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ENZO FRAGALÀ E IL DELITTO SENZA MANDANTI

di Antonio Ludovico – Partiamo dalla fine di una storia che – con un po’ di approssimazione e fantasia – potrebbe essere sovrapposta a quella di altri piccoli martiri di una categoria, quella degli avvocati, morti ammazzati sul campo di battaglia della libertà e del coraggio.  Partiamo quindi dal sorriso di Marzia Fragalà, figlia di Enzo, notissimo avvocato siciliano (nacque a Catania il 3 agosto 1940), vittima di un agguato nei pressi del suo studio, in via Turrisi di Palermo, ed ucciso a colpi di bastone da un commando mafioso. Quel sorriso che vuole essere una speranza e una voglia di proseguire la meritoria opera paterna, contrassegnata da un’onestà intellettuale a prova di bomba.  Militante nell’area della destra di Pino Rauti, deputato per due legislature, componente di diverse commissioni d’inchiesta parlamentari, assistente di storia contemporanea presso l’Università di Palermo, Enzo Fragalà non era soltanto un avvocato a tutto tondo, uno di quelli da trincea, ma anche un fine letterato, un uomo pieno d’interessi, un grande appassionato di politica, uno di quegli uomini che certamente non sprecavano il loro tempo. E che svolgeva o meglio, ricopriva il proprio ruolo di difensore con una statura morale e professionale invidiabile.  Fragalà frequentava sovente le aule d’assise, difendeva tanti clienti per mafia in una terra dove ogni piccola indecisione poteva costare cara. E fu proprio quell’inflessibilità, quel suo non piegarsi a logiche perverse che gli costò la vita, in quel maledetto 26 febbraio del 2010, quando morì dopo tre giorni di dura agonia per il pestaggio subito sotto il suo studio da un commando mafioso.  Ma perché fu ucciso Enzo Fragalà, perché fu bersaglio di esponenti mafiosi del clan di Porta Nuova, così come accertarono gli inquirenti dopo diverse piste totalmente sbagliate, come quella – ad esempio – del delitto passionale? In realtà le indagini per l’omicidio di quello che era uno dei più noti penalisti di tutta l’isola non furono per niente facili, nonostante l’agguato avvenne a pochi metri dal tribunale di Palermo. Ma, vuoi la mancanza di immagini nitide, vuoi le tante attività svolte da Fragalà, costituirono degli incagli ad un movente che stentava a materializzarsi.  Senonché, come spesso avviene in casi come questi, furono le parole di un paio di collaboratori che permisero di squarciare il velo su un delitto che appariva senza senso.  Ebbene, si apprese – con sommo stupore – che l’avvocato fu ucciso perché “era uno sbirro e spingeva i suoi clienti a collaborare con la giustizia “, un comportamento che per il rigido codice mafioso non poteva essere tollerato. In pratica, quel gesto vigliacco fu un avvertimento per l’intera avvocatura palermitana, una sorta di monito all’osservanza di regole più confacenti ai loro canoni. Un’assurdità, un’ignominia, tant’è che lo stesso Procuratore Generale della Corte di Cassazione nella sua requisitoria elogiò il comportamento dell’avvocato “morto nell’esercizio della sua missione”.  Per la cronaca, a seguito delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di Antonino Siragusa – “non potevo disobbedire ad un ordine dall’alto” –, furono condannati in via definitiva Antonino Abate a 30 anni (l’esecutore materiale), Francesco Arcuri a 24 anni, Salvatore Ingrassia a 22 anni e lo stesso Siragusa a 14 anni (colui che telefonò in studio per sapere quando l’avvocato sarebbe uscito), mentre furono scagionati Paolo Cocco e Francesco Castronovo. Siragusa disse a più riprese che quel gesto non avrebbe dovuto sfociare in un omicidio, ma doveva trattarsi solo di un pestaggio e, in seguito, chiese anche scusa alla famiglia del penalista.  Sta di fatto che Enzo Fragalà morì, dopo un’agonia di ben tre giorni, in ospedale circondato dall’amore dei suoi cari e da quella inflessibilità che lo hanno reso un martire della toga, la cui memoria oggi è immortalata da una splendida aiuola nei pressi del tribunale di Palermo. E i mandanti, si chiederà qualcuno? Restano nell’ombra, come nella migliore tradizione italica.

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ANTIRICICLAGGIO: UN FOCUS SULLA FIGURA DEL PROFESSIONISTA

di Manuel Curcio –   Nell’ordinamento italiano determinate categorie di professionisti sono soggette a particolari condizioni nell’esercizio della propria attività e ciò in quanto gli stessi possono incorrere in situazioni potenzialmente rischiose in termini di legalità, soprattutto in ragione della natura della clientela con la quale si interfacciano. L’Italia, attualmente, rispetto il fenomeno del riciclaggio, ha dunque previsto un sistema basato su un vero e proprio doppio binario corrispondente a due diverse esigenze, sia di carattere sistematico che di tipo sanzionatorio. Infatti, se da un lato il legislatore nazionale ha previsto la rilevanza codicistica delle condotte sostanziatesi negli illeciti di cui agli artt. 648bis (riciclaggio) e 648ter (autoriciclaggio) c.p., riconoscendo in tal senso una punibilità secondo i canoni tipici del diritto criminale, dall’altro versante, invece, soprattutto per via dei numerosi impulsi di matrice sovranazionale[1], l’Italia si è dovuta munire di un sistema a carattere per lo più amministrativo con l’intento non soltanto di reprimere determinati comportamenti ma bensì di prevenirli, anticipando, quindi, la soglia di rilevanza della singola condotta. In particolare, mediante l’introduzione del D.lgs 321/2007, il legislatore ha voluto porre in essere un sistema di protezione dell’integrità dei sistemi economici e finanziari da ingerenze criminose, con una spiccata attenzione al fenomeno del riciclaggio[2], soprattutto per quel che attiene il finanziamento del terrorismo. Volendolo definire genericamente, è stato instaurato un meccanismo di controllo e di verifica ex ante in modo tale che, determinate categorie di soggetti professionali e qualificati, considerati maggiormente a rischio per via dell’intrinseca natura dell’attività in concreto esperita, potessero sottostare ad un regime preventivo differenziato.   I soggetti destinatari del D.lgs 231/2007 sono indicati dal Capo III del decreto e coinvolgono sia le persone fisiche che le persone giuridiche. Soffermandoci maggiormente sulla categoria dei professionisti, l’art. 12 sancisce come debbano intendersi in tal senso: a) ragionieri, commercialisti, consulenti del lavoro e coloro i quali siano iscritti nell’albo dei periti commerciali, b) qualsiasi altro soggetto che renda i servizi forniti da periti, consulenti e altri individui che svolgono in maniera professionale attività in materia di contabilità e tributi(da intendersi compresi anche le associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, CAF e patronati) c) i notai e gli avvocati soltanto nel caso in cui, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare ovvero nell’ambito di assistenza nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti: il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche; nonché la gestione di denaro, strumenti finanziari o di altri beni; l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli; l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società; la costituzione, la gestione o l’amministrazione   di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi; d) i prestatori di servizi relativi a società e trust ad esclusione dei soggetti rientranti nelle categorie poc’anzi esplicate. Rispetto ai suddetti soggetti, la legge impone una serie di obblighi volti alla verifica della clientela di riferimento. In tal senso il fine preventivo del decreto si manifesta nell’obbligo di esercizio di un’attività prodromica con la quale il legislatore delimita l’ambito di rischio di alcune operazioni economiche maggiormente esposte al pericolo di contaminazione criminosa. Parlando concretamente, si prevedono due macro categorie di adempimenti a carico dei professionisti, in primis, come già anticipato, l’art. 16 del D.lgs 231/2007 richiede l’adeguata verifica della clientela e dell’effettivo titolare del bene ovvero del servizio: qualora la prestazione professionale in questione abbia ad oggetto mezzi di pagamento, beni od utilità di valore pari o superiore a 15.000 euro; quando vengono eseguite prestazioni professionali occasionali consistenti nella trasmissione o la movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15.000 euro, indipendentemente dal fatto che siano effettuate con un’operazione unica o con più operazioni che appaiono collegate o frazionate tra loro; tutte le volte che l’operazione sia di valore indeterminato o non determinabile. A tali fini, la costituzione, gestione o amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi integrano, a priori, un’operazione di valore non determinabile. In ogni caso poi, la norma ad esame, come vera e propria clausola di chiusura, sancisce l’obbligo di adeguata verifica ogni qual volta vi sia un sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile; ovvero quando sorgano dubbi sulla veridicità o sull’adeguatezza dei dati precedentemente ottenuti ai fini dell’identificazione di un cliente. Il contenuto degli obblighi di adeguata verifica è disciplinato dall’art. 18 del D.lgs 231/2007, il quale dispone come il singolo professionista sia chiamato a svolgere: l’identificazione del cliente secondo parametri oggettivi e riconoscibili e quindi ricavabili sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente; l’identificazione dell’eventuale titolare effettivo con annessa verifica circa l’identità del medesimo; l’ottenimento d’informazioni sullo scopo e sulla natura prevista del rapporto continuativo o della prestazione professionale; lo svolgimento di un controllo periodico e costante nel corso del rapporto continuativo o nello svolgimento della prestazione professionale. In questo contesto, l’ulteriore macro insieme di adempimenti relativi alla normativa sull’antiriciclaggio attiene ai profili di registrazione[3] e segnalazione[4] delle varie operazioni effettuate. Nel primo caso si impone al professionista una vera e propria rendicontazione intesa non soltanto con riguardo alle operazioni in quanto tali, ma bensì anche rispetto al proprio sistema di verifica all’epoca esperito rispetto quello specifico cliente; mentre, per quel che attiene le segnalazioni, il legislatore ha previsto l’obbligo di comunicazione all’UIF (Unità di informazione finanziaria Italia) ovvero all’ordine professionale competente ogni qualvolta vi sia il dubbio o il ragionevole motivo di  sospettare che siano in corso o che siano state compiute, o quantomeno tentate, operazioni di riciclaggio ovvero di finanziamento del terrorismo, o che comunque i fondi oggetto delle operazioni, indipendentemente dalla loro entità, provengano da attività criminosa. In merito alle sanzioni, si sottolinea come l’art. 55 del D.lgs 231/2007 ha introdotto una serie di illeciti, sia di natura penale che meramente amministrativa, relazionati alla violazione delle disposizioni contenute nel decreto in questione. Sul fronte del diritto penale, si segnala l’instaurazione di una

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NEL PENSIERO DEL NOSTRO TEMPO: DANILO DOLCI E IL DIRITTO

di Domenico Bilotti – Il 28 giugno Danilo Dolci avrebbe potuto compiere cento anni. Sociologo, attivista e poeta, amante della Sicilia borghigiana, interna, sofferente, si sarebbe mal volentieri sottoposto a quel rito dei compleanni per centenari, con foto e taglio della torta. Avrebbe accettato solo per la sua gente: lui interiormente cosmopolita si era affezionato alla dignità della causa popolare. Ne era stato adottato, più che averla adottata lui stesso – o, almeno, così soleva dire. Danilo Dolci (1924-1997) è stato una delle voci più interessanti della lirica italiana nel secondo Novecento, ma è stato anche un formidabile analista nel metodo sociale: all’inizio degli anni Sessanta era in fondo l’unica contronarrazione possibile all’immagine in vespa e televisione del boom. Analizzava la depressione economica associandola soprattutto a sistemi di sperpero pubblico; riteneva le procedure al tempo vigenti incapaci di incontrare i nuovi bisogni individuali e collettivi; metteva in questione il rapporto tra cittadino e amministrazione non solo in un attento discorso teorico antiautoritario, ma anche nel concreto del welfare e nelle asimmetrie tipiche del contenzioso tra sottoposti e potere dello Stato. Forse, dovrebbe bastarci già questo per ricordarlo nella sua rettitudine, nella sua freschezza creativa, nella sua attenzione al giuridico da non giurista. Per ben altre cose, invece, la sua memoria meriterebbe il lustro di massa che al momento non ha ancora conseguito. Innanzitutto, Danilo Dolci fu uno dei più esposti teorici e pratici della nonviolenza. Non mancavano le figure che approdarono alla nonviolenza, sia pure da tutt’altro percorso: c’era il libertario Pannella, che vi giungeva dalla estrema sinistra liberale; c’era Lanza Del Vasto, che univa antropologia, ricerca storica, buddhismo e cristianesimo. C’era soprattutto Aldo Capitini, che tentava in modo originale di mescolare socialismo democratico, cooperazione internazionale e critica al diritto – in modo più generoso persino del grande teologo tedesco Karl Rahner, cui si ispira soprattutto nei primi anni Sessanta. Danilo Dolci ha forse in più, rispetto a questi grandi personaggi, una brillantezza di intuito che si potrebbe definire “geniale”. Innanzitutto, il Sud Italia, soprattutto Calabria e Sicilia, era davvero negli anni Cinquanta l’Africa in casa: analfabetismo ancora elevato, mortalità infantile a livelli che nella vicina Francia erano stati abbattuti da circa un secolo, decessi per malnutrizione! Nel Palermitano, organizza così uno sciopero della fame a staffetta nel letto di Benedetto Barretta, un bambino, appunto, morto di fame. Vista poi la legislazione in materia di scioperi e sindacati, arretratissima e punitiva, incapace di attuare la costituzione, negli stessi anni utilizza il metodo dello “sciopero al rovescio”. Se nell’Italia dei Cinquanta e Sessanta lo sciopero è ostracizzato, represso, sanzionato, vietato, se le norme ancora non ci sono e i rapporti sociali stanno cambiando in direzione delle libertà, è pur sempre vero che lo sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori consiste nell’astensione dalle prestazioni. E lui organizza lo sciopero dei disoccupati: ottocento disoccupati si mettono a sistemare una strada pubblica. Vogliono il diritto al reddito, alla retribuzione, al lavoro, alla sopravvivenza. Magno scandalo: Danilo Dolci è arrestato per resistenza e oltraggio. Lo ricordiamo con l’appassionata difesa di Piero Calamandrei, scritta forse più col cuore che col codice, ma non priva (come al solito!) di cristallini momenti di dogmatica giuridica applicata alla sede giudiziaria. Primo tra tutti: la denuncia del finto formalismo dei proibizionisti e dei giustizialisti, che non conoscono le norme e i principi e non sanno farli valere nel tempo in cui essi vanno attuati. La forma esiste se è garanzia, l’equità occorre se è trasformazione. Lo “sloveno nato italiano” (nacque in terra di confine, in anni in cui la questione era tema sociale e politico forte) si scelse infine un ultimo e primo nemico: la mafia. La mafia dell’abbrutimento, del sacco edilizio, della mancanza di scolarizzazione. Vedeva approssimarsi un ottimo alleato di quella mafia: l’antimafia professionale, l’antimafia della decisione politica urlata, l’antimafia che sottobanco pronuncia il famigerato: “così fan tutti”. Aveva ragione. Come con lui, Calamandrei. Buon compleanno Danilo Dolci, spirito antico di un tempo nuovo, ancora mai arrivato.   

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