Oltre la norma

DOPPIO BINARIO E PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA

di Luigi Miceli*- Al congresso straordinario di Reggio Calabria, sabato 5 ottobre, ho avuto l’onore e l’onere di moderare la tavola rotonda titolata “Doppio binario e presunzione di colpevolezza” Le regole processuali del c.d. doppio binario, come è noto, sono state introdotte sulla spinta di logiche emergenziali, che nel tempo si sono strutturate fino ad essere considerate addirittura normali, nonostante comportino una evidente limitazione delle garanzie, anche in deroga ai principi costituzionali in tema di giustizia, ad iniziare dal diritto di difesa. In linea generale, il congresso è stato, tra l’altro, caratterizzato dal sovente richiamo all’attuale elaborazione normativa ispirata all’idea “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”. In altri termini, abbiamo assistito prevalentemente alla produzione di norme di natura garantista in materia procedimentale e di carattere autoritario/securitario sul versante del diritto sostanziale. Dinanzi a questa azione politica ambivalente fanno, ancora una volta, eccezione i processi relativi ai reati che rientrano nella categoria del doppio binario, per i quali si continuerà a procedere in deroga ai principi costituzionali sanciti in tema di giustizia.  Il c.d. “allarme sociale” determinato da alcune vicende di cronaca, alimentato a dismisura dal tam tam mediatico e social mediatico, che dà sfogo alle pulsioni forcaiole e vendicative, purtroppo sempre presenti nell’animo umano, ne ha addirittura determinato la continua espansione, anche sotto il profilo sostanziale, ossia delle figure di reato coinvolte. Si potrebbe, a ragion veduta, obiettare che tanto più grave e infamante è il reato contestato, quanto maggiore dovrebbe essere il livello delle garanzie riconosciute all’imputato. La relazione del Prof. Daniele Negri e l’intervento del Prof. Oliviero Mazza hanno, in proposito, mirabilmente sottolineato come i principi costituzionali come la presunzione di non colpevolezza, il diritto alla riservatezza delle comunicazioni, il diritto di difesa, il diritto ad un giusto processo e la funzione rieducativa della pena non prevedono deroghe riconducibili al titolo di reato per cui si procede o si è proceduto. Ed invece, nei processi c.d. di criminalità organizzata, sui quali è stata focalizzata l’attenzione, anche in considerazione delle evidenti criticità coralmente emerse da alcuni interventi del giorno precedente, si inizia con la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere e si finisce, nella fase esecutiva, con l’inibizione all’accesso di misure alternative alla detenzione carceraria (art. 4 bis dell’O.P.), molto spesso attraverso maxinchieste e maxiprocessi, ontologicamente intrisi di un elevatissimo rischio di sommarietà divenuto ormai inaccettabile. Al sud Italia si celebrano maxiprocessi dal 1927 e, nonostante l’evoluzione dei riti, l’approccio è rimasto sempre il medesimo, ossia il processo quale mezzo di contrasto ai fenomeni criminali, piuttosto che un rito finalizzato ad accertare la fondatezza o meno di una ipotesi di reato contestata ad un imputato. Anche i maxiprocessi sono, tuttavia, diventati una costante metodologica, nel cui ambito è sempre più difficile esercitare il diritto difesa di uno, rispetto allo sforzo investigativo e al clamore mediatico dei “cento” o anche dei “quattrocento”. In una delle maxinchieste siciliane, celebratesi col nuovo codice, nel dispositivo di sentenza è stato condannato un soggetto, che era stato precedentemente prosciolto in udienza preliminare. Rispetto alle eventuali ragioni sottese all’istruzione delle maxinchieste, anche in considerazione del fatto che, in Calabria come in Sicilia, non viene più richiesto alla pubblica accusa di provare l’esistenza dell’“associazione” in sé, ma l’eventuale partecipazione, anche con ruoli apicali o la dimostrazione della sussistenza dei c.d. reati fine, il Dott. Stefano Musolino, dopo avere ricordato le difficili condizioni ambientali su cui si innestano le investigazioni e rivendicato l’ampia discrezionalità attribuita al pubblico ministero, mediante gli istituti della connessione procedimentale e del collegamento probatorio, ha manifestato una apprezzabile apertura sia in ordine al ridimensionamento del rilievo dimostrativo dell’art. 238 bis c.p.p. (sentenze irrevocabili), di dubbia costituzionalità, e sia in relazione alla necessità di ridurre le categorie dei reati previsti dall’art. 4 bis O.P. e di quelli c.d. “spia” per le misure di prevenzione. Tornando ai maxiprocessi sono state ribadite dall’Avv. Maria Teresa Zampogna le difficoltà del difensore a dovere affrontare un processo al “fenomeno criminale”, laddove capita pure che l’avvocato venga strumentalmente accusato di difendere il reato, piuttosto che l’indagato/imputato, col rischio di essere direttamente incriminato se non addirittura arrestato. Fatto certo è che le maxinchieste sono “portatori sani” di errori giudiziari e, come sottolineato dalla Presidente della Corte di Appello di Reggio Calabria, Caterina Chiaravallotti, in Calabria, per il periodo primo gennaio 2023 – 30 giugno 2024, sono stati liquidati 5.729.381euro a titolo di riparazioni per ingiuste detenzioni. Una ulteriore buona ragione per mettere un freno alla proliferazione delle maxinchieste e, contestualmente, ripristinare i principi del giusto processo e della presunzione di non colpevolezza per i reati ricompresi nella categoria del c.d. “doppio binario”. Anche dalla riva dello Stretto, luogo mitologicamente evocativo, dove Ulisse seppe resistere al richiamo delle sirene rimanendo al timone della propria nave, ribadiamo, con la forza delle nostre idee, che i penalisti italiani non si faranno risucchiare dai vortici alimentati dalla sommarietà del giustizialismo e dalle semplificazioni mass mediatiche, continuando a mantenere la rotta delle garanzie e dello stato di diritto, affinché nel processo, per qualsivoglia reato e a carico di qualunque imputato, la responsabilità penale non sia un punto di partenza da ratificare ma, esclusivamente, una delle possibili soluzioni finali, e l’eventuale pena, mai contraria al senso di umanità, dovrà sempre essere finalizzata alla rieducazione del condannato.     *Avvocato, Componente di Giunta UCPI

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LA DEONTOLOGIA DELL’AVVOCATO E L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

di Vincenzo Comi* Prima che lo tsunami dell’intelligenza artificiale travolga la nostra professione è doveroso affrontare l’argomento esaminando sinteticamente le regole esistenti e le prospettive di interpretazione. Non è retorica, ma ne va della sopravvivenza del nostro ceto e la deontologia rappresenta la chiave necessaria per affacciarci a questa nuova frontiera. Siamo in una fase di grande e veloce sviluppo dell’intelligenza artificiale. Proprio in questi momenti è necessario riflettere e immaginare il futuro per assicurare un utilizzo responsabile e deontologicamente corretto di questi nuovi e sconosciuti strumenti nella nostra professione forense. Il presupposto indispensabile di un uso responsabile è la conoscenza e in particolare della tecnologia posta a fondamento del sistema utilizzato, le criticità che derivano dall’apprendimento automatico in assenza di interpretazione, il rischio del linguaggio e dei contenuti massivi che possono prestare il fianco a letture fuori dal contesto reale o disallineate rispetto al presupposto fattuale del ragionamento giuridico. Il rispetto della normativa vigente a livello nazionale ed europeo in tema di intelligenza artificiale è un altro presupposto necessario per un comportamento eticamente corretto dell’avvocato oltre che la verifica della compatibilità dell’offerta del servizio di fornitura del servizio con gli standard deontologici. Il nostro codice deontologico vigente non contiene alcun riferimento all’intelligenza artificiale, ma già nelle istituzioni forensi europee inizia a intravedersi una certa attenzione. Abbiamo, infatti, le indicazioni della Federazione Europea degli Avvocati che ha pubblicato le prime linee guida della Commissione nuove tecnologie. Si tratta di prime riflessioni legate all’attuale situazione di sviluppo alla luce della diffusione della ChatGPT, attiva dal 30 novembre 2022. Dalle criticità emerse nell’uso incauto della CHAT GPT sono nate le prime discussioni che hanno portato alla elaborazione delle linee guida: queste riguardano la comprensione della tecnologia, la consapevolezza dei limiti, la normativa e l’aggiornamento, il ruolo delle competenze umane, il rispetto della deontologia e quindi del segreto professionale, la protezione dei dati personali e la comunicazione con i clienti. L’intelligenza artificiale già da qualche tempo imperversa e crea problemi nel mondo legale. Oggi l’uso di CHAT GPT è diffuso nel mercato globale dei servizi legali. C’è l’esempio della start-up americana DO NOT PAY che ha lanciato la pubblicità del Robolawyer: un milione di dollari a chi avesse accettato di farsi rappresentare in tribunale dall’avvocato robot. Il caso dello studio legale americano Levidow che ha ammesso di aver presentato un caso contenente citazioni di casi falsi che avevano ottenuto dalla chat box GPT ha fatto scoprire il fenomeno delle allucinazioni del sistema. Le linee guida rappresentano un punto di partenza per individuare le buone prassi in un fenomeno che si dovrà necessariamente governare per evitare conseguenze irreparabili nella nostra professione. Sono sette prassi chiave per “mantenere alti standard etici, salvaguardare la riservatezza dei clienti e assicurare un utilizzo consapevole e responsabile dell’intelligenza artificiale generativa e dei modelli linguistici di grandi dimensioni nel contesto legale”. La base di partenza per esaminare il rapporto dei limiti dell’intelligenza artificiale e la nostra professione è la normativa professionale vigente, che nel nostro Stato è abbastanza recente, ma non attuale rispetto all’evoluzione della professione degli ultimi anni. I principi contenuti nell’articolo 3 della legge 247 del 2012 rappresentano il fondamento delle norme di comportamento e si tratta di principi che delimitano il perimetro della liceità del comportamento dell’avvocato. La qualità dell’esercizio del diritto di difesa dell’avvocato (persona) è al centro dei doveri deontologici contenuti nel nuovo codice. L’articolo 1 offre una dimostrazione plastica di tale centralità essendo particolarmente ispirato alla difesa penale: “l’avvocato tutela in ogni sede il diritto alla libertà, l’inviolabilità e l’effettività della difesa, assicurando nel processo, la regolarità del giudizio e del contraddittorio”. La tutela del diritto di difesa non è per nulla scontata ma anzi impone l’indispensabile opera dell’avvocato che ne assicuri il rispetto nell’interesse del proprio assistito e di tutti i cittadini coinvolti in un procedimento penale. Il codice deontologico affida all’avvocato l’onere di assicurare nel processo la regolarità del giudizio e il rispetto delle regole del contraddittorio. Ciò comporta per l’avvocato il dovere di possedere competenza tecnica e consapevolezza del proprio ruolo di difensore dei diritti fondamentali dei propri assistiti. In questo contesto si inserisce la deontologia in relazione all’intelligenza artificiale ed è subito chiara la rilevanza e i limiti che sono contenuti nelle raccomandazioni della Federazione degli Ordini Europei: competenza, segreto professionale, privacy prima di ogni altro. La regolarità del giudizio e del contraddittorio impone che l’avvocato si attivi attraverso l’esercizio del diritto di difesa effettiva. Pertanto, a monte c’è una deontologia della categoria prima che del singolo affinché si introduca negli ordinamenti una tecnologia compatibile con tale funzione del ceto. Questa premessa riguarda la regolamentazione e di conseguenza le condotte dei singoli avvocati per far rispettare i diritti fondamentali delle persone coinvolte nel processo. Il dovere di competenza disciplinato dall’articolo 14 è molto importante anche nella prospettiva dell’uso dell’intelligenza artificiale. Da questo scaturiscono le previsioni disciplinari dell’articolo 26 in tema di adempimento del mandato. L’accettazione di un incarico professionale presuppone la competenza a svolgerlo e costituisce violazione dei doveri professionali il mancato, ritardato o negligente compimento di atti inerenti al mandato o la nomina quando derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita. La competenza consiste nella conoscenza del funzionamento della tecnologia usata, e il pericolo della mancanza di interpretazione dei prodotti forniti dalle chat o da altri sistemi di intelligenza artificiale. L’avvocato non può sostituire in alcun modo il proprio intervento, la propria capacità critica e in sostanza la propria competenza. Ovviamente in alternativa verrebbe meno il profilo del dovere di competenza. La competenza e la professione forense sono una endiadi indissolubile della vita umana prima che professionale, con l’unica alternativa possibile che è l’eliminazione della figura dell’avvocato, circostanza questa inimmaginabile oltre che da rifiutare con fermezza. Già oggi la vita professionale si caratterizza per una difficile visione del futuro. I grossi studi tendono a impostare l’organizzazione con una visione manageriale nella quale a capo della law firm si pone più un imprenditore o manager piuttosto che un avvocato. In questo contesto il pericolo

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