Comunicato

Inaccettabile ogni indebita compressione del diritto di difesa

Un PM milanese apre un’indagine a carico del difensore di una imputata mentre il processo per un grave fatto di omicidio è in corso. Abbiamo appreso con sconcerto la notizia dell’indagine aperta da un PM milanese a carico del difensore di una imputata mentre il processo per un grave fatto di omicidio era in corso davanti alla Corte di Assise. Si è successivamente appreso che uno dei due PM, che sostenevano l’accusa nel processo a carico di Alessia Pifferi, tenendo il collega all’oscuro della sua iniziativa, ha ritenuto di indagare l’avvocata Pontenani, difensore dell’imputata, per il solo fatto di aver utilizzato le relazioni redatte da due psicologhe del carcere nel quale la Pifferi si trova ristretta, indagate a loro volta per il reato di falso, al fine di sostenere l’esistenza di un deficit di sviluppo intellettivo a carico della propria assistita e chiederne la sottoposizione a perizia psichiatrica. Perizia che è stata successivamente disposta dalla Corte d’Assise e che è attualmente in corso. Secondo l’ipotesi accusatoria, le relazioni delle psicologhe conterrebbero infatti false attestazioni sulle condizioni mentali della detenuta strumentalmente volte ad ottenere una perizia psichiatrica ed è per tale ragione che nel corso delle indagini sarebbero state disposte, nei loro confronti, intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonché la perquisizione delle abitazioni delle stesse. È notizia della stampa di oggi che, mentre una dei due PM titolare dell’accusa, in quanto tenuta all’oscuro della iniziativa in questione, ha deciso di rinunciare all’assegnazione del fascicolo, nell’ambito del processo pendente davanti alla Corte d’Assise il difensore dell’imputata ha dichiarato di non voler rinunciare alla difesa sebbene oggetto di iscrizione su iniziativa della stessa PM a lei contrapposta in quel processo. Non possiamo non considerare che questa indagine, inserita clamorosamente all’interno di un dibattimento in corso, finisca con l’alterare gli ordinari equilibri del processo e con il compromettere la serenità di chi, giudici e perito, dovranno esprimere le proprie valutazioni, facendo emergere come, ancora una volta, la funzione difensiva e chi la esercita appaiano delegittimati dalla stessa unilaterale iniziativa del PM, volta ad affermare l’esistenza di un concorso del difensore nelle ipotizzate condotte illecite di terzi, il che evidenzia, se ancora ve ne fosse bisogno, non solo la disparità processuale tra accusa e difesa, ma anche la sostanziale confusione fra la posizione e il ruolo del difensore e la figura dell’assistito. Per queste ragioni, pur senza voler entrare nel merito della vicenda processuale, dobbiamo stigmatizzare quanto accaduto e sottolineare come sia inaccettabile ogni indebita compressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito comunque essa sia perseguita, dentro e fuori il processo. Sorveglieremo per comprendere cosa ha in particolare giustificato l’iscrizione della collega nel registro degli indagati e infine in che contesto tali iniziative sono maturate, perché, se questo è ciò che attende il processo del futuro con una parte, il PM, che indaga l’altra parte a dibattimento aperto, sulla sola base di una incontrollata ipotesi investigativa, possiamo celebrare il requiem non solo del rito accusatorio, ma della giustizia in quanto tale. Unione delle Camere Penali Italiane Il documento della Giunta https://shorturl.at/oxAEM

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UN NODO ROSSO PER NON DIMENTICARE

  Giornata internazionale degli Avvocati minacciati – 24.1.2024 Nel 2023 sono stati 128 gli avvocati nel mondo minacciati, aggrediti, detenuti, scomparsi e uccisi. “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Martin Niemöller La Giornata internazionale degli Avvocati minacciati, istituita per ricordare il massacro di Atocha, a Madrid, del 24 gennaio 1977, in cui furono uccisi 5 avvocati nel periodo di transizione tra la dittatura franchista e la democrazia, acquista ogni anno un senso più profondo. Un urlo straziante che fatica ad essere inteso dalla generalità dei consociati, sommersi da pregiudizi sempre più pesanti da fronteggiare, che insozzano pericolosamente la figura del difensore. Per sensibilizzare sul tema, la Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro ha pensato di condividere una nuova iniziativa, invitando non solo i propri iscritti, ma tutte le Avvocate e gli Avvocati a indossare un piccolo fiocco di colore rosso, fino alla fine di gennaio. Che trovi spazio sulla toga, sulla borsa o altrove, la volontà è che possa diventare un “nodo” in aiuto alla memoria, brillante e stretto, per sollecitare una presa di coscienza davanti ad un problema attuale, ormai a tutte le latitudini, ma anche di consapevolezza circa la necessità di sostenere con un fronte comune le indebite aggressioni nei confronti di donne e uomini sempre più esposti e a rischio. Non sarà mai un esercizio di vuota retorica il tentativo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle minacce, sulle violenze, e in molti casi, purtroppo, sugli omicidi di Avvocati, perseguitati e messi a tacere per la sola colpa di svolgere la professione in maniera indipendente e autonoma. Il dato è – a dir poco – allarmante: nel 2023 sono stati 128 gli avvocati nel mondo minacciati, aggrediti, detenuti, scomparsi e uccisi. Questa esponenziale crescita di episodi di violenza e di minaccia perpetrate nei confronti dei difensori è la triste cartina al tornasole di un mondo nel quale la figura del difensore è posta, costantemente, sotto la luce distorta del sospetto, sepolta dagli stilemi dell’efficientismo, sul cui altare vengono sacrificati valori un tempo fondanti del patto sociale. Ma è un mito oscuro, quello che prende vita nell’aggressione dovuta al mancato raggiungimento di un obiettivo processuale o al rifiuto di un incarico, che si nutre dell’angoscia di chi è stato costretto ad abbandonare il proprio paese per trasferirsi all’estero, dell’amarezza di chi ha dovuto appendere ad un chiodo arrugginito i traguardi professionali di una vita sapendo che, a partire dai suindicati episodi, non avrebbe più avuto l’occasione di raggiungerne altri perché sotto perenne bisogno di protezione. Assai recenti episodi di insopportabile oppressione e violenza sono accaduti in luoghi famigerati per le costanti violazioni e negazioni di diritti umani, nei quali gli Avvocati si sottopongono quotidianamente a estenuanti prove fisiche e psichiche pur di lottare per un mondo più giusto e ancorato ai principi di uguaglianza. La situazione si complica nel caso di professioniste di genere femminile. Dal medio oriente, risprofondato nella segregazione femminile, alla Colombia, dove le Avvocate che si battono per la verità sulle sparizioni “forzate”, sono costantemente minacciate e intimidite. Quest’anno i riflettori del terrore hanno allungato ombre sull’Iran, dove è in corso una feroce repressione in risposta al movimento di protesta che scuote le fondamenta della teocrazia sciita. Decine gli avvocati sbattuti in carcere (circa 60) per aver semplicemente offerto sostegno ai manifestanti fermati dalla polizia politica, “difesi” d’ufficio da legali approvati dal regime. Il volto della dissidenza e della resilienza dell’avvocatura iraniana è incarnato da Nasrin Sotoudeh, condannata a 38 anni di prigione e 148 frustate. Non è facile ottenere una banca dati esaustiva di tutti gli Avvocati vittime di abusi nel mondo, radiati da ordini professionali legati a doppio filo ai regimi, dei difensori di dissidenti politici, assimilati ai loro clienti e sbattuti in prigione, o di quelli addirittura assassinati, da gruppi privati, paramilitari, narcotrafficanti, organizzazioni criminali. Purtroppo, assai diverse sono le tipologie di abusi subiti dai difensori: tra le più frequenti le detenzioni arbitrarie, spesso al termine di processi sommari – se e quando questi hanno luogo. Come lamenta lo OIAD (Observatoire International des Avocats en Danger – in Italia “Osservatorio Internazionale Avvocati in Pericolo”) è una pratica corrente a latitudini diverse: “tali atti sono spesso conseguenza di dichiarazioni pubbliche, sia che si tratti di critiche alle forze dell’ordine o ai servizi di sicurezza – i quali, con le loro azioni vessatorie, zittiscono i dissidenti politici (Mohammed Ziane – Marocco) – sia che si tratti di smentire accuse formulate contro dei clienti (Joseph Sanane Chiko – Repubblica del Congo). Queste minacce si estendono anche ai familiari degli avvocati, come nel caso del Presidente dell’ordine di Diyarbakir (Nahit Eren – Turchia), membro dell’OIAD, del quale sono state divulgate sui social notizie importanti attinenti alla vita privata e familiare». Eppure, non è più necessario rivolgere lo sguardo a siti remoti per percepire l’ampiezza del fenomeno. Abusi sempre più insopportabili, purtroppo, sono frequenti e in preoccupante aumento anche nel nostro Paese. Basti pensare, ad esempio, agli innumerevoli casi di cronaca in cui i riflettori sono ricaduti, inesorabilmente, sul difensore di turno, vittima della gogna mediatica e del pubblico supplizio ogni qualvolta si sia trovato costretto a giustificarsi per l’esercizio della propria attività da difensore. Il più recente, solo in ordine di tempo, riguarda l’Avv. Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto Penale presso l’Università di Padova, nominato difensore di Filippo Turetta per l’omicidio di Giulia Cecchettin, destinatario di una “petizione” al fine di ottenere la rinuncia al mandato, giustificata da una presunta incompatibilità tra la partecipazione al dolore per la perdita della vittima e al tempo stesso una compiuta esplicazione del mandato professionale. Un abominio non soltanto giuridico, ma logico, figlio di un pensiero, che – in

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Cui prodest? Di fronte alla tragedia della morte dobbiamo fermarci e recuperare il senso del limite

A chi giova? È quello che ci chiediamo, trascorsi pochi giorni dal tragico pomeriggio dell’Epifania, innanzitutto come semplici lettori. Come lettori, è vero, che si nutrono di informazione, ma non certo “affamati” di quella cronaca (non tutta, per fortuna) che trascende, che cede alla tentazione di alimentare l’opinione pubblica somministrando notizie ‘inopportune’, che nulla hanno a che fare con la notizia in sé, in questo caso, un’autentica tragedia consumatasi ancora una volta sulla SS 106, sì la famigerata “strada della morte”. A chi giova, a chi può interessare, a poche ore da un dramma che ha distrutto quattro famiglie, se i ragazzi che viaggiavano nella Panda, in direzione Catanzaro-Soverato, erano o meno reduci da una visita in carcere? A chi giova la dovizia di particolari sulla genealogia di famiglia? Quattro giovani hanno perso la vita su una strada maledetta, una tragedia che testimonia la forza dell’indifferenza anche di fronte al valore della vita. L’ennesimo tributo di sangue che non troverà consolazione alcuna. È forse utile alla giusta causa (quella di rendere più sicura questa strada) documentare i rapporti di parentela, i dati biografici? È veramente importante, al cospetto della morte, il richiamo ai legami familiari che ciascuno di noi porta in dote? Questi dettagli debbono ritenersi necessari per l’esercizio del diritto di cronaca su un episodio così tragico? Conoscere i nomi e le parentele delle vite spezzate può cambiare la prospettiva sull’accaduto o, piuttosto, si riduce in un eccesso di informazione ‘inopportuno’, decentrato, proprio perché orientato semplicemente a soddisfare eventuali curiosità morbose di chi legge e, quindi, ad alimentare la soglia degli utenti? Non è in discussione, sia chiaro, il piano deontologico, che non compete a noi. Del pari, ben conosciamo il fondamentale ruolo dell’Informazione ed il delicato e difficile compito dei giornalisti chiamati a divulgare le notizie di cronaca. Eppure abbiamo avvertito (non solo noi), in queste ore, un richiamo della coscienza, che ci impone di sollevare un doveroso problema di opportunità. Di fronte alla morte così tragica e dolorosa, a giovani vite spezzate in modo violento e drammatico, dovremmo avvertire il bisogno di fermarci e recuperare il senso del limite, un’ecologia dell’informazione che renda consapevoli dei diritti fondamentali della persona, di ogni persona, tutti meritevoli di essere salvaguardati. Ispirarci a criteri di correttezza, continenza e pertinenza delle notizie date, senza trascendere in eccessi bulimici che si scontrano con il buon senso, prima ancora che con altri diritti parimenti meritevoli di tutela. Sono considerazioni, punti di vista, che desiriamo offrire alla ragione pubblica e alla riflessione collettiva. Il dato certo da portare in emersione nella triste vicenda consumatasi nel giorno dell’Epifania era uno solo: questi quattro giovani, figli della nostra terra e della nostra storia, non dovevano lasciare su quel manto stradale le loro speranze e i loro sogni. Camera penale “Alfredo Cantàfora” Il Consiglio Direttivo Rassegna stampa: https://shorturl.at/ijrIT https://shorturl.at/BEV56

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Il senso (smarrito) della giustizia

  Il Dott. Davigo ha rilasciato qualche giorno or sono una intervista a Fedez per sostenere, tra le altre cose, a proposito del fenomeno dei suicidi in carcere, che “prima di tutto, il fatto che uno decida di suicidarsi, lo perdi come possibile fonte di informazione” e, poi, che “le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono”. La reazione immediata è stata di “disorientamento” e “incredulità” (non è possibile che lo abbia detto veramente!). A mente ferma, invece, si impongono alcune riflessioni. Proviamo a svilupparne tre. La prima, è che il pensiero del Dott. Davigo – diffuso non solo nell’opinione pubblica, ma ahinoi,  anche tra gli addetti ai lavori – dovrebbe essere indicato a motivo paradigmatico della necessaria separazione delle carriere dei Magistrati. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica che, conclusa l’esperienza di “Mani pulite”, il nostro è stato dapprima consigliere presso la Corte d’appello di Milano e, in seguito, consigliere presso la Corte di Cassazione, divenendo infine presidente della Seconda Sezione penale. Davigo, quindi, ha esercitato funzioni giudicanti per oltre venti anni, dovendo essere per disposizione costituzionale “terzo ed imparziale”, oltre che permeato dalla presunzione di innocenza. Ora, chiunque affermi che un “assolto è solo un colpevole che l’ha fatta franca” o che in carcere ci sta solo chi ha commesso un delitto non può essere considerato imparziale, né consapevole della presunzione di innocenza. Quindi, i due decenni abbondanti trascorsi dall’altra parte del “banco” non sono riusciti, evidentemente, ad emendarlo da quel portato di “partigianeria”, che è connaturato all’esercizio delle funzioni di  Pubblico Ministero, parte del processo. E questo consente di apprezzare la mai abbastanza esplicitata natura “culturale” (accanto a quella normativa e politica) della richiesta di separazione delle carriere. Si dice, ad opera di chi non condivide questa svolta, che l’esercizio di funzioni giudicanti farebbe del futuro PM un magistrato meno condizionato dal ruolo accusatorio. Ciò sarebbe vero se, negli ultimi 30 anni, si fosse registrato un equilibrio nella giurisdizione, mantenendo ferma la “centralità” del Giudice, rispetto a quella del Pubblico Ministero. La verità è altra, ed è sotto gli occhi di tutti, come dimostra lo sbilanciamento emotivo (non solo sociale e mediatico) sulle tesi d’accusa. La seconda considerazione è dettata dalla indifferenza dimostrata da chi ha esercitato la “terribilità del potere”, coma la chiamava Leonardo Sciascia, rispetto alla quota di umano dolore che ogni vicenda giudiziaria porta con sé. Presso gli antichi greci, e tanti esempi ce ne offre la tragedia classica, la hybris era la pretesa dell’uomo di esercitare il proprio potere contro l’ordine costituito, umano o divino che fosse. Chi parla di suicidi o di errori giudiziari come di fenomeni fisiologici e non, come essi sono, della più grave patologia che il sistema giustizia possa subire, assomiglia a Creonte che nega sepoltura a Polinice, vittima e carnefice del fratello Eteocle. Dimentico, evidentemente, di quanto sia carico di umanità il volto della giustizia disegnato dai nostri padri costituenti! La dissaldatura da quel modello, quando lo capiremo sarà troppo tardi, è una autentica tragedia per la nostra democrazia. Lo spiega molto bene un altro P.M. di quel pool, Gherardo Colombo, che già 15 anni fa nel suo libro “il perdono responsabile” scriveva: “quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero per qualche giorno in carcere come detenuti. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile; ma poi ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne sto davvero esercitando giustizia?”. La terza riflessione riguarda la missione, del tutto “controintuitiva”, di associazioni come Antigone o Nessuno Tocchi Caino. Quei don Chisciotte che credono davvero che anche il colpevole sia un uomo come noi, con gli stessi diritti, gli stessi bisogni, le stesse aspirazioni. E che nelle carceri ci sia bisogno di umanità, dignità, comprensione, socialità, uniche vie di riscatto. E che dedicano la vita alla tutela di chi non ha più voce, perché una voce, dal carcere, non può uscire da sola. Insomma, il contrario dell’indifferenza mostrata davanti alla morte suicida o all’innocente detenuto (“e sono tanti, e sono troppi”, diceva Enzo Tortora). Già, i suicidi. Una ferita aperta del nostro sistema carcerario e, con esso, della nostra civiltà del diritto, che non riesce a suturarsi. Negli anni di Tangentopoli, molti detenuti si ribellarono alla “carcerazione ingiusta”, alla quale non seppero reagire in modo diverso (“quando la parola è flebile, non resta che il gesto”, scriveva Sergio Moroni). Oggi, i numeri sono ancora più insopportabili, non solo tra i detenuti (circa 100 all’anno!), ma anche tra gli agenti di polizia penitenziaria. Un mondo di sofferenza che un grande cantautore e poeta ha saputo accarezzare con delicatezza, col suo senso di giustizia mai scollegato da quello di umanità, tanto era profondo, in lui, il rispetto delle leggi di natura. Tra le sue canzoni, su tutte, viene in mente “Preghiera in gennaio”, dedicata a Luigi Tenco. “Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia Se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”.  “Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte, ai suicidi dirà baciandoli alla fronte: venite in Paradiso. Là dove vado anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. Il Consiglio Direttivo

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Ora basta!

Quando, mesi fa, le Camere Penali calabresi hanno denunciato per l’ennesima volta l’erroneo e smodato ricorso all’istituto della connessione tra procedimenti, la Magistratura associata e certa stampa consociata hanno reagito con la solita veemente levata di scudi.

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L’allarme dei penalisti: a Catanzaro troppi ‘maxi’ e pochi giudici. Libertà a rischio. Urge una nuova sezione

Ognuno di noi lo sa, da quando indossa per la prima volta la toga: l’avvocatura non può essere tenuta lontana dalla politica giudiziaria. È nei nostri doveri, prima ancora che tra le nostre prerogative, quello di partecipare al dibattito sulle riforme legislative, sulle prassi giudiziarie e, in generale, su tutti i temi che incidono sulla tutela dei diritti. Fa parte del nostro giuramento perseguire «i fini della giustizia e a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento». E l’avvocatura non può, non deve e non vuole rinunciare a una componente significativa, tra le responsabilità connesse al proprio ministero: essere guardiana dei diritti. Quando gli avvocati segnalano le criticità della giurisdizione è la collettività – che a loro ha affidato la tutela dei diritti fondamentali – a esprimersi. E nessuno può pensare di godere di spazi di insindacabilità o statuti di infallibilità. Sarebbe un ragionamento proprio di uno stato teocratico, nel quale il potere non ammette critica, perché promana direttamente da Dio. Questi sono gli apriori logici, se si vogliono affrontare i problemi della giustizia e tentare di risolverli tutti insieme, nella consapevolezza che, senza il sapere e la collaborazione degli avvocati, ben poco può essere fatto. Uno dei principali problemi per la macchina giudiziaria è, oggi, quello relativo ai numeri delle risorse impiegate nella organizzazione degli uffici. La scopertura di organico tra magistrati e personale di cancelleria è fenomeno endemico. Ma i numeri, nel distretto catanzarese, dicono altro (e oltre) e sembrano segnare, anche in tema di distribuzione delle risorse, il ricorso al “doppio binario”, che è ormai diventato, nell’amministrazione della giustizia, l’ordinario. Quello di Catanzaro è, per quanto dato sapere, l’unico tribunale distrettuale italiano nel quale il numero dei pubblici ministeri supera, e di gran lunga, quello dei giudici. Quando ci si è preoccupati di irrobustire la pianta organica della procura, ci si è dimenticati di potenziare parallelamente anche l’organico dei giudici, così concorrendo a causare un problematico effetto a “imbuto”. Se con obiettività si pensa che sotto la direzione di ogni p.m. operano decine di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, non ci si può non rendere conto che ogni giudice deve controllare il lavoro svolto da centinaia di persone, con ritmi assolutamente insostenibili. Ora, poiché i giudici non possono denegare una risposta e il codice di rito spesso impone termini perentori o comunque presidiati da responsabilità disciplinare, a soffrirne non può che essere la qualità di quell’intervento di controllo del lavoro investigativo, che segna il discrimine tra la libertà e la detenzione, tra il diritto di proprietà e l’ablazione, tra il benessere e il fallimento, tra la considerazione sociale e la berlina, tra la vita e la morte (civile). Non sono temi, questi, sui quali si possono lesinare risorse, impegno, lotta. La sezione gip del tribunale di Catanzaro, sede del distretto, è composta da meno di dieci giudici, a fronte di settantaquattro magistrati del pubblico ministero presenti nelle varie procure circondariali e in forza alla DDA. La sezione riesame del tribunale di Catanzaro, con un organico di soli sette magistrati, è ordinariamente investita da migliaia di procedimenti de libertate e ciclicamente travolta da maxi-operazioni con centinaia di cautelati. Come se non bastasse, si deve occupare delle misure di prevenzione, non solo nella fase genetica e conclusiva, ma anche, se non soprattutto, nella fase gestoria dei patrimoni sequestrati e in attesa di confisca, nella quale a quei giudici è richiesta la risoluzione di questioni complesse di natura civile, giuslavoristica, commerciale, fiscale, societaria e altro. Ecco perché gli avvocati hanno criticato severamente le contestazioni, spesso infondate, dell’aggravante mafiosa, così come l’uso disinvolto dei c.d. maxi processi (anche quando se ne potrebbe -e dovrebbe- fare a meno). Detto modus operandi mette i Giudici in affanno, ne satura il lavoro, costringendoli a pronunciarsi sulla vita e sulla libertà delle persone senza poter disporre della quota di tempo necessaria a una valutazione laica e serena. Li espone, inevitabilmente, a una maggiore percentuale di errore nei confronti di vittime innocenti. È evidente, dunque, che senza i necessari e rapidi correttivi, un sistema asimmetrico così congegnato rischia di soffocare (ulteriormente) i diritti di libertà. Alle nostre latitudini, infatti, il crinale sul quale si gioca l’efficienza della giurisdizione ha almeno due versanti. Il primo, logistico. Occorrono maggiori risorse. Urge aumentare il numero dei giudici nelle sezioni penali e istituire, come avvenuto in altri tribunali, una sezione promiscua che si occupi di prevenzione, fallimenti ed esecuzioni, in modo tale da assicurare, grazie alle diverse professionalità impegnate, l’effettivo controllo anche sulla attività degli amministratori giudiziari e, nel contempo, alleggerire la pressione sulla sezione riesame. Su detto versante, l’avvocatura penalista è pronta a unire con forza la propria voce a quella della magistratura e del presidente del tribunale, dott. Rodolfo Palermo, che da tempo si batte in tale direzione. Il secondo, culturale. Va alleggerito il ricorso alla leva cautelare, perché troppo spesso i processi si concludono con l’assoluzione dei cautelati. Va utilizzata con maggior prudenza la contestazione dell’aggravante mafiosa, che frequentemente è disconosciuta in giudizio e che, oltre a consentire la dilatazione temporale delle misure coercitive, sottrae l’indagato al proprio giudice naturale sottoponendolo a quello distrettuale. Va limitata l’istruzione di maxi-processi per reati eterogenei e non connessi secondo una delle ipotesi codicistiche, perché tale prassi ha un costo economico e sociale enorme, ostacola la ragionevole durata del processo, stigmatizza l’imputato oltre la contestazione concretamente elevata. Se si vuole migliorare la risposta della giurisdizione sul piano logistico, la Camera penale è pronta a fare la propria parte in ogni sede, senza alcun pregiudizio. È pronta a discuterne seriamente con la Magistratura, così come accade in altri distretti, al fine di individuare soluzioni comuni e condivise. È pronta a sollecitare il dibattito parlamentare. Ma occorre anche un diverso approccio culturale. Occorre che l’avvocatura sia considerata un interlocutore e non un ostacolo; occorre che si abbandoni quel senso di lesa maestà che non consente di comprendere quello che da sempre si sostiene: gli avvocati penalisti sono politicamente impegnati a tutelare i valori liberali del diritto penale

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