Giustizia

INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO

Intervento del Presidente Avv. Francesco Iacopino Signor Presidente della Corte di Appello, Signor Procuratore Generale, Autorità tutte, l’inaugurazione dell’anno giudiziario che celebriamo oggi nel “nostro” distretto rappresenta inevitabilmente un momento di bilanci: il bilancio consuntivo dell’anno che ci lasciamo alle spalle e il preventivo di quello che si affaccia all’orizzonte. Quanto al primo, dobbiamo con onestà riconoscere che l’anno trascorso, anzi, gli anni trascorsi, sono stati caratterizzati da una forte tensione interna alla giurisdizione. L’esigenza di contrastare fenomeni criminali ben radicati nel nostro tessuto sociale – quali la pervasività mafiosa e la percezione di una corruzione diffusa – ha determinato uno sbilanciamento nel rapporto tra autorità e libertà. La forte spinta sulle esigenze di difesa sociale ha comportato di riflesso un allentamento dei livelli di tutela delle libertà individuali. L’avvocatura penalista, funzionalmente chiamata a promuovere l’equilibrio tecnico dell’esercizio del potere giudiziario e l’osservanza delle regole del processo, ha più volte segnalato la torsione autoritaria e le conseguenze tossiche prodotte da un diritto punitivo etico, da un approccio chemioterapico intensivo che ha colpito “orizzontalmente” anche le cellule sane del nostro corpo sociale, con effetti devastanti sul piano personale, familiare, professionale, politico ed economico. Ha sostenuto con forza il grido di dolore proveniente dalle vittime collaterali dell’offensiva lanciata ai fenomeni che si intendevano contrastare. Un grido che non poteva rimanere inascoltato. In linea con i valori costituzionali e convenzionali ha affermato con forza l’irrinunciabilità del principio di presunzione di innocenza, sistematicamente violato dalle trionfali conferenze stampa, nelle quali molti uomini e donne sono stati esposti come colpevoli e condannati senza contraddittorio e senza appello dal Tribunale del popolo e dalla “giuria pubblica”, salvo poi risultare innocenti all’esito del giudizio penale. Ha segnalato le storture prodotte dall’uso disinvolto dell’istituto della “connessione” e dalla conseguente abnormità dei maxi-processi (sempre più elefantiaci), evidenziando il rapporto direttamente proporzionale tra il numero degli imputati e il numero degli errori giudiziari e la conseguente fisiologica difficoltà per i Giudici -specie nella fase più delicata, quella cautelare- di scrutinare la posizione di centinaia di imputati, compulsando migliaia di atti di indagine sui quali si decide della libertà dell’individuo. Ha posto l’accento sul necessario controllo preventivo del materiale intercettivo; tema che richiederà una riflessione seria e profonda, dal momento che la mancata previa verifica di “fedeltà” del dato trascritto, sovente in forma sommaria, rispetto a quello captato è capace di produrre, nell’immediato, effetti tossici irreparabili sulle libertà personali ed economiche dei soggetti attratti nel circuito penale. Ancora, ha richiamato l’attenzione sul “sotto-sistema” della prevenzione patrimoniale non ablativa, segnalando che l’uso intensivo delle interdittive antimafia (in una logica di mero sospetto) sta disincentivando gli investimenti al Sud e desertificando l’economia legale, con il rischio paradossale di liberare spazi di mercato in favore delle imprese criminali. Se non si tenderà la mano all’imprenditoria sana, insidiata dalla criminalità, si schiaccerà il sistema produttivo in una morsa soffocante, in contrasto con la logica recuperatoria che ispira la relativa disciplina legislativa. Di fronte a tali e tante criticità, senza peraltro pretesa di esaurirle, chi, se non l’avvocatura si doveva far carico di segnalarle, ponendo l’accento sull’esigenza di attivare gli anticorpi necessari a scongiurare il ripetersi degli effetti collaterali di un’offensiva penale che – in una eterogenesi dei fini – ha colpito vite, affetti, carriere, aziende, tutti travolti dal tritacarne giudiziario. E allora, nel predisporre il bilancio preventivo dell’anno che ci attende, non possiamo prescindere da una domanda sull’orizzonte di senso verso il quale vogliamo guardare da qui in avanti. Quale fisionomia e fisiologia di anno giudiziario ci aspettiamo? Come vogliamo riempire le pagine del libro della giustizia nell’anno che verrà? Certamente nessun cedimento sul terreno del contrasto ai fenomeni criminali. Le questioni che abbiamo sempre agitato, infatti, non riguardano il se ma il come detto contrasto si è inteso azionare. Rispettare la presunzione di innocenza, ridurre il numero degli imputati nei singoli processi, garantire un controllo maggiore del pubblico ministero nella fase investigativa, specie sul materiale intercettivo, permettere ai giudici di confrontarsi con fascicoli “gestibili”, per fare alcuni esempi, sono tutti meccanismi “correttivi” sui quali si può (e si deve) intervenire. Si tratta di riportare in asse il rapporto tra autorità e libertà, tra sicurezza e diritti fondamentali dell’individuo, nella consapevolezza che il ritrovato equilibrio nell’uso della leva penale potrà ridurre il margine di errore giudiziario e consentire un recupero di fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia. In questa direzione dobbiamo ritrovare, avvocati e magistrati, la dimensione di fiducia reciproca e di leale collaborazione, un lessico e una grammatica comuni, superando la cultura del sospetto che in qualche modo si è insinuata velenosamente tra noi e all’interno delle nostre aule. Dobbiamo ritornare alla gloriosa tradizione del nostro Foro, caratterizzata da un rapporto improntato al dialogo costruttivo e al reciproco rispetto, nella consapevolezza di essere componenti dell’unico corpo, che è la giurisdizione. Di fronte a un sistema penale che assume connotazioni parossistiche, governato da una bulimia politico-criminale che pretende di regolare il disagio e la marginalità sociale con la sola leva penale, occorre trovare la forza per resistere all’eccesso punitivo e per opporsi a una visione “vendicativa” del processo e “carcerocentrica” della pena, recuperando la dimensione del diritto penale come “limite” alla pretesa punitiva dello Stato. A tal proposito, non possiamo trascurare il mondo sofferente del carcere, sempre più affollato. Gli Istituti di pena, spesso anche fatiscenti, continuano ad assumere la funzione di discarica sociale, un centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali del nostro tempo: tossicodipendenti, migranti, poveri, malati psichiatrici. Categorie che possono essere sintetizzate in un unico sintagma: vite di scarto. Per non parlare degli imputati minorenni reclusi nell’I.P.M., per lo più stranieri senza una rete familiare e affettiva, vite segnate dalla povertà materiale e dalla solitudine esistenziale. Dobbiamo sentire su di noi le ferite dell’umanità che incrocia il mondo della giustizia, vedere dietro ogni reato l’uomo con le sue fragilità, consapevoli che non è la (sola) dimensione retributiva che potrà restituirci una società più giusta e più sicura. Umanità e giustizia, un’endiadi indissolubile. Perché se è vero che non può esistere

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Maxi retate e carcere preventivo: tutto il potere agli apparati di sicurezza…

di Valerio Murgano Mentre doverosamente si discute sugli interventi legislativi finalizzati a limitare la divulgazione del contenuto delle ordinanze cautelari, non ci si avvede che qualcosa di più grave è già avvenuto: il potere giudiziario è stato appaltato agli apparati di pubblica sicurezza, con buona pace dei garantisti o presunti tali. Il governo del potere punitivo dello Stato, esercitato dagli apparati di polizia, è qualcosa di diverso dall’arbitrio interpretativo del giudice e dalle pulsioni populiste del legislatore, perché li trascende. La selezione unilaterale e parcellizzata dello sconfinato materiale investigativo posto a carico di centinaia di indagati, avallata dal finto vaglio del pubblico ministero e offerta all’impraticabile valutazione del Giudice delle indagini preliminari, si risolve “fisiologicamente” (sia consentito l’ossimoro) in un giudizio sommario nei confronti di “categorie criminologiche” assistite dalla presunzione di colpevolezza. Ne consegue l’annientamento definitivo dei tanti malcapitati di turno; tanto meglio se dotati di una robusta carica reputazionale. Cittadini, considerati sudditi, strappati alle famiglie e ai loro affetti, a cui è tolta la libertà, distrutto il credito sociale, spezzata la carriera, per sempre. Si certo, a fronte di centinaia di richieste di carcerazione – puntualmente proposte dagli investigatori nelle informative conclusive di reato – una manciata di indagati vengono graziati dall’applicazione della meno afflittiva custodia domiciliare. La selezione minimale tornerà utile al Tribunale del Riesame per rigettare qualche utopistica eccezione di nullità dell’ordinanza cautelare per mancanza dell’autonoma valutazione del giudice, in aderenza al dettato normativo dell’articolo 292 del codice di rito, come modificato nel 2015. All’apparenza il “semaforo giudiziario” funziona, ma è solo un’altra tragica boutade. La realtà è un’altra: migliaia di pagine imbastiscono fatti e circostanze sulla sagoma di fattispecie di reato accuratamente selezionate, pronte a divenire ordinanza cautelare e poi sentenza. La condanna mediatica è presto servita, quella formale si attende comodamente in carcere, spesso per anni, laddove quasi un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio. L’aumento della penalità, così concepita, realizza l’irrazionale criminalizzazione secondaria di intere categorie di individui, disorienta i consociati e accresce pulsioni antisociali, finendo per rafforzare proprio quei fenomeni che si intendono debellare. È un fatto acquisito: all’espansione irregolare del potere militare dello Stato e della penalità corrisponde la proporzionale ascesa della criminalità organizzata. Se nel processo il “metodo” autoritario si infrange sui residui argini edificati da difensori e giudici ostinatamente propensi a controllare l’esercizio del potere repressivo e di polizia dello Stato, il materiale unilateralmente raccolto non andrà perduto, in quanto esiste pur sempre il piano di riserva: riesumare gli archivi delle Procure della Repubblica per legittimare l’applicazione di misure di prevenzione, interdittive antimafia, decreti di scioglimento dei Consigli Comunali, capaci di compromettere gravemente le libertà personali, patrimoniali e politiche degli individui attinti. Il potere debordante degli apparati di polizia e degli uffici dell’accusa riduce sempre più lo spazio di agibilità dei diritti di libertà, stabilizzando un’inconcepibile dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria dalla polizia giudiziaria. Così gli equilibri costituzionali che regolano il cruciale rapporto tra potere coercitivo e diritti fondamentali delle persone sono definitivamente alterati. La sproporzione di mezzi tra gli uffici dell’accusa e la difesa del cittadino, compreso quello basilare dell’accesso al sapere investigativo, cresce esponenzialmente nei processi originati dalle maxi retate a misura degli indefiniti confini delle fattispecie associative. La mediatizzazione delle inchieste giudiziarie, la spettacolarizzazione dei super maxi processi, con richieste di condanna a reti unificate, fan si che si confonda l’arresto preventivo con la penale responsabilità, la qualità d’imputato con quella di condannato. Occorrerebbe chiedersi a chi giova la disattenzione da queste criticità che investono i “fondamentali” del “giusto processo” e cioè quelle precondizioni in assenza delle quali le garanzie previste dai codici si trasformano in forme vuote di contenuti, inidonei a controllare l’esercizio del potere repressivo dello Stato. Dunque, “se” il contrasto alla criminalità è obiettivo condiviso, non più differibile è una chiara e netta presa di posizione da parte di tutti gli attori della giurisdizione che riguardi il “come” e con quali “effetti” concreti sulla vita dei cittadini ciò stia avvenendo. Il silenzio rende TUTTI complici di una “giustizia” che genera un olocausto d’innocenti in misura che mai si è conosciuta in passato e dei cui terribili effetti, presto o tardi, dovremo fare i conti. (Pubblicato su “Il Dubbio” il 15.1.2024)

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Serafino Famà, l’avvocato perfetto

  di Antonio Ludovico Sono le storie come quella dell’Avvocato Serafino Famà che ci danno la forza e l’orgoglio di essere avvocati. Una storia fatta di regole o, meglio, di ossequioso rispetto per le regole, una storia di rigore, di puntigliosità, di valori veri. Nato a Misterbianco, provincia di Catania, nel 1938, l’avvocato Serafino Famà rappresentò plasticamente e idealmente la figura di colui che difendeva ma non concedeva favori, che si spendeva ma senza violare norme e regolamenti. E, soprattutto, Famà era un avvocato consapevole del ruolo che occupava, per di più in una terra che “vanta” una galassia criminale e sanguinaria con nomi che al solo pronunciarli vengono i brividi. Stiamo parlando della terra dei Santapaola, dei Pulvirenti, dei Laudani, delle consorterie da loro capeggiate che impongono le loro assurde regole a tutti i consociati e che avrebbero volute imporle anche ad un avvocato come Serafino Famà. Dimenticando che Famà era una persona di un rigore e di un’inflessibilità che andavano oltre “il dedotto e il deducibile”. In parole povere, Famà era ligio al dovere e al codice deontologico, anche a costo di perdere il bene più sacro, ossia la vita. Cosa che avvenne la sera del 9 novembre del 1995, alle ore 21 allorquando, all’angolo tra via Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca di Catania, un commando composto da quattro persone (Salvatore Catti e Salvatore Torrisi nella veste di esecutori materiali, mentre Alfio Giuffrida e Fulvio Amante erano i complici) gli esplose sei colpi di pistola cal. 7,65. Una esecuzione in puro stile mafioso, una esecuzione senza remissione di peccato, che non diede scampo al povero penalista. Alla base dell’omicidio dell’avvocato catanese, così come acclarato dalla sentenza della Corte di Assise del capoluogo etneo – che condannò i responsabili all’ergastolo – ci fu il gesto, giuridicamente ineccepibile, dell’avvocato Famà di non far deporre la coniuge – Stella Corrado – del suo allora assistito Matteo Di Mauro in favore di un pericoloso mafioso, Giuseppe Di Giacomo, ma di farle scegliere il silenzio, evitando alla donna una possibile imputazione per falsa testimonianza. Una storia talmente brutta che s’innesta tra il romanzesco e la tragedia, poiché si venne poi a sapere che il noto mafioso aveva una relazione proprio con Stella Corrado, moglie di suo cognato, nonché assistito dell’Avvocato Famà, Matteo Di Mauro. Il boss Di Giacomo non riuscì ad essere scarcerato proprio per il consiglio corretto che l’avvocato Famà diede alla donna. Da qui, l’ordine di fare fuori il penalista, diramato direttamente dal carcere di Firenze, dove il Di Giacomo era detenuto. Anni dopo, furono i giudici della Corte di Assise di Catania che fugarono il campo da ogni dubbio circa l’esemplare condotta del legale siciliano, condannando i responsabili di quell’orribile omicidio all’ergastolo e rimarcando il movente di quell’agguato in puro stile mafioso: “il corretto esercizio dell’attività professionale da parte dell’avvocato Famà”. Sarà forse pleonastico ricordare che quelli erano anni particolarmente complessi, dove anche gli avvocati avevano la consapevolezza che la mafia poteva colpire a più livelli, non soltanto tra loro e che anche un consiglio dato in piena regola poteva condurre alla morte, esattamente come una progressiva disintegrazione della normalità. Da aggiungere ancora che, dal dicembre di quello stesso anno, la Camera Penale di Catania prende il nome di Serafino Famà e che – nel 2011 – un bene confiscato alla mafia in provincia di Latina, venne intestato alla memoria del penalista siciliano, ma – particolare amarissimo – lo stesso fu fatto oggetto di atti intimidatori. Esiste, poi, ma è di difficile reperibilità un filmato – a cura di Flavia Famà e Simone Mercurio, che s’intitola “Tra due fuochi. Serafino Famà, storia di un avvocato” che ripercorre la vita di un uomo libero, che era orgoglioso di essere un avvocato vero, custode dei diritti affidatigli dalla Costituzione, fedele verso il cliente e altresì fedele nei confronti della legge. In buona sostanza, la sintesi dell’avvocato perfetto.

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Giorgio Ambrosoli, storia di un romanzo criminale

  di Antonio Ludovico   Esattamente come il più raffinato e imprevedibile romanzo criminale, la storia dell’Avvocato Giorgio Ambrosoli si staglia alta nel firmamento di quei servitori dello stato che non si piegarono mai alle logiche perverse e, purtroppo, pagarono con la vita la loro innata coerenza. Nato a Milano nel 1933, figlio di avvocato, Giorgio Ambrosoli era un uomo di una linearità e una rettitudine proverbiali; specializzato in diritto commerciale, si occupò sin da subito di reati fallimentari e di lui se ne accorse finanche la Banca d’Italia, con l’allora Governatore Guido Carli, che gli affidò l’incarico più delicato e spinoso, una di quelle gatte da pelare che, ahimè, gli costò la vita: quello di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Ma per comprendere bene gli scenari in cui si dimenava il giovane (all’epoca aveva solo 42 anni) avvocato milanese. Conviene avvolgere il nastro e raccontarla per bene questa storia che ha appassionato giallisti, criminologi, registi e perfino qualche pubblico ministero. Per intanto: chi era Michele Sindona? Che ruolo aveva con la finanza italiana e, soprattutto, con la politica nostrana? Siciliano di Patti, Messina, Michele Sindona era anch’egli un avvocato – ovviamente di tutt’altra pasta – che dopo la seconda guerra mondiale si specializzò in una materia poco conosciuta dalle sue parti, quella fiscale e, per tale ragione, si dovette trasferire a Milano. Nella capitale lombarda, il giovane fiscalista cominciò ad accattivarsi quella parte rilevante di borghesia meneghina facendo investimenti che ebbero successo immediato poiché riusciva a far risparmiare soldi pesanti ai suoi clienti. Non solo, ma lo scaltro siciliano era un perfetto conoscitore dei paradisi fiscali, come quello ubicato nella piccola regione del Lichtestein e da lì iniziò a rilevare società elettriche in cambio di pochi spiccioli, per poi passare al colosso della Bastogi (la più antica società italiana quotata in Borsa) ed infine a quote rilevanti di banche tedesche e americane. Insomma, un’escalation degna di un autentico mago della finanza, tant’è che di lui se ne accorse persino il governo italiano – nella persona del Presidente Andreotti – che, ben lungi dal considerarlo uno spregiudicato uomo d’affari ben inserito in ambienti malavitosi, lo definì addirittura “il salvatore della lira”. Naturalmente le cose non stavano come profetizzava il vecchio Presidente del Consiglio, ma dietro quell’apparente aura di imperturbabilità, si celava un’anima nera che riusciva a fare patti con chiunque gli assicurasse una stabilità economica. Che poi, a farci le spese fossero i poveri contribuenti italiani, poco importava all’uomo venuto dall’estremo sud. Ma, come spesso avviene, anche nelle favole più benevole, arriva sempre il momento in cui c’è da fare i conti con una realtà che prende le forme di un investimento sballato, quello sul dollaro, il quale – ad inizio degli anni settanta – ebbe un tracollo imprevisto e imprevedibile. Da qui, lo sgretolamento di un impero che aveva visto Sindona veleggiare alto anche lungo le coste americane e che costrinse lo stesso banchiere a chiedere prestiti a destra e a manca, al punto tale che dovette intervenire la Banca d’Italia per nominare un commissario liquidatore con pieni poteri per mettere ordine alla Banca Privata di proprietà dello stesso Sindona. Giorgio Ambrosoli – sia detto per inciso – prese quell’incarico con il massimo della responsabilità possibile e consapevole dei rischi cui andava incontro. Visse per cinque anni in una situazione di totale isolamento e rischio, tant’è che scrisse alla moglie una lettera nella quale manifestò tutte le sue drammatiche convinzioni: “pagherò a caro prezzo l’incarico. Lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto, anche perché per me è un’occasione unica per fare qualcosa per il Paese”. Parole che lette oggi, dove ideali di coerenza, libertà e responsabilità sembrano degli optional, risuonano strane e fuori contesto. Ma la corteccia di quel giovane avvocato era forte e resistente e – ad essere particolarmente precisi – non era completamente solo poiché al suo fianco aveva un altro grande servitore dello Stato, il maresciallo della Guardia di Finanza, Silvio Novembre, che lo aiutò a smascherare questa tela del ragno, una sorta di archivio segreto nel quale erano annotati i trucchi contabili, le operazioni speculative, le manovre poco chiare su cui si reggeva la Banca Privata Italiana. E Ambrosoli, intelligente e capace com’era, smascherò da subito il gioco sporco di Sindona, abile manipolatore che utilizzava i risparmiatori per accrescere soltanto la sua rete di rapporti, anche oltreoceano; non solo, ma quel Commissario Liquidatore si dimostrò un osso durissimo, spedendo al mittente vari tentativi di corruzione che si trasformarono poi in minacce di morte. “Se l’andava cercando” commenterà inopportunamente il solito Andreotti nel 2010, dando plasticamente l’idea di quanto rigore morale avesse quell’avvocato milanese. Avvertimenti e minacce che l’11 luglio del 1979 si concretizzarono in un agguato in piena regola, proprio sotto casa, quando un sicario americano mandato da Sindona gli esplose quattro colpi di pistola. Per la cronaca il killer di Giorgio Ambrosoli fu l’italo-americano William Joseph Aricò, noto come “Bill The Terminator” (con una paga di 50.000 dollari), perché da giovane vendeva, porta a porta, pillole al cianuro per la derattizzazione degli appartamenti, su espresso mandato di Michele Sindona. Tre giorni dopo, nella chiesa di San Vittore, a Milano naturalmente, non si vide incredibilmente nessuna personalità dello stato, nessun rappresentante del governo; le cronache ricordano solo lo sguardo attonito di Paolo Baffi, successore di Guido Carli alla Direzione della Banca d’Italia, travolto da un’inchiesta giudiziaria dalla quale uscirà completamente prosciolto, ma in odore di dimissioni, cosa che fece il mese successivo. E solo più tardi gli italiani scoprirono il letamaio che stava dietro quelle losche vicende, una sigla che i benpensanti cominciarono a conoscere come le loro tasche: la famigerata Loggia P2 di Roberto Calvi e Licio Gelli, oltre che pezzi significativi dello IOR dell’arcivescovo Paul Marcinkus e naturalmente la mafia siciliana, corleonese per la precisione. Per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli vennero poi condannati all’ergastolo Robert Venetucci (colui che chiamò Aricò per l’esecuzione) e Michele Sindona nella veste di mandante. Il banchiere siciliano fu rinchiuso

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Misure di prevenzione: l’Italia ridotta a fare melina di fronte ai dubbi della Cedu

  di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo   Caso Cavallotti, Strasburgo stupita dalla confusione tra prove e sospetti Potrebbe sembrare una boutade oppure uno scherzo e invece è vero: il Governo italiano ha chiesto una proroga dei termini per rispondere ai quesiti posti dalla Corte EDU nello scorso mese di agosto, nel caso Cavallotti/Italia.Avevamo già segnalato che le domande, che indubbiamente svelano all’interrogato le idee dell’interrogante, anticipano una decisione che potrebbe essere epocale, per il futuro delle misure di prevenzione. Prudentemente, dunque, l’Italia fa quello che le riesce meglio, sin dai tempi della discesa di Annibale attraverso le Alpi: temporeggia. Eppure, la sensazione è che, questa volta, la truffa delle etichette abbia i giorni contati. Già la sentenza della Grande Camera EDU, sul caso De Tommaso/Italia, aveva lasciato intuire che il futuro della prevenzione è nell’alveo della legalità formale. In quella pronuncia, il tema era solo parzialmente quello della natura delle misure di prevenzione. Eppure, i Giudici convenzionali avevano invocato i principi di accessibilità della norma e di prevedibilità della sanzione. Cioè, avevano denunciato il difetto di tassatività e determinatezza, quali corollari della legalità. Ma avevano anche richiamato il terzo pilastro della legalità, cioè l’irretroattività, con un obiter dictum tanto chiaro, quanto sfuggito a molti.Ora, invece, l’ordinanza della Corte EDU investe frontalmente le misure di prevenzione, con domande che riguardano proprio la loro natura di sanzione, la “qualità della Legge” che le prevede, i diritti riconosciuti alle parti private nel procedimento applicativo, gli effetti.Un ritorno evidente alla legalità formale, segno che a Strasburgo le misure di prevenzione italiane sono viste come “sanzioni criminali”, cioè materia penale. La giurisprudenza europea svela dunque ciò che quella italiana si ostina a nascondere con virtuosismi semantici: non si può ulteriormente giustificare un sistema sanzionatorio che, come quello di prevenzione, è sovrapponibile al penale negli effetti, ma presenta delle peculiarità – come la retroattività, la instabilità del giudicato, la inquisitorietà – che lo rendono un terribile strumento (né di prevenzione, né di punizione, ma) di controllo sociale, grazie alla continua implementazione delle categorie di destinatari. E non è previsto come istituto, a differenza delle pene e delle misure di sicurezza, dalla nostra Costituzione, che fissa i casi ed i limiti di compromissione delle libertà fondamentali. Un arnese da “doppio stato” che il potere costituito decide, in modo sostanzialmente discrezionale, a chi applicare ed a chi no (non essendovi – né potendovi essere, per la labilità dei suoi confini normativi – obbligatorietà dell’azione di prevenzione), a seconda della opportunità o della necessità del momento. Come si è visto nel recente parossismo legislativo: a ciascuno la sua prevenzione! Senza accertamento di responsabilità su di un fatto costituente reato; spesso senza responsabilità tout court; a volte persino in presenza di sentenze assolutorie, come per i Cavallotti. Un ritorno al “re taumaturgo”, che decideva, con l’imposizione delle mani ed a proprio insondabile arbitrio, chi far vivere, chi far morire. Senza alcuna forma di controllo e coercizione. “Il re ti tocca, Dio ti guarisce”. O, nel caso della prevenzione, “ti uccide”. E troppi sono morti davvero, perché “toccati dal re”. Come Riccardo Greco, imprenditore di Gela, suicida per dare un futuro ai figli, ai quali rivolse un insolito biglietto di addio: “io devo andare, perché voi siate liberi”. Frasi rispetto alle quali i tentennamenti del Governo davanti alla CEDU suonano come una ennesima beffa, se non come un insulto alla memoria. Come il leggendario Hiroo Onoda, soldato giapponese che si arrese agli americani solo nel 1974 e solo perché aveva finito le munizioni, la politica prende tempo per difendere ciò che non è più difendibile: quel sistema che ha reso la prevenzione il terreno sul quale, più che nella giurisdizione penale, si misura oggi la pretesa punitiva pubblica in una congerie di ipotesi che il legislatore del 1956, ancora permeato dai valori della Costituzione, mai avrebbe potuto immaginare. E intanto, di prevenzione si muore ancora. (Articolo pubblicato su Il Dubbio)

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Il panpenalismo riduce al minimo lo Stato sociale

In nome della sicurezza sono aumentate le categorie dei “nemici” da punire di Alberto Scerbo (ordinario Filosofia del diritto presso Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro) e Orlando Sapia (segretario Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro)   Negli ultimi decenni si è realizzato un’accentuazione delle istanze repressive all’insegna di una legislazione “emergenziale” senza fine. Si sono andate sviluppando le dinamiche tipiche del «populismo penale» che hanno prodotto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Uno sguardo rapido, a titolo di esempio, ai più recenti interventi può essere utile. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo, per la rapina e per l’estorsione. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici” e ha reintrodotto i reati di mendicità e blocco stradale. Sempre nel medesimo solco, sono le previsioni relative alla misura di prevenzione del Daspo Urbano, introdotto dal decreto c.d. Menniti D.L. n. 14/2017 e poi ampliato dal decreto Salvini, ovverosia esecutivi di differente colore realizzano la medesima politica. Nel 2022, sempre con decretazione d’urgenza, è stato introdotto l’art. 633 bis c.p. che punisce l’invasione di terreni o edifici in occasione dei rave party. Successivamente, a seguito della tragedia di Cutro, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023, c.d. decreto Cutro, che ha inasprito le pene per il reato di immigrazione clandestina e introdotto il delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da venti a trenta anni. È del mese di settembre l’emanazione del D.L. n. 123/2023, c.d. Decreto Caivano, che contiene norme finalizzate ad ampliare l’applicazione delle misure cautelari nei confronti dei minori. Infine, recentissimo è un comunicato stampa, n. 59, del Consiglio dei Ministri, nel quale si dà notizia dell’approvazione di tre disegni di legge che introdurranno, qualora diverranno legge, nuove norme in materia di sicurezza. Spicca la modifica della normativa relativa al differimento della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età, così da rendere tale rinvio facoltativo anziché obbligatorio, come è attualmente. Tale norma, pensata nei riguardi di alcune decine di donne di etnia ROM e dei bambini al seguito, rischia di confinare all’interno del mondo penitenziario le madri ed i loro neonati. Tra le altre novità, oltre ad aumenti di pena per varie fattispecie di reato, si segnala la creazione del reato di “rivolta in istituto penitenziario”, art. 415 bis c.p., che probabilmente realizzerà un’anticipazione della soglia punitiva, così da colpire anche condotte non concretamente offensive. La previsione normativa dimostra come il Legislatore non tenga in alcuna considerazione il fatto che, laddove vi sono state rivolte nelle carceri ciò è avvenuto per le condizioni di estrema sofferenza subite dalla popolazione detenuta e causate dal cronico problema del sovraffollamento carcerario valso allo Stato italiano alcune condanne dinanzi alla CEDU. In sostanza, la parola d’ordine della sicurezza pubblica ha soppiantato il modello penalistico di matrice illuministica costituzionalmente orientato. Ha prodotto la frantumazione del principio di proporzionalità della pena, ha rinforzato gli istituti, più fluidi, della prevenzione a detrimento della tipicità legale. Le categorie di “nemici” non sono più solamente i mafiosi e i terroristi, ma, a seconda delle circostanze, i rom, i rumeni, i migranti, i sex offenders, i giovani frequentatori di rave party, in generale tutti coloro che appartengono al mondo degli “esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei nuovi barbari”. Compare lo spettro del novecentesco diritto penale d’autore (Täterstrafrecht), in cui la colpevolizzazione, il giudizio e la pena non riguardano più ciò che si è fatto, ma solamente ciò che si è. La continua implementazione del sistema penale a garanzia della presunta sicurezza della comunità evidenzia una crisi di legittimazione dello Stato, che ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche. Lo Stato minimo nei contenuti sociali, diviene massimo nell’esercizio del potere punitivo.   (pubblicato il 30 novembre 2023 su Il Dubbio)

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L’allarme dei penalisti: a Catanzaro troppi ‘maxi’ e pochi giudici. Libertà a rischio. Urge una nuova sezione

Ognuno di noi lo sa, da quando indossa per la prima volta la toga: l’avvocatura non può essere tenuta lontana dalla politica giudiziaria. È nei nostri doveri, prima ancora che tra le nostre prerogative, quello di partecipare al dibattito sulle riforme legislative, sulle prassi giudiziarie e, in generale, su tutti i temi che incidono sulla tutela dei diritti. Fa parte del nostro giuramento perseguire «i fini della giustizia e a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento». E l’avvocatura non può, non deve e non vuole rinunciare a una componente significativa, tra le responsabilità connesse al proprio ministero: essere guardiana dei diritti. Quando gli avvocati segnalano le criticità della giurisdizione è la collettività – che a loro ha affidato la tutela dei diritti fondamentali – a esprimersi. E nessuno può pensare di godere di spazi di insindacabilità o statuti di infallibilità. Sarebbe un ragionamento proprio di uno stato teocratico, nel quale il potere non ammette critica, perché promana direttamente da Dio. Questi sono gli apriori logici, se si vogliono affrontare i problemi della giustizia e tentare di risolverli tutti insieme, nella consapevolezza che, senza il sapere e la collaborazione degli avvocati, ben poco può essere fatto. Uno dei principali problemi per la macchina giudiziaria è, oggi, quello relativo ai numeri delle risorse impiegate nella organizzazione degli uffici. La scopertura di organico tra magistrati e personale di cancelleria è fenomeno endemico. Ma i numeri, nel distretto catanzarese, dicono altro (e oltre) e sembrano segnare, anche in tema di distribuzione delle risorse, il ricorso al “doppio binario”, che è ormai diventato, nell’amministrazione della giustizia, l’ordinario. Quello di Catanzaro è, per quanto dato sapere, l’unico tribunale distrettuale italiano nel quale il numero dei pubblici ministeri supera, e di gran lunga, quello dei giudici. Quando ci si è preoccupati di irrobustire la pianta organica della procura, ci si è dimenticati di potenziare parallelamente anche l’organico dei giudici, così concorrendo a causare un problematico effetto a “imbuto”. Se con obiettività si pensa che sotto la direzione di ogni p.m. operano decine di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, non ci si può non rendere conto che ogni giudice deve controllare il lavoro svolto da centinaia di persone, con ritmi assolutamente insostenibili. Ora, poiché i giudici non possono denegare una risposta e il codice di rito spesso impone termini perentori o comunque presidiati da responsabilità disciplinare, a soffrirne non può che essere la qualità di quell’intervento di controllo del lavoro investigativo, che segna il discrimine tra la libertà e la detenzione, tra il diritto di proprietà e l’ablazione, tra il benessere e il fallimento, tra la considerazione sociale e la berlina, tra la vita e la morte (civile). Non sono temi, questi, sui quali si possono lesinare risorse, impegno, lotta. La sezione gip del tribunale di Catanzaro, sede del distretto, è composta da meno di dieci giudici, a fronte di settantaquattro magistrati del pubblico ministero presenti nelle varie procure circondariali e in forza alla DDA. La sezione riesame del tribunale di Catanzaro, con un organico di soli sette magistrati, è ordinariamente investita da migliaia di procedimenti de libertate e ciclicamente travolta da maxi-operazioni con centinaia di cautelati. Come se non bastasse, si deve occupare delle misure di prevenzione, non solo nella fase genetica e conclusiva, ma anche, se non soprattutto, nella fase gestoria dei patrimoni sequestrati e in attesa di confisca, nella quale a quei giudici è richiesta la risoluzione di questioni complesse di natura civile, giuslavoristica, commerciale, fiscale, societaria e altro. Ecco perché gli avvocati hanno criticato severamente le contestazioni, spesso infondate, dell’aggravante mafiosa, così come l’uso disinvolto dei c.d. maxi processi (anche quando se ne potrebbe -e dovrebbe- fare a meno). Detto modus operandi mette i Giudici in affanno, ne satura il lavoro, costringendoli a pronunciarsi sulla vita e sulla libertà delle persone senza poter disporre della quota di tempo necessaria a una valutazione laica e serena. Li espone, inevitabilmente, a una maggiore percentuale di errore nei confronti di vittime innocenti. È evidente, dunque, che senza i necessari e rapidi correttivi, un sistema asimmetrico così congegnato rischia di soffocare (ulteriormente) i diritti di libertà. Alle nostre latitudini, infatti, il crinale sul quale si gioca l’efficienza della giurisdizione ha almeno due versanti. Il primo, logistico. Occorrono maggiori risorse. Urge aumentare il numero dei giudici nelle sezioni penali e istituire, come avvenuto in altri tribunali, una sezione promiscua che si occupi di prevenzione, fallimenti ed esecuzioni, in modo tale da assicurare, grazie alle diverse professionalità impegnate, l’effettivo controllo anche sulla attività degli amministratori giudiziari e, nel contempo, alleggerire la pressione sulla sezione riesame. Su detto versante, l’avvocatura penalista è pronta a unire con forza la propria voce a quella della magistratura e del presidente del tribunale, dott. Rodolfo Palermo, che da tempo si batte in tale direzione. Il secondo, culturale. Va alleggerito il ricorso alla leva cautelare, perché troppo spesso i processi si concludono con l’assoluzione dei cautelati. Va utilizzata con maggior prudenza la contestazione dell’aggravante mafiosa, che frequentemente è disconosciuta in giudizio e che, oltre a consentire la dilatazione temporale delle misure coercitive, sottrae l’indagato al proprio giudice naturale sottoponendolo a quello distrettuale. Va limitata l’istruzione di maxi-processi per reati eterogenei e non connessi secondo una delle ipotesi codicistiche, perché tale prassi ha un costo economico e sociale enorme, ostacola la ragionevole durata del processo, stigmatizza l’imputato oltre la contestazione concretamente elevata. Se si vuole migliorare la risposta della giurisdizione sul piano logistico, la Camera penale è pronta a fare la propria parte in ogni sede, senza alcun pregiudizio. È pronta a discuterne seriamente con la Magistratura, così come accade in altri distretti, al fine di individuare soluzioni comuni e condivise. È pronta a sollecitare il dibattito parlamentare. Ma occorre anche un diverso approccio culturale. Occorre che l’avvocatura sia considerata un interlocutore e non un ostacolo; occorre che si abbandoni quel senso di lesa maestà che non consente di comprendere quello che da sempre si sostiene: gli avvocati penalisti sono politicamente impegnati a tutelare i valori liberali del diritto penale

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Quando l’italia perse la faccia: riflessioni sul calvario giudiziario di enzo tortora e il moderno diritto penale

Nella suggestiva cornice della Sala del Pianoforte del Comune di Catanzaro abbiamo avuto l’onore di ricevere quale gradito ospite l’avvocato Raffaele della Valle, autore del libro “Quando l’Italia perse la faccia. L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora”, scritto insieme al giornalista Francesco Kostner, anch’egli presente all’evento.

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