo  sarà possibile accedere all’istituto della messa alla prova. Il citato irragionevole trattamento certamente è conseguenza del miope intervento legislativo volto, nell’ormai consueta ottica punitiva, a consentire l’irrogazione della custodia in carcere anche all’ipotesi lieve di cui in parola, senza considerare i risvolti applicativi delle ulteriori norme.    Prima della riforma del 2023 suindicata, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 rientrava nei casi di citazione diretta a giudizio, mentre a seguito della riforma esso è stato escluso, sia in ragione dei nuovi limiti edittali che per l’omessa indicazione nella disposizione procedurale. Si tratta dunque di un effetto della riforma non immediatamente evidente, in quanto mero riflesso dell’aumento  della  pena  edittale massima. Tuttavia, quand’anche l’esclusione della fattispecie di cui si discute dal novero dei reati per i quali è  prevista  la  citazione diretta del p.m. e dei reati per i quali è consentita la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato fosse  frutto  di una precisa e consapevole scelta del legislatore, si osserva  che,  a mente del  principio  di  ragionevolezza  e  di  uguaglianza di cui all’art. 3 della  Costituzione,  tale  scelta  sarebbe   ugualmente incostituzionale, in quanto si tratterebbe di una scelta arbitraria e non già discrezionale. Non si intravvedono validi motivi, infatti, per cui il responsabile del più grave delitto di cui all’art. 82

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DOPPIO BINARIO E PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA

di Luigi Miceli*- Al congresso straordinario di Reggio Calabria, sabato 5 ottobre, ho avuto l’onore e l’onere di moderare la tavola rotonda titolata “Doppio binario e presunzione di colpevolezza” Le regole processuali del c.d. doppio binario, come è noto, sono state introdotte sulla spinta di logiche emergenziali, che nel tempo si sono strutturate fino ad essere considerate addirittura normali, nonostante comportino una evidente limitazione delle garanzie, anche in deroga ai principi costituzionali in tema di giustizia, ad iniziare dal diritto di difesa. In linea generale, il congresso è stato, tra l’altro, caratterizzato dal sovente richiamo all’attuale elaborazione normativa ispirata all’idea “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”. In altri termini, abbiamo assistito prevalentemente alla produzione di norme di natura garantista in materia procedimentale e di carattere autoritario/securitario sul versante del diritto sostanziale. Dinanzi a questa azione politica ambivalente fanno, ancora una volta, eccezione i processi relativi ai reati che rientrano nella categoria del doppio binario, per i quali si continuerà a procedere in deroga ai principi costituzionali sanciti in tema di giustizia.  Il c.d. “allarme sociale” determinato da alcune vicende di cronaca, alimentato a dismisura dal tam tam mediatico e social mediatico, che dà sfogo alle pulsioni forcaiole e vendicative, purtroppo sempre presenti nell’animo umano, ne ha addirittura determinato la continua espansione, anche sotto il profilo sostanziale, ossia delle figure di reato coinvolte. Si potrebbe, a ragion veduta, obiettare che tanto più grave e infamante è il reato contestato, quanto maggiore dovrebbe essere il livello delle garanzie riconosciute all’imputato. La relazione del Prof. Daniele Negri e l’intervento del Prof. Oliviero Mazza hanno, in proposito, mirabilmente sottolineato come i principi costituzionali come la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, il diritto di difesa, il diritto ad un giusto processo e la funzione rieducativa della pena non prevedono deroghe riconducibili al titolo di reato per cui si procede o si è proceduto. Ed invece, nei processi c.d. di criminalità organizzata, sui quali è stata focalizzata l’attenzione, anche in considerazione delle evidenti criticità coralmente emerse da alcuni interventi del giorno precedente, si inizia con la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere e si finisce, nella fase esecutiva, con l’inibizione all’accesso di misure alternative alla detenzione carceraria (art. 4 bis dell’O.P.), molto spesso attraverso maxinchieste e maxiprocessi, ontologicamente intrisi di un elevatissimo rischio di sommarietà divenuto ormai inaccettabile. Al sud Italia si celebrano maxiprocessi dal 1927 e, nonostante l’evoluzione dei riti, l’approccio è rimasto sempre il medesimo, ossia il processo quale mezzo di contrasto ai fenomeni criminali, piuttosto che un rito finalizzato ad accertare la fondatezza o meno di una ipotesi di reato contestata ad un imputato. Anche i maxiprocessi sono, tuttavia, diventati una costante metodologica, nel cui ambito è sempre più difficile esercitare il diritto difesa di uno, rispetto allo sforzo investigativo e al clamore mediatico dei “cento” o anche dei “quattrocento”. In una delle maxinchieste siciliane, celebratesi col nuovo codice, nel dispositivo di sentenza è stato condannato un soggetto, che era stato precedentemente prosciolto in udienza preliminare. Rispetto alle eventuali ragioni sottese all’istruzione delle maxinchieste, anche in considerazione del fatto che, in Calabria come in Sicilia, non viene più richiesto alla pubblica accusa di provare l’esistenza dell’“associazione” in sé, ma l’eventuale partecipazione, anche con ruoli apicali o la dimostrazione della sussistenza dei c.d. reati fine, il Dott. Stefano Musolino, dopo avere ricordato le difficili condizioni ambientali su cui si innestano le investigazioni e rivendicato l’ampia discrezionalità attribuita al pubblico ministero, mediante gli istituti della connessione procedimentale e del collegamento probatorio, ha manifestato una apprezzabile apertura sia in ordine al ridimensionamento del rilievo dimostrativo dell’art. 238 bis c.p.p. (sentenze irrevocabili), di dubbia costituzionalità, e sia in relazione alla necessità di ridurre le categorie dei reati previsti dall’art. 4 bis O.P. e di quelli c.d. “spia” per le misure di prevenzione. Tornando ai maxiprocessi sono state ribadite dall’Avv. Maria Teresa Zampogna le difficoltà del difensore a dovere affrontare un processo al “fenomeno criminale”, laddove capita pure che l’avvocato venga strumentalmente accusato di difendere il reato, piuttosto che l’indagato/imputato, col rischio di essere direttamente incriminato se non addirittura arrestato. Fatto certo è che le maxinchieste sono “portatori sani” di errori giudiziari e, come sottolineato dalla Presidente della Corte di Appello di Reggio Calabria, Caterina Chiaravallotti, in Calabria, per il periodo primo gennaio 2023 – 30 giugno 2024, sono stati liquidati 5.729.381euro a titolo di riparazioni per ingiuste detenzioni. Una ulteriore buona ragione per mettere un freno alla proliferazione delle maxinchieste e, contestualmente, ripristinare i principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza per i reati ricompresi nella categoria del c.d. “doppio binario”. Anche dalla riva dello Stretto, luogo mitologicamente evocativo, dove Ulisse seppe resistere al richiamo delle sirene rimanendo al timone della propria nave, ribadiamo, con la forza delle nostre idee, che i penalisti italiani non si faranno risucchiare dai vortici alimentati dalla sommarietà del giustizialismo e dalle semplificazioni mass mediatiche, continuando a mantenere la rotta delle garanzie e dello stato di diritto, affinché nel processo, per qualsivoglia reato e a carico di qualunque imputato, la responsabilità penale non sia un punto di partenza da ratificare ma, esclusivamente, una delle possibili soluzioni finali, e l’eventuale pena, mai contraria al senso di umanità, dovrà sempre essere finalizzata alla rieducazione del condannato.     *Avvocato, Componente di Giunta UCPI

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Effetti premiali della rinuncia all’impugnazione

di Fabiola Scozia e Maria Chiarella* –  Breve nota di commento alla sentenza della sezione II della Corte di Cassazione n. 4237/2024 del 31 gennaio 2024, in tema di natura sostanziale dell’art. 442 co. 2 bis c.p.p. e di principio di retroattività della lex mitior. La Corte di Cassazione, con la recentissima sentenza n. 4237/2024, emessa dalla Seconda Sezione Penale il 31 gennaio scorso, ha enunciato un fondamentale principio di diritto in tema di retroattività della normativa introdotta dalla riforma Cartabia e contenuta nel comma 2 bis nell’art. 442 del codice di procedura penale. Come è noto, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. prevede che, nell’ipotesi in cui l’imputato decida di non proporre appello, ha diritto ad una riduzione di pena ulteriore a quella già concessagli a seguito della scelta del rito: nello specifico, la pena è ulteriormente ridotta di un sesto dal Giudice dell’esecuzione. La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, si è preoccupata pertanto di stabilire se la nuova previsione normativa abbia carattere sostanziale o processuale, al fine di determinarne, o meno, l’applicabilità anche ai processi in corso alla data di entrata in vigore della riforma, in quanto legge più favorevole. La Corte di Cassazione, discostandosi da un orientamento precedente (Cfr. Cass. sez. I, 21 dicembre 2023, n. 51180), è giunta alla conclusione che la disciplina prevista dall’art. 442 comma 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali nell’ambito dei quali sia già stata proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore della d. lgs. n. 150/2022, ma questa sia successivamente oggetto di rinuncia: infatti, tale norma, pur essendo disposizione processuale, dal momento che incide sul trattamento sanzionatorio ha ricadute necessariamente sostanziali; pertanto, deve trovare applicazione il principio di retroattività della lex mitior quando la sentenza non sia passata in giudicato.  Vediamo, quindi, il ragionamento operato dai Giudici della Cassazione per pervenire all’enunciazione di un così importante principio di diritto. Ebbene, la pronuncia in commento ha ad oggetto la decisione emessa dalla Corte d’Appello di Venezia, in data 23/01/23, che ha confermato la sentenza di condanna emessa, in data 08/06/22, dal Gup presso il Tribunale di Vicenza, all’esito di giudizio abbreviato. Avverso tale sentenza, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione deducendo la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) ed e) c.p.p. per inosservanza delle norme processuali, in relazione all’inidoneità delle prove acquisite a dimostrare la sua partecipazione al reato e la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. b) ed e) c.p.p. per inosservanza della legge penale e vizio di motivazione circa la sussistenza dell’elemento subiettivo richiesto dalla norma incriminatrice. Il ricorrente, inoltre, ha dedotto, quale terzo ed ulteriore motivo, la violazione dell’art. 606, co. 1, lett. c) c.p.p. con riferimento, appunto, all’art. 442, co. 2 bis, c.p.p., ponendo all’attenzione dei Giudici di legittimità una stimolante questione di diritto intertemporale.  Invero, nell’ipotesi di specie, la novella introdotta con la cosiddetta Riforma Cartabia (D. Lgs. n. 150/22), avente ad oggetto la riduzione di un sesto della pena nell’ipotesi in cui il soggetto decida di non proporre appello, sarebbe entrata in vigore successivamente alla proposizione del gravame, ma prima dell’udienza fissata dalla Corte territoriale per la discussione delle parti. Di conseguenza, il ricorrente, in sede di appello, ha avanzato istanza di remissione in termini al fine di rinunciare all’impugnazione medesima e beneficiare dell’effetto premiale previsto dal comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. Tale istanza è stata rigettata dalla Corte d’Appello di Vicenza, la quale, quindi, ha confermato le statuizioni di primo grado. Da qui, la proposizione del ricorso per Cassazione mediante l’enucleazione dei motivi suesposti. Orbene, la Suprema Corte, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, oltre che la manifesta infondatezza del terzo motivo, ha enucleato il principio di diritto menzionato in precedenza, stabilendo che la disciplina dell’art. 442 c. 2 bis c.p.p. è astrattamente applicabile anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150/2022, atteso che, incidendo sul trattamento sanzionatorio, essa ha natura sostanziale. L’art. 442 c. 2-bis c.p.p., dunque, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applicherà anche ai procedimenti penali per i quali era stata già proposta impugnazione al momento dell’entrata in vigore del d. lgs. 150/2022. Il diritto penale “materiale” è un approdo ermeneutico costituito per ampliare le garanzie proprie del diritto penale formale ai sistemi sanzionatori del sistema penale non formale (la norma processuale che ha ricadute sul piano sostanziale non è sottoposta al principio del tempus regit actum, ma a quello di legalità). Si tratta, a ben vedere, di una conclusione interessante in tema di successione di leggi penali nel tempo, che conferma il principio sancito all’art. 25, comma 2 della Carta Costituzionale, a mente del quale “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso” ed al contempo rafforza il principio della retroattività della legge sopravvenuta favorevole, sancito dalla Corte Costituzionale. Nel caso come quello in esame, in virtù del principio di retroattività della lex mitior, il comma 2 bis dell’art. 442 c.p.p. deve trovare applicazione, tenuto conto del fatto che la sentenza non è passata in giudicato. Potrebbe affermarsi che è ormai acquisito nel nostro sistema giuridico il principio secondo cui il trattamento sanzionatorio, anche laddove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali, con la conseguenza che è soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2 cod. pen. Tuttavia, non sempre un simile assunto è stato pacificamente applicato; come detto in premessa, infatti, il principio ricavato dalla sentenza in commento si pone in contrasto con quanto affermato in altra occasione dalla Suprema Corte (sentenza n. 51180 del 12/10/2023) secondo cui, in tema di rito abbreviato e riduzione di un sesto della pena, a seguito dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, la riduzione spetta solo nel caso di «radicale mancanza dell’impugnazione» e non anche nel caso di rinuncia all’impugnazione già proposta. Con tale ultima pronuncia, la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha richiamato, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in merito alla portata

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L’”errore percettivo” della Cassazione e il carcere per una persona che non doveva andarci

di Vincenzo Giglio e Riccardo Radi –    Oggi raccontiamo una storia sbagliata. Ce ne sono più di quante vorremmo nel grande calderone della giustizia e questo crea una doppia difficoltà: è difficile dedicare a tutte l’attenzione che pure meriterebbero; è sempre latente la sensazione di inutilità poiché nessuno sforzo pare capace di provocare anche il più marginale cambiamento. Tuttavia ci sono storie più sbagliate di altre, soprattutto quando sbaglia chi ha il compito di correggere gli errori altrui. È questo il ruolo della Corte di cassazione che Michele Taruffo, in una raccolta di saggi edita da Il Mulino nel 1991, denominò il “vertice ambiguo”, espressione giustificata dalla difficoltà di coniugare le due funzioni tipiche della nostra Suprema Corte; la verifica della legittimità delle singole procedure e il ruolo nomofilattico generale. Chi analizza per studio o lavoro la sua produzione complessiva, i risultati che produce, i suoi conflitti interni, la sua capacità persuasiva, non tarda a scorgere i sintomi dell’affanno: la Cassazione fa fatica a reggere i rilevantissimi flussi di lavoro che le sono assegnati ma al tempo stesso deve smaltirli perché il tempo non è più una variabile indipendente e l’arretrato non è più un’opzione. La prima vittima è ovviamente la funzione nomofilattica, sempre più indebolita da una produzione necessariamente convulsa che fa premio su qualsiasi altro fattore, ivi compresa la riflessione. La seconda vittima è la verifica della legittimità: il ritmo martellante dei flussi in entrata, delle udienze sovraffollate, delle camere di consiglio, delle decisioni da scrivere in fretta e furia fanno sì che la Cassazione si distanzi sempre più dal cuore dei processi e quindi dalle persone in carne e ossa che stanno dietro ogni ricorso e ogni difesa. Non stupisce allora che possano verificarsi storie sbagliate come quella di cui ci accingiamo a parlare. L’avvocato Maurizio Capozzo, difensore di VS (lo identifichiamo con le sole iniziali nel rispetto del suo diritto alla riservatezza), una di queste persone in carne e ossa, ricorre per cassazione contro la decisione della Corte territoriale che ha confermato la condanna inflitta in primo grado al suo assistito, riconosciuto responsabile in concorso di una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate o tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. Si affida ad un unico motivo, deducendo la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto – esso difensore di fiducia – alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze attraverso le quali si è sviluppato il giudizio di appello, per essere stato notificato l’avviso, invece, ad altro difensore. Il ricorso è trattato e deciso da Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 50649/2023, udienza del 14 settembre 2023 ma, per quanto possa sembrare strano, per raccontarne l’esito abbiamo necessità di fare riferimento ad una differente decisione, precisamente Cassazione penale, Sez. 2^, ordinanza n. 50430/2023, udienza del 14 dicembre 2023, di cui riportiamo il testo integrale: “All’udienza del 14 settembre 2023 questa seconda sezione penale della Corte di Cassazione decideva i ricorsi proposti da VS ed altri avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli che il 28/9/2022 aveva confermato il giudizio di penale responsabilità espresso nei loro confronti dal Tribunale cittadino il 30/6/2021 in relazione ad una pluralità di episodi criminosi integranti fattispecie di estorsioni consumate e tentate, aggravate ai sensi dell’art. 416 bis.1, cod. pen. VS, in particolare, con unico motivo di impugnazione, aveva dedotto la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità per non aver ricevuto il difensore di fiducia, avv. Maurizio Capozzo, alcuna notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza, così restando assente in tutte le udienze. Il collegio giudicante, rilevando che in nessuna delle udienze celebratesi dinanzi alla Corte di Appello era stata eccepito l’omesso avviso all’avv. Capozzo, dichiarava inammissibile il ricorso, sul presupposto dell’esistenza di altro difensore di fiducia dello Scarano e, pertanto, della sussistenza di una nullità a regime intermedio intempestivamente rilevata, anche alla luce dei principi posti da questa Corte di Cassazione, secondo cui il termine ultimo di deducibilità della nullità a regime intermedio, derivante dall’omessa notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale di appello ad uno dei due difensori dell’imputato, è quello della deliberazione della sentenza nello stesso grado, anche in caso di assenza in udienza sia dell’imputato che dell’altro difensore, ritualmente avvisati (Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011, Scibè, Rv. 249651). Durante la stesura della motivazione della sentenza, però, si è rilevato l’errore percettivo in cui si era incorsi, in quanto nel ricorso per cassazione proposto nell’interesse di VS si era espressamente specificato che non era “intervenuta alcuna nuova nomina, surroga o affiancamento di altro difensore”, come, peraltro, verificato dall’esame degli atti trasmessi a questa Corte, sicché si è proceduto senza formalità, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. Si tratta, pertanto, di una svista o equivoco incidente sugli atti interni al giudizio di legittimità, il cui contenuto è stato percepito in modo difforme da quello effettivo, tale da integrare l’errore di fatto, indicato dall’art. 625-bis cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 29240 del 01/06/2018, Barbato, Rv. 273193; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686; Sez. U, n. 37505 del 14/07/2011, Corsini, Rv. 250527) e, per quel che più rileva, si tratta di errore percettivo determinante ai fini della decisione presa, in quanto l’omesso avviso dell’udienza all’unico difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma primo lett. c) e 179, comma primo cod. proc. pen. (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Rv. 263598). Si impone, pertanto, la necessità di correggere l’errore nel dispositivo della sentenza di cui si tratta, come riportato nel ruolo di udienza, con l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, nei confronti di VS, con trasmissione degli atti per il giudizio alla Corte territoriale, e le rettifiche conseguenziali in tema di spese processuali. P.Q.M. Corregge il dispositivo della sentenza emessa dalla seconda sezione penale di questa Corte in data 14/9/2023, riportato nel ruolo di udienza pubblica n. 20, nei confronti di VS nel senso di aggiungere, prima

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Brevi note in tema di giustizia riparativa

  Osservatorio Giustizia Riparativa, Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro –  La giustizia riparativa, intesa come forma di mediazione tra l’autore di un reato, la vittima/persona offesa e la società, ha radici risalenti nel tempo, in Italia ed in Europa.Il d.Lgs. 150/2022 ha introdotto una disciplina organica concernente l’applicazione sistematica dell’istituto nelle nostre aule di giustizia. In effetti, buona parte della Riforma Cartabia è stata dedicata alla predisposizione di norme con il fine di regolare la materia in esame. Da qui lo sviluppo di aspettative considerevoli sull’applicazione delle stesse. Ad ormai più di un anno dall’entrata in vigore del decreto, l’attuazione pratica delle disposizioni in questione non ha ancora convinto del tutto, per così dire, gli addetti ai lavori. Sono di tutta evidenza le difficoltà concernenti la materia, sotto ogni punto di vista: organizzativo, pratico e, non ultimo, sostanziale. Tralasciando, per quel che riguarda il presente contributo, le problematiche emerse in ordine alla organizzazione delle strutture (centri per la G.R.), alla formazione di mediatori esperti e alla istituzione delle Conferenze locali per la Giustizia riparativa (era lecito aspettarsi delle difficoltà iniziali in tal senso) – che pure sono ostacoli di non poco conto – quel che preoccupa è l’uniformità di giudizio dei giudicanti ai quali perviene un’istanza di accesso ai programmi di G.R. In tema di organizzazione e sviluppo delle strutture, nonché delle figure che saranno protagoniste nel campo della giustizia riparativa, ci si aspetta celeri risposte da parte dei soggetti preposti. Analizzando, nel mentre, il profilo sostanziale, l’incertezza aumenta e si aggiunge alle criticità di cui sopra. È innegabile, sul punto, quale fosse l’intento del legislatore.         La Giustizia Riparativa non nasce come uno strumento attraverso il quale “sottrarsi” ai procedimenti penali. Non rappresenta assolutamente una forma di giustizia alternativa a quella ordinaria. Trattasi piuttosto di un percorso incidentale a quello del procedimento penale vero e proprio che consente, il più delle volte, di ridimensionare il trattamento sanzionatorio del soggetto di cui sia stata (o sarà) accertata la responsabilità penale. Ciò che si sostiene è palese essendo previsto che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa può avvenire in ogni stato e grado del procedimento, nella fase di esecuzione della pena e della misura di sicurezza e dopo l’esecuzione delle stesse. La riforma intendeva, ed intende, a ben vedere, offrire la massima potenzialità operativa allo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, permettendone lo sviluppo addirittura in fase esecutiva della pena. La sensazione, allo stato, è che non sia stata del tutto recepita la ratio e la finalità dei programmi di G.R., in quanto stiamo assistendo a provvedimenti diametralmente opposti relativi alle richieste di accesso proposte nelle diverse aule di giustizia. A titolo di esemplificativo è sufficiente confrontare le decisioni assunte in questo primo arco temporale di operatività della nuova disciplina. È opportuno evidenziare il caso di Davide Fontana, imputato e condannato in primo grado per il delitto di omicidio. La Corte di Assise di Busto Arsizio – con ordinanza emessa in data 19.9.2023 – ha disposto, su istanza di parte, l’invio degli atti al Centro per la Giustizia Riparativa di Milano per la predisposizione di un programma di G.R.La decisione della Corte è avvenuta nonostante la richiesta di rigetto della Procura e del difensore delle costituite Parti civili, le quali rappresentavano di non consentire rapporto di alcun tipo, neanche tramite mediazione, con il Fontana. La Corte di Assise di Busto Arsizio ha sottolineato, attraverso l’ordinanza,  i concetti che esprimono proprio quella ratio di cui si accennava prima l’esistenza, per disporre l’invio del caso al Centro per la Giustizia Riparativa: “ritenuto, esaminati gli atti, che nel caso concreto lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa – laddove ritenuto esperibile anche con “vittima aspecifica” – possa comunque essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede, giacché la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento e che l’istituto di cui è stata chiesta l’applicazione ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica ed ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale (cfr relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, pag 297), sicché la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso a detto strumento, come emerge dall’art. 43, comma 4, d.Lgs. 150/2022, secondo cui l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è sempre favorito (…)” Proprio l’art. 43, comma 4, della “Riforma Cartabia” evidenzia la volontà del legislatore: l’unica circostanza che limita il ricorso alla G.R. consiste in un pericolo concreto per i partecipanti che sia direttamente dipendente dallo svolgimento del programma. È, in particolare, questa norma che rende di difficile comprensione gli svariati provvedimenti di rigetto di cui tutti noi siamo ad oggi testimoni. Quasi come se la G.R. rappresenti un peso o addirittura un “escamotage” del richiedente. Un esempio, del tutto contrario a quello poc’anzi citato, lo si rinviene in un’ordinanza emessa quasi contestualmente al provvedimento della Corte d’Assise di Busto Arsizio. La Corte d’Appello di Milano, in data 12 luglio 2023, rigettava così – nonostante il parere positivo espresso dalla Procura Generale – l’istanza di accesso ad un programma riparativo: “rilevato che i programmi di giustizia riparativa, per come configurati dal d. Lgs 150/2022 (..) si rivolgono agli autori di reati che contemplino l’esistenza di una vittima; rilevato, infatti, che l’art. 53 d. Lgs. 150/2022 individua come possibili programmi di giustizia riparativa la mediazione, il dialogo riparativo e ogni altro programma dialogico; ritenuto che in un reato privo di vittima – quale è l’art. 73 DPR 309/90 – non è ontologicamente ipotizzabile un dialogo di alcun tipo, mancando la parte con cui intrattenere un dialogo; rilevato, dunque, che l’istanza non possa essere accolta per le ragioni suddette; p.q.m. rigetta l’istanza”. Il risultato che consegue dal confronto dei due provvedimenti riportati, i quali sembrano emessi sulla scorta di norme contrastanti, può essere solo uno: confusione. Risulta singolare come, in entrambi i casi, non vi sia uniformità, non solo tra

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Riqualificazione giuridica del fatto. Utilizzabilità delle intercettazioni.

  Massima a cura dell’avv. Stefania Mantelli del Foro di Catanzaro Contestazione nuovi reati a seguito degli esiti del compendio intercettivo. Assenza di connessione ex art. 12 c.p.p., anche sotto il profilo dell’art. 81 cpv c.p. e mancata inclusione nel novero dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. o soggetti all’arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380 c.p.p. Inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni di conversazioni. Acquisibilità delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni come corpo del reato. Esclusione laddove costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o mera prova di un frammento del reato. (ordinanza del 23 gennaio 2023 Tribunale di Catanzaro, in composizione monocratica). In tema di intercettazioni, stante il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui l’utilizzabilità delle intercettazioni per un reato diverso, connesso con quello per il quale l’autorizzazione sia stata concessa, è subordinata alla condizione che il nuovo reato rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p., non si applica ai casi in cui lo stesso fatto-reato per il quale l’autorizzazione è stata concessa sia diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni,  poiché in tale evenienza non vi è elusione del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. attesa l’intervenuta legittima autorizzazione dell’intercettazione e la modifica dell’addebito unicamente per sopravvenuti fisiologici motivi. Incontra, invece, la sanzione dell’inutilizzabilità, l’ipotesi in cui, all’esito delle intercettazioni legittimamente disposte, la Procura valuti di contestare nuovi reati, privi di qualsivoglia connessione ex art. 12 c.p.p. con il delitto in relazione al quale l’autorizzazione alle intercettazioni di conversazioni telefoniche era stata originariamente disposta, i quali neanche rientrino nei delitti per i quali è consentita l’intercettazione di conversazioni ai sensi dell’art. 266 c.p.p. o l’arresto obbligatorio in flagranza ai sensi dell’art. 380 c.p.p. Nel caso di specie, il Tribunale non ha riscontrato alcuna connessione neanche sotto il profilo del vincolo della continuazione ex art. 81 cpv c.p., in considerazione dell’evidente autonomia sussistente fra le incriminazioni, che non consente di desumere alcuna primitiva rappresentazione, nemmeno ipotetica ed eventuale, dei singoli fatti di reato. Trattasi, all’evidenza, di fatti storici del tutto autonomi ed eterogenei sotto il profilo della condotta, dei motivi a delinquere, rispetto ai quali non può, dunque, rinvenirsi alcun elemento sintomatico di collegamento psicologico. In tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato solo allorché essa integri ed esaurisca la condotta criminosa, nei casi in cui questa possa perfezionarsi anche con la sola interlocuzione oggetto di registrazione, mentre deve escludersi la natura di corpo del reato dell’intercettazione che costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o prova di un frammento del reato, portato a compimento con condotte ulteriori, rispetto alle quali la comunicazione assuma mero carattere descrittivo (Nel caso di specie le conversazioni costituivano solo prova di un frammento del reato, atteso che per potersi integrare la fattispecie di falso in atto pubblico è necessaria, quanto meno, la compilazione materiale del certificato medico contenente la diagnosi assunta come non veritiera).

Riqualificazione giuridica del fatto. Utilizzabilità delle intercettazioni. Leggi tutto »

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