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Le teorie fragili esposte alla Cedu per difendere l’ingiustizia suprema delle confische agli assolti

  di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo La tautologia è quel procedimento logico per il quale un fatto si assume essere vero “per definizione”, spesso in base a riflessioni circolari o autoreferenziali. È il modo di ragionare dei bambini, dei matti e dei tiranni, i quali hanno ragione perché, per svariati motivi, non accettano o non comprendono mai di avere torto. Con questo spirito sembra che il Governo italiano abbia deciso di rispondere ai quesiti che la Corte EDU gli ha rivolto nel caso che vede il nostro Stato contrapposto ai signori Cavallotti, imprenditori siciliani assolti in via definitiva dal delitto di partecipazione mafiosa e, anzi, ritenuti vittime di estorsione da parte di quei soggetti che il Pubblico Ministero ipotizzava, invece, essere loro sodali. E che, nonostante l’assoluzione, sono diventati ancora vittime: questa volta, dell’onnivorismo della prevenzione che non segue i sofistici distinguo del diritto penale sostanziale (ad esempio, quella spigolatura, da raffinato giurista, tra imprenditore “soggiacente” e “compiacente”), ma divora tutto quello che le si offre, come la più spietata divinità precolombiana. Così, ai Giudici europei che chiedevano come ciò sia possibile ed erano curiosi di conoscere se le nostre Leggi in materia di prevenzione siano accessibili nel precetto e prevedibili nella sanzione, se la confisca di prevenzione sia o meno considerabile sanzione penale, se l’irrogazione di una confisca senza un formale accertamento di responsabilità violi la presunzione di innocenza, se il procedimento – anche a causa dell’inversione dell’onere della prova circa la legittima acquisizione dei beni – offra sufficienti garanzie difensive, il governo, tramite l’avvocatura dello Stato, ha risposto con ben 121 pagine per tentare di spiegare che la nostra prevenzione (“nostra”, perché con queste caratteristiche, nel mondo, ce l’abbiamo solo noi) è conforme alla Costituzione repubblicana ed alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come assicura proprio la giurisprudenza della Corte di Cassazione. Come i bambini, i matti ed i tiranni, dopo lunghe cogitazioni e richieste di rinvio, rassicuriamo l’Europa che “abbiamo ragione, perché lo diciamo noi”. Cioè ( giusto per chiarire), mentre da Strasburgo ci indicano la Luna e ci dicono che la nostra Legge sembra dissonante rispetto ai cardini del diritto punitivo ( legalità, tipicità, precisione, irretroattività in malam partem, tassatività, determinatezza, extrema ratio, proporzionalità, rieducazione, divieto di analogia in malam partem), a Roma guardano il dito e rispondono che i nostri Giudici quella Legge la applicano proprio bene. Se diverse migliaia di cittadini italiani non ci rimettessero, ogni anno, il lavoro, la casa o la vita, ci sarebbe da fare spallucce e sorridere, proprio come si fa, appunto, con i bambini ed i matti. Ma, come avvisava Nietzsche, “a questa stregua uno può avere sempre torto e prendersi sempre la ragione e diventare alla fine con la migliore coscienza del mondo il più insopportabile tiranno”. E allora, qualcosa in proposito la dobbiamo dire, perché “l’ingiustizia suprema che è il sistema delle misure di prevenzione” (come lo ha definito, su queste pagine, Valerio Spigarelli) non debba continuare a proliferare sul nostro colpevole silenzio e sulle bugie che ancora andiamo raccontando in Europa. Non è un’analisi che può essere contenuta in un solo intervento, ma vogliamo almeno avviare il dibattito, perché il rischio da scongiurare non è tanto che la prevenzione “sopravviva” a Cavallotti, ma che diventi, definitivamente, il modello di punizione patrimoniale, sostituendo la sanzione penale e, quel più conta, il processo penale accusatorio, le sue garanzie, i suoi standard probatori. La prima osservazione è di metodo. Il primo quesito che la Corte Europea pone al governo è chiaro: i decreti di confisca emessi a carico dei ricorrenti presuppongono l’opinione che essi siano colpevoli, nonostante l’assenza di una formale affermazione di colpevolezza? La “formale affermazione di colpevolezza”, che è lemma mutuato dall’art. 6 comma 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo (non a caso, richiamato espressamente dal quesito), presuppone la celebrazione di un giudizio “giusto”, caratterizzato dalle garanzie previste dal successivo comma 3, e, quindi, di un processo penale che, secondo il nostro ordinamento, è l’unico strumento per il formale accertamento della colpevolezza. Il quesito, allora, è se sia possibile una confisca senza condanna. Il governo, evidentemente ritiene scontato che ciò sia possibile, e, con molta abilità, elude la domanda e la interpreta come rivolta a chiarire la compatibilità tra provvedimento di confisca e precedente sentenza di assoluzione, così eludendo il tema proposto e argomentando sulla autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, con affermazioni sulle quali converrà tornare in futuro, tanto sono internamente contraddittorie. Quel che è certo, per ora, è che le risposte fornite all’Europa, il cui tenore era ampiamente prevedibile, non solo non convincono, ma suonano come il disperato tentativo di giustificare un fenomeno che “tutti ci invidiano, ma, chissà perché, nessuno ci copia”. (Pubblicato su “Il Dubbio” il 13-12-2023)

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Di interdittive antimafia si muore: “io devo andare perché voi siate liberi”. Intervista a Francesco Greco, figlio di Rocco Greco

  di Francesco Iacopino Gela. Rocco Greco si è tolto la vita con un colpo di pistola alla tempia. È l’alba del 27 febbraio 2019. Aveva denunciato i suoi estortori, facendoli condannare. Per ritorsione fu accusato di avere rapporti con la mafia. Assolto dal Tribunale con formula piena, la Prefettura lo “interdice”. È l’Italia delle misure di prevenzione. Quel marchio di “interdetto” non lo sopporta, lo considera un’ipoteca negativa, un’infamia da cancellare dall’asse ereditario dei suoi figli. E lo fa nel modo più drammatico: “io devo andare perché voi siate liberi”. Un anno e mezzo dopo, la famiglia vincerà la battaglia giudiziaria. La sua impresa era “pulita”. E lo era anche lui.   Francesco sono trascorsi quasi cinque anni da quel tragico giorno. Nell’immediatezza dei fatti ha detto: “facciamo sì che vicende così non accadano più”. Cosa è cambiato? Nulla. Il sistema continua amaramente ad essere inefficiente e cancerogeno. A distanza di anni, nessun imprenditore percepisce le interdittive come la mano tesa dello Stato, l’alleanza con il tessuto economico sano per combattere “insieme” la mafia. Al contrario, i provvedimenti prefettizi, “inflitti” sulla base del sospetto, mortificano chi fa impresa, specie al sud. E così, si è schiacciati, da un lato dall’arroganza della criminalità e, dall’altro, dalla burocrazia dello Stato. È in atto la desertificazione dell’economia legale del meridione.   Da come si esprime, sembra che in materia di “prevenzione” l’Italia sia divisa in due. È la realtà. Al sud la macchina delle interdittive alimenta la quotidiana “guerra dei poveri”. Nei territori economicamente depressi una burocrazia lenta e deresponsabilizzata finisce per “schiacciare” le aziende e disincentivare gli investimenti. Molti imprenditori, per sopravvivere, si trasferiscono al nord. Fare impresa oggi nel meridione è un miracolo. All’esito dei processi, suo padre è stato riconosciuto innocente, mentre i suoi estortori sono stati definitivamente condannati. Lo Stato ha riparato all’errore? Purtroppo no. Esiste un fondo di rotazione per le vittime di mafia e, sebbene il Tribunale abbia accolto la nostra richiesta, il Prefetto ci ha negato il risarcimento dovuto. Siamo al paradosso. Il Giudice lo dichiara vittima. Il Prefetto se ne infischia. Per superare l’empasse, dovremmo intentare un’altra causa. Siamo molto stanchi e delusi dalla solitudine e dal peso, insopportabile, che il sacrificio di mio padre, in fondo, possa non essere servito a nulla. Dove trova la forza per andare avanti? Nella compattezza della mia famiglia. L’eredità di mio padre. Nonostante il dolore lacerante, mia mamma Enza si è caricata da subito il peso di supplire alla mancanza paterna, moltiplicando i sacrifici e gli sforzi. I miei fratelli, Andrea e Paola, si sono rimboccati le maniche e sono diventati la ragione del mio impegno quotidiano. Osservo la loro dedizione, l’amore e la passione per il lavoro e rivedo i valori che ci ha trasmesso papà. Certo, non è facile. Mamma, ancora oggi, ogni 27 del mese si sveglia alle 4 del mattino. Precede di un’ora l’orario in cui mio padre, quel fatidico 27 febbraio, è uscito di casa per non farvi più rientro. Ma non molliamo. Questo coraggio vi fa onore. Cosa si aspetta dal futuro. Che il sistema cambi. Il 27 febbraio del 2019 abbiamo dovuto affrontare una nuova vita, che non ci siamo scelti. Abbiamo deciso di canalizzare tutta la nostra sofferenza in una battaglia di civiltà, perché il sacrificio di mio padre non risultasse vano. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.

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Il metodo nelle associazioni di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.)

    Dott. Antonio Baudi   Abstract – Lo scritto affronta il dibattuto tema della natura del metodo mafioso qualificante la fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., disposizione innovativa introdotta dall’art. 1 della legge 13 settembre 1982 n. 646, quale forma speciale di associazione delittuosa. Dopo una preliminare trattazione della base associativa analizza gli elementi costitutivi del delitto (accordo, struttura, metodo, finalità) e si sofferma in maniera specifica sul metodo mafioso come requisito essenziale caratterizzante le associazioni del tipo, associazioni plurime operanti  nelle rispettive zone di influenza, tutte accomunate dalla tipologia normativa, e di recente problematizzate quanto alla connotazione giuridica di diverse, e nuove, realtà manifestatesi nel sociale, talune qualificate come forme di “mafia silente”. All’uopo introduce il principio di giuridicità rilevando che il principio di materialità, persistendo nel valorizzare il solo dato fenomenico, trascura che la fattualità non è isolabile, e quindi percepibile, senza il contributo derivante dal piano di rilevanza normativa. ove confluisce il complesso profilo del fatto penale nella sua consistenza duplice, storica e normativa, integrante il configurato principio di giuridicità. Quindi valorizza sul piano ermeneutico l’elemento del metodo mafioso e dell’avvalimento come requisito ricorrente in atto in funzione della necessaria offensività dell’illecito. In proposito, posto che Il delitto in esame è tradizionalmente reputato come reato di pericolo e a tutela anticipata, tale qualifica viene utilizzata per sostenere l’assunto secondo cui “l’avvalersi” andrebbe letto in senso potenziale, cioè come “il potersi avvalere”. Tale impostazione di pensiero viene censurata in questa sede sembrando più corretto l’orientamento che reputa la natura mista dell’offensività dell’illecito, in parte di pericolo ed in parte di danno: di pericolo rispetto al programma da compiere, di danno rispetto al metodo, che dunque va inteso come requisito che deve rinvenirsi in atto.   SOMMARIO –  1. Le ragioni della riforma e la disposizione speciale. 2. La base associativa. 3. Gli elementi costitutivi della fattispecie. 4. Il principio di giuridicità come guida ermeneutica per individuare il metodo mafioso come requisito essenziale di ogni associazione del tipo. 5. L’avvalimento della forza intimidatrice e i profili di offensività penale. (Il contributo è stato sottoposto in forma anonima, con esito favorevole, alla valutazione di un revisore esperto).   LEGGI CONTRIBUTO

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L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA DIRITTO E RAGION DI STATO

di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   ABSTRACT  1) La questione di legittimità al vaglio della corte costituzionale – 2) La costituzionalizzazione dell’ergastolo e il regime dell’ostatività- 3) Ostatività, tolleranza zero e ruolo dello stato – 4) Tra diritto penale massimo e diritto penale del nemico – 5) La giurisprudenza ed i recenti indirizzi: sent. n. 149/18 c.c. – sentenza viola cedu – sentenza n. 253 del 2019 c.c. – 6) 4 bis e circuito penitenziario differenziato  1) La questione di legittimità rimessa dalla Corte di Cassazione, I Sezione, con ordinanza del 3 Giugno 2020 alla Corte Costituzionale ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co.1, e 58 ter L. n. 354/ 1975 e art. 2 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso  in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter della medesima legge o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione. Visto, nel caso oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale, l’essersi formato il c.d giudicato esecutivo di segno negativo in ordine all’impossibile e/o inesigibile collaborazione, la circostanza della mancata collaborazione ha precluso il vaglio di quanto dedotto nel merito, a sostegno della richiesta di liberazione condizionale, da parte del ricorrente. Con ciò, si è elevata la presenza o meno della collaborazione a criterio, da un lato, esclusivo al fine di vagliare l’assenza di legami con l’ambiente criminale di appartenenza e, dall’altro, escludente rispetto ad altri elementi che in concreto potrebbero essere validi al fine di valutare la presenza dei sopraddetti legami criminali e, quindi, escludere la pericolosità sociale del condannato. Ne consegue che l’esistenza di preclusioni assolute alla valutazione/concessione della liberazione condizionale realizza, pur laddove vi siano progressi del condannato in termini di risocializzazione, una violazione del dettato costituzionale in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 Cost.  La Suprema  Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione, anche sulla scia della recente giurisprudenza internazionale (sentenza Corte EDU Viola/Italia) e nazionale (sentenza C.C. n. 253/19) ha ritenuto la questione di costituzionalità rilevante e non manifestamente infondata, dal momento che le vigenti disposizioni realizzano “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento” che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza n. 313 del 1990 – è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e, l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”. Ancora una volta si pone un confronto tra principi sottostanti ad istituti giuridici posti a tutela di differenti e, forse, antitetici interessi sociali, prima, e beni giuridici, dopo. Da una parte le ragioni dello Stato nell’esercizio del potere legittimo della forza, dall’altra le ragioni del cittadino nel pretendere che questo esercizio legittimo della forza non sia egemonizzato dalle esigenze di sicurezza sociale, ma trovi il suo baricentro nella funzione di rieducazione/risocializzazione della pena.   LEGGI TUTTO Ergastolo ostativo tra diritto e ragion di stato

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Misure di prevenzione: l’Italia ridotta a fare melina di fronte ai dubbi della Cedu

  di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo   Caso Cavallotti, Strasburgo stupita dalla confusione tra prove e sospetti Potrebbe sembrare una boutade oppure uno scherzo e invece è vero: il Governo italiano ha chiesto una proroga dei termini per rispondere ai quesiti posti dalla Corte EDU nello scorso mese di agosto, nel caso Cavallotti/Italia.Avevamo già segnalato che le domande, che indubbiamente svelano all’interrogato le idee dell’interrogante, anticipano una decisione che potrebbe essere epocale, per il futuro delle misure di prevenzione. Prudentemente, dunque, l’Italia fa quello che le riesce meglio, sin dai tempi della discesa di Annibale attraverso le Alpi: temporeggia. Eppure, la sensazione è che, questa volta, la truffa delle etichette abbia i giorni contati. Già la sentenza della Grande Camera EDU, sul caso De Tommaso/Italia, aveva lasciato intuire che il futuro della prevenzione è nell’alveo della legalità formale. In quella pronuncia, il tema era solo parzialmente quello della natura delle misure di prevenzione. Eppure, i Giudici convenzionali avevano invocato i principi di accessibilità della norma e di prevedibilità della sanzione. Cioè, avevano denunciato il difetto di tassatività e determinatezza, quali corollari della legalità. Ma avevano anche richiamato il terzo pilastro della legalità, cioè l’irretroattività, con un obiter dictum tanto chiaro, quanto sfuggito a molti.Ora, invece, l’ordinanza della Corte EDU investe frontalmente le misure di prevenzione, con domande che riguardano proprio la loro natura di sanzione, la “qualità della Legge” che le prevede, i diritti riconosciuti alle parti private nel procedimento applicativo, gli effetti.Un ritorno evidente alla legalità formale, segno che a Strasburgo le misure di prevenzione italiane sono viste come “sanzioni criminali”, cioè materia penale. La giurisprudenza europea svela dunque ciò che quella italiana si ostina a nascondere con virtuosismi semantici: non si può ulteriormente giustificare un sistema sanzionatorio che, come quello di prevenzione, è sovrapponibile al penale negli effetti, ma presenta delle peculiarità – come la retroattività, la instabilità del giudicato, la inquisitorietà – che lo rendono un terribile strumento (né di prevenzione, né di punizione, ma) di controllo sociale, grazie alla continua implementazione delle categorie di destinatari. E non è previsto come istituto, a differenza delle pene e delle misure di sicurezza, dalla nostra Costituzione, che fissa i casi ed i limiti di compromissione delle libertà fondamentali. Un arnese da “doppio stato” che il potere costituito decide, in modo sostanzialmente discrezionale, a chi applicare ed a chi no (non essendovi – né potendovi essere, per la labilità dei suoi confini normativi – obbligatorietà dell’azione di prevenzione), a seconda della opportunità o della necessità del momento. Come si è visto nel recente parossismo legislativo: a ciascuno la sua prevenzione! Senza accertamento di responsabilità su di un fatto costituente reato; spesso senza responsabilità tout court; a volte persino in presenza di sentenze assolutorie, come per i Cavallotti. Un ritorno al “re taumaturgo”, che decideva, con l’imposizione delle mani ed a proprio insondabile arbitrio, chi far vivere, chi far morire. Senza alcuna forma di controllo e coercizione. “Il re ti tocca, Dio ti guarisce”. O, nel caso della prevenzione, “ti uccide”. E troppi sono morti davvero, perché “toccati dal re”. Come Riccardo Greco, imprenditore di Gela, suicida per dare un futuro ai figli, ai quali rivolse un insolito biglietto di addio: “io devo andare, perché voi siate liberi”. Frasi rispetto alle quali i tentennamenti del Governo davanti alla CEDU suonano come una ennesima beffa, se non come un insulto alla memoria. Come il leggendario Hiroo Onoda, soldato giapponese che si arrese agli americani solo nel 1974 e solo perché aveva finito le munizioni, la politica prende tempo per difendere ciò che non è più difendibile: quel sistema che ha reso la prevenzione il terreno sul quale, più che nella giurisdizione penale, si misura oggi la pretesa punitiva pubblica in una congerie di ipotesi che il legislatore del 1956, ancora permeato dai valori della Costituzione, mai avrebbe potuto immaginare. E intanto, di prevenzione si muore ancora. (Articolo pubblicato su Il Dubbio)

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Il panpenalismo riduce al minimo lo Stato sociale

In nome della sicurezza sono aumentate le categorie dei “nemici” da punire di Alberto Scerbo (ordinario Filosofia del diritto presso Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro) e Orlando Sapia (segretario Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro)   Negli ultimi decenni si è realizzato un’accentuazione delle istanze repressive all’insegna di una legislazione “emergenziale” senza fine. Si sono andate sviluppando le dinamiche tipiche del «populismo penale» che hanno prodotto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Uno sguardo rapido, a titolo di esempio, ai più recenti interventi può essere utile. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo, per la rapina e per l’estorsione. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici” e ha reintrodotto i reati di mendicità e blocco stradale. Sempre nel medesimo solco, sono le previsioni relative alla misura di prevenzione del Daspo Urbano, introdotto dal decreto c.d. Menniti D.L. n. 14/2017 e poi ampliato dal decreto Salvini, ovverosia esecutivi di differente colore realizzano la medesima politica. Nel 2022, sempre con decretazione d’urgenza, è stato introdotto l’art. 633 bis c.p. che punisce l’invasione di terreni o edifici in occasione dei rave party. Successivamente, a seguito della tragedia di Cutro, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023, c.d. decreto Cutro, che ha inasprito le pene per il reato di immigrazione clandestina e introdotto il delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da venti a trenta anni. È del mese di settembre l’emanazione del D.L. n. 123/2023, c.d. Decreto Caivano, che contiene norme finalizzate ad ampliare l’applicazione delle misure cautelari nei confronti dei minori. Infine, recentissimo è un comunicato stampa, n. 59, del Consiglio dei Ministri, nel quale si dà notizia dell’approvazione di tre disegni di legge che introdurranno, qualora diverranno legge, nuove norme in materia di sicurezza. Spicca la modifica della normativa relativa al differimento della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età, così da rendere tale rinvio facoltativo anziché obbligatorio, come è attualmente. Tale norma, pensata nei riguardi di alcune decine di donne di etnia ROM e dei bambini al seguito, rischia di confinare all’interno del mondo penitenziario le madri ed i loro neonati. Tra le altre novità, oltre ad aumenti di pena per varie fattispecie di reato, si segnala la creazione del reato di “rivolta in istituto penitenziario”, art. 415 bis c.p., che probabilmente realizzerà un’anticipazione della soglia punitiva, così da colpire anche condotte non concretamente offensive. La previsione normativa dimostra come il Legislatore non tenga in alcuna considerazione il fatto che, laddove vi sono state rivolte nelle carceri ciò è avvenuto per le condizioni di estrema sofferenza subite dalla popolazione detenuta e causate dal cronico problema del sovraffollamento carcerario valso allo Stato italiano alcune condanne dinanzi alla CEDU. In sostanza, la parola d’ordine della sicurezza pubblica ha soppiantato il modello penalistico di matrice illuministica costituzionalmente orientato. Ha prodotto la frantumazione del principio di proporzionalità della pena, ha rinforzato gli istituti, più fluidi, della prevenzione a detrimento della tipicità legale. Le categorie di “nemici” non sono più solamente i mafiosi e i terroristi, ma, a seconda delle circostanze, i rom, i rumeni, i migranti, i sex offenders, i giovani frequentatori di rave party, in generale tutti coloro che appartengono al mondo degli “esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei nuovi barbari”. Compare lo spettro del novecentesco diritto penale d’autore (Täterstrafrecht), in cui la colpevolizzazione, il giudizio e la pena non riguardano più ciò che si è fatto, ma solamente ciò che si è. La continua implementazione del sistema penale a garanzia della presunta sicurezza della comunità evidenzia una crisi di legittimazione dello Stato, che ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche. Lo Stato minimo nei contenuti sociali, diviene massimo nell’esercizio del potere punitivo.   (pubblicato il 30 novembre 2023 su Il Dubbio)

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IL PARADIGMA LIBERALE NEL DIRITTO PENALE POST MODERNO: UN REQUIEM EVITABILE?

Abbiamo trascorso due giorni straordinari per intensità e contenuti. Ciascun relatore ha apportato un contributo di idee e offerto stimoli di riflessione davvero molto alti. E il comune “sentire” sulla necessità di pubblicare gli atti del convegno rappresenta la migliore risposta circa la qualità raggiunta dall’evento. Ne sono molto felice, soprattutto perché di un tema così delicato e complesso, qual è la crisi del paradigma liberale, si è parlato in un distretto problematico come quello calabrese, davanti a una avvocatura penalista che si è fatta carico, politicamente, di affrontare le difficoltà della giurisdizione nel difficile equilibrio – spesso ‘saltato’ – tra le esigenze di difesa sociale e quelle di tutela delle libertà individuali. Un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile la riuscita dell’evento e a coloro – e sono stati tanti – che lo hanno impreziosito assicurandone la presenza. Un ringraziamento particolare e ‘speciale’ ai miei preziosi compagni di viaggio, il direttivo della Camera penale, ineguagliabile per generosità e impegno, e ai qualificati relatori che hanno dato, ciascuno da par suo, davvero il meglio di sè. Alla prossima. Il nostro è soltanto un arrivederci. Francesco Iacopino

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Ora basta!

Quando, mesi fa, le Camere Penali calabresi hanno denunciato per l’ennesima volta l’erroneo e smodato ricorso all’istituto della connessione tra procedimenti, la Magistratura associata e certa stampa consociata hanno reagito con la solita veemente levata di scudi.

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Viaggio della speranza: un focus sulle condizioni carcerarie italiane con nessuno tocchi Caino a Catanzaro

La Camera penale di Catanzaro accanto ai detenuti, con Nessuno Tocchi Caino, nel progetto “Viaggio della Speranza. Visitare i carcerati”. Riflettori ancora puntati sulle condizioni di vita dei detenuti ristretti nelle carceri italiane.

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