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Serafino Famà, l’avvocato perfetto

  di Antonio Ludovico Sono le storie come quella dell’Avvocato Serafino Famà che ci danno la forza e l’orgoglio di essere avvocati. Una storia fatta di regole o, meglio, di ossequioso rispetto per le regole, una storia di rigore, di puntigliosità, di valori veri. Nato a Misterbianco, provincia di Catania, nel 1938, l’avvocato Serafino Famà rappresentò plasticamente e idealmente la figura di colui che difendeva ma non concedeva favori, che si spendeva ma senza violare norme e regolamenti. E, soprattutto, Famà era un avvocato consapevole del ruolo che occupava, per di più in una terra che “vanta” una galassia criminale e sanguinaria con nomi che al solo pronunciarli vengono i brividi. Stiamo parlando della terra dei Santapaola, dei Pulvirenti, dei Laudani, delle consorterie da loro capeggiate che impongono le loro assurde regole a tutti i consociati e che avrebbero volute imporle anche ad un avvocato come Serafino Famà. Dimenticando che Famà era una persona di un rigore e di un’inflessibilità che andavano oltre “il dedotto e il deducibile”. In parole povere, Famà era ligio al dovere e al codice deontologico, anche a costo di perdere il bene più sacro, ossia la vita. Cosa che avvenne la sera del 9 novembre del 1995, alle ore 21 allorquando, all’angolo tra via Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca di Catania, un commando composto da quattro persone (Salvatore Catti e Salvatore Torrisi nella veste di esecutori materiali, mentre Alfio Giuffrida e Fulvio Amante erano i complici) gli esplose sei colpi di pistola cal. 7,65. Una esecuzione in puro stile mafioso, una esecuzione senza remissione di peccato, che non diede scampo al povero penalista. Alla base dell’omicidio dell’avvocato catanese, così come acclarato dalla sentenza della Corte di Assise del capoluogo etneo – che condannò i responsabili all’ergastolo – ci fu il gesto, giuridicamente ineccepibile, dell’avvocato Famà di non far deporre la coniuge – Stella Corrado – del suo allora assistito Matteo Di Mauro in favore di un pericoloso mafioso, Giuseppe Di Giacomo, ma di farle scegliere il silenzio, evitando alla donna una possibile imputazione per falsa testimonianza. Una storia talmente brutta che s’innesta tra il romanzesco e la tragedia, poiché si venne poi a sapere che il noto mafioso aveva una relazione proprio con Stella Corrado, moglie di suo cognato, nonché assistito dell’Avvocato Famà, Matteo Di Mauro. Il boss Di Giacomo non riuscì ad essere scarcerato proprio per il consiglio corretto che l’avvocato Famà diede alla donna. Da qui, l’ordine di fare fuori il penalista, diramato direttamente dal carcere di Firenze, dove il Di Giacomo era detenuto. Anni dopo, furono i giudici della Corte di Assise di Catania che fugarono il campo da ogni dubbio circa l’esemplare condotta del legale siciliano, condannando i responsabili di quell’orribile omicidio all’ergastolo e rimarcando il movente di quell’agguato in puro stile mafioso: “il corretto esercizio dell’attività professionale da parte dell’avvocato Famà”. Sarà forse pleonastico ricordare che quelli erano anni particolarmente complessi, dove anche gli avvocati avevano la consapevolezza che la mafia poteva colpire a più livelli, non soltanto tra loro e che anche un consiglio dato in piena regola poteva condurre alla morte, esattamente come una progressiva disintegrazione della normalità. Da aggiungere ancora che, dal dicembre di quello stesso anno, la Camera Penale di Catania prende il nome di Serafino Famà e che – nel 2011 – un bene confiscato alla mafia in provincia di Latina, venne intestato alla memoria del penalista siciliano, ma – particolare amarissimo – lo stesso fu fatto oggetto di atti intimidatori. Esiste, poi, ma è di difficile reperibilità un filmato – a cura di Flavia Famà e Simone Mercurio, che s’intitola “Tra due fuochi. Serafino Famà, storia di un avvocato” che ripercorre la vita di un uomo libero, che era orgoglioso di essere un avvocato vero, custode dei diritti affidatigli dalla Costituzione, fedele verso il cliente e altresì fedele nei confronti della legge. In buona sostanza, la sintesi dell’avvocato perfetto.

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Giorgio Ambrosoli, storia di un romanzo criminale

  di Antonio Ludovico   Esattamente come il più raffinato e imprevedibile romanzo criminale, la storia dell’Avvocato Giorgio Ambrosoli si staglia alta nel firmamento di quei servitori dello stato che non si piegarono mai alle logiche perverse e, purtroppo, pagarono con la vita la loro innata coerenza. Nato a Milano nel 1933, figlio di avvocato, Giorgio Ambrosoli era un uomo di una linearità e una rettitudine proverbiali; specializzato in diritto commerciale, si occupò sin da subito di reati fallimentari e di lui se ne accorse finanche la Banca d’Italia, con l’allora Governatore Guido Carli, che gli affidò l’incarico più delicato e spinoso, una di quelle gatte da pelare che, ahimè, gli costò la vita: quello di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Ma per comprendere bene gli scenari in cui si dimenava il giovane (all’epoca aveva solo 42 anni) avvocato milanese. Conviene avvolgere il nastro e raccontarla per bene questa storia che ha appassionato giallisti, criminologi, registi e perfino qualche pubblico ministero. Per intanto: chi era Michele Sindona? Che ruolo aveva con la finanza italiana e, soprattutto, con la politica nostrana? Siciliano di Patti, Messina, Michele Sindona era anch’egli un avvocato – ovviamente di tutt’altra pasta – che dopo la seconda guerra mondiale si specializzò in una materia poco conosciuta dalle sue parti, quella fiscale e, per tale ragione, si dovette trasferire a Milano. Nella capitale lombarda, il giovane fiscalista cominciò ad accattivarsi quella parte rilevante di borghesia meneghina facendo investimenti che ebbero successo immediato poiché riusciva a far risparmiare soldi pesanti ai suoi clienti. Non solo, ma lo scaltro siciliano era un perfetto conoscitore dei paradisi fiscali, come quello ubicato nella piccola regione del Lichtestein e da lì iniziò a rilevare società elettriche in cambio di pochi spiccioli, per poi passare al colosso della Bastogi (la più antica società italiana quotata in Borsa) ed infine a quote rilevanti di banche tedesche e americane. Insomma, un’escalation degna di un autentico mago della finanza, tant’è che di lui se ne accorse persino il governo italiano – nella persona del Presidente Andreotti – che, ben lungi dal considerarlo uno spregiudicato uomo d’affari ben inserito in ambienti malavitosi, lo definì addirittura “il salvatore della lira”. Naturalmente le cose non stavano come profetizzava il vecchio Presidente del Consiglio, ma dietro quell’apparente aura di imperturbabilità, si celava un’anima nera che riusciva a fare patti con chiunque gli assicurasse una stabilità economica. Che poi, a farci le spese fossero i poveri contribuenti italiani, poco importava all’uomo venuto dall’estremo sud. Ma, come spesso avviene, anche nelle favole più benevole, arriva sempre il momento in cui c’è da fare i conti con una realtà che prende le forme di un investimento sballato, quello sul dollaro, il quale – ad inizio degli anni settanta – ebbe un tracollo imprevisto e imprevedibile. Da qui, lo sgretolamento di un impero che aveva visto Sindona veleggiare alto anche lungo le coste americane e che costrinse lo stesso banchiere a chiedere prestiti a destra e a manca, al punto tale che dovette intervenire la Banca d’Italia per nominare un commissario liquidatore con pieni poteri per mettere ordine alla Banca Privata di proprietà dello stesso Sindona. Giorgio Ambrosoli – sia detto per inciso – prese quell’incarico con il massimo della responsabilità possibile e consapevole dei rischi cui andava incontro. Visse per cinque anni in una situazione di totale isolamento e rischio, tant’è che scrisse alla moglie una lettera nella quale manifestò tutte le sue drammatiche convinzioni: “pagherò a caro prezzo l’incarico. Lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto, anche perché per me è un’occasione unica per fare qualcosa per il Paese”. Parole che lette oggi, dove ideali di coerenza, libertà e responsabilità sembrano degli optional, risuonano strane e fuori contesto. Ma la corteccia di quel giovane avvocato era forte e resistente e – ad essere particolarmente precisi – non era completamente solo poiché al suo fianco aveva un altro grande servitore dello Stato, il maresciallo della Guardia di Finanza, Silvio Novembre, che lo aiutò a smascherare questa tela del ragno, una sorta di archivio segreto nel quale erano annotati i trucchi contabili, le operazioni speculative, le manovre poco chiare su cui si reggeva la Banca Privata Italiana. E Ambrosoli, intelligente e capace com’era, smascherò da subito il gioco sporco di Sindona, abile manipolatore che utilizzava i risparmiatori per accrescere soltanto la sua rete di rapporti, anche oltreoceano; non solo, ma quel Commissario Liquidatore si dimostrò un osso durissimo, spedendo al mittente vari tentativi di corruzione che si trasformarono poi in minacce di morte. “Se l’andava cercando” commenterà inopportunamente il solito Andreotti nel 2010, dando plasticamente l’idea di quanto rigore morale avesse quell’avvocato milanese. Avvertimenti e minacce che l’11 luglio del 1979 si concretizzarono in un agguato in piena regola, proprio sotto casa, quando un sicario americano mandato da Sindona gli esplose quattro colpi di pistola. Per la cronaca il killer di Giorgio Ambrosoli fu l’italo-americano William Joseph Aricò, noto come “Bill The Terminator” (con una paga di 50.000 dollari), perché da giovane vendeva, porta a porta, pillole al cianuro per la derattizzazione degli appartamenti, su espresso mandato di Michele Sindona. Tre giorni dopo, nella chiesa di San Vittore, a Milano naturalmente, non si vide incredibilmente nessuna personalità dello stato, nessun rappresentante del governo; le cronache ricordano solo lo sguardo attonito di Paolo Baffi, successore di Guido Carli alla Direzione della Banca d’Italia, travolto da un’inchiesta giudiziaria dalla quale uscirà completamente prosciolto, ma in odore di dimissioni, cosa che fece il mese successivo. E solo più tardi gli italiani scoprirono il letamaio che stava dietro quelle losche vicende, una sigla che i benpensanti cominciarono a conoscere come le loro tasche: la famigerata Loggia P2 di Roberto Calvi e Licio Gelli, oltre che pezzi significativi dello IOR dell’arcivescovo Paul Marcinkus e naturalmente la mafia siciliana, corleonese per la precisione. Per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli vennero poi condannati all’ergastolo Robert Venetucci (colui che chiamò Aricò per l’esecuzione) e Michele Sindona nella veste di mandante. Il banchiere siciliano fu rinchiuso

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Un avvocato, un martire

di Antonio Ludovico – Ci sono storie come quella dell’Avvocato Fulvio Croce che dovrebbero essere raccontate nelle scuole, lette e rilette alle giovani generazioni, ricordate a chi ha scarsa memoria. Perché quella dell’Avvocato Fulvio Croce è una storia che si stenta a credere, ricca com’è di fatti e circostanze che ci fanno calare mani e piedi in uno dei periodi più bui della nostra traballante democrazia. Siamo negli anni settanta, nelle maggiori città italiane imperversavano le Brigate Rosse, gli attentati alle personalità più disparate avevano cadenza quotidiana, le cronache impazzavano per la conta dei morti che insanguinavano un paese che sembrava sull’orlo di una capitolazione. Nel mezzo c’erano – particolare di non poco momento- processi da celebrare, imputati da sentire, sentenze da emettere. Così come quello che si aprì il 17 maggio del 1976 contro il nucleo storico delle Brigate Rosse presso la Corte di Assise di Torino. Imputati alla sbarra erano i componenti più celebri, nomi tristemente famigerati come Prospero Gallinari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Paolo Maurizio Ferrari e tanti altri, mentre il Presidente della Corte di Assise era il dott. Guido Barbaro. Roba per palati forti. Ebbene, alla prima udienza del processo- il 17 maggio 1976 – l’imputato Paolo Maurizio Ferrari, a nome di tutti i militanti, lesse un comunicato che stava a metà strada tra l’agghiacciante e il surreale: “ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e rifiutiamo ogni collaborazione con il potere”. Logica conseguenza di questa assurda presa di posizione fu la revoca di tutti i mandati difensivi agli avvocati con “l’invito” rivolto ai giudici di non essere disposti ad essere difesi da nessuno e “i difensori che accettavano la nomina erano ritenuti collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potevano derivare”. Una matassa complicatissima, un rebus indecifrabile per il solerte Presidente di una Corte che – udite, udite – aveva avuto enormi difficoltà a reperire sei giudici popolari (erano tutti affetti da “sindrome depressiva”), figuriamoci degli avvocati d’ufficio disposti a difendere sotto una evidente minaccia di morte. Fu necessario, a quel punto, ricorrere all’art 130 del codice di procedura penale che prevedeva la nomina, in casi analoghi, del Presidente del Consiglio dell’Ordine in sostituzione dei colleghi ricusati. E così si arrivò alla figura di Fulvio Croce, Presidente degli avvocati di Torino, ma poco avvezzo alle cause penali, poiché illustre civilista. Il quale, tuttavia, munito com’era di quella corazza inflessibile che solo il rispetto per la toga ti concede, accettò l’incarico, ben sapendo a cosa andava incontro. Della serie: il diritto prima della vita. Ma il commando delle Brigate Rosse non si fece attendere, poiché la sera del 28/6/1977 l’anziano Avvocato Fulvio Croce , mentre usciva dal suo studio di via Perrone, fu crivellato con cinque colpi di pistola alla nuca da un commando di quattro persone; tre uomini (Rocco Micaletto, il killer, Lorenzo Betassa, il palo, colui che gridò “Avvocato “, Raffaele Fiore colui che aspettava a bordo di una 500) ed una donna, Angela Vai, che si preoccupò di allontanare i collaboratori di Croce per non essere raggiunti dai colpi di pistola. Un’esecuzione terribile, un colpo al cuore dell’intera avvocatura italiana, una risposta secca e risoluta da parte di chi rifiutava pervicacemente di essere processato. La cronaca racconta che il processo comunque andò avanti, non in tribunale, ma presso una caserma e – dopo la rivendicazione da parte dello stesso Ferrari, il compagno Mao, del terribile omicidio, si concluse con delle pene neanche troppo alte (tra i dieci e i quindici anni e con ben quindici assoluzioni), mentre anni dopo gli esecutori materiali dell’omicidio, Rocco Micaletto e Angela Vai furono condannati all’ergastolo e Betassi morì in un conflitto a fuoco con la Polizia. Questa la storia, sia pure raccontata per sommi capi, di un autentico martire della toga, una figura che si staglia altissima nel panorama giudiziario italiano, un uomo che ha combattuto con le sole armi che possedeva, il rigore e l’amore per la toga, una battaglia difficilissima, in tempi difficilissimi, dove per fare onestamente il proprio lavoro non era affatto sufficiente essere preparati a dovere. Fulvio Croce, a mio avviso, dovrebbe essere ricordato come il Principe dell’Avvocatura italiana, quell’avvocatura che riesce a spezzarsi ma non si piega a logiche perverse, che ha come stella cometa solo il codice deontologico, che difende i diritti anche degli indifendibili, che non ha paura del pericolo derivante da una causa complessa. Una toga illibata come quella dell’Avvocato Fulvio Croce dovrebbe servire da monito per i più giovani, da esempio per chi si dibatte, lamentandosi continuamente, per i meandri di una professione difficile ma affascinante, dura ma appagante. E, mi si consenta, dovrebbe servire anche per quella parte della Magistratura che crede che il compito di un avvocato sia quello di essere “al servizio” del cliente, anche sconfinando in terreni troppo accidentati. È vero che – così come avviene in ogni categoria- ci sono avvocati che non recano dignità alla toga che indossano, ma è pur vero che ce ne sono migliaia e migliaia che silenziosamente e, con diversi ostacoli quotidiani da superare, svolgono onestamente il proprio lavoro, anche accontentandosi di ricevere delle briciole dai propri clienti. Avvocati che soffrono, che perdono e si rialzano, che sono costretti a fare inutili anticamere, avvocati cui addirittura viene tolto il diritto di parola. L’esempio di Croce, a mio avviso, deve spingere i più giovani ad essere orgogliosi e rispettosi per quel manto nero che li distingue e li innalza al di là di sciocchi pregiudizi, tipici di questi tempi troppo tristi. E che ci fa sentire fieri al grido “Avvocato”, ultima parola che udì il povero legale torinese prima di stramazzare al suolo. Per la cronaca, quello di Croce non fu il solo delitto connesso a quel maledetto processo, ma furono colpiti a morte anche il vice direttore della Stampa, Carlo Casalegno e gli investigatori Rosario Berardi, Antonio Esposito e Giuseppe Ciotta. In parole povere, un’autentica mattanza.

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Cui prodest? Di fronte alla tragedia della morte dobbiamo fermarci e recuperare il senso del limite

A chi giova? È quello che ci chiediamo, trascorsi pochi giorni dal tragico pomeriggio dell’Epifania, innanzitutto come semplici lettori. Come lettori, è vero, che si nutrono di informazione, ma non certo “affamati” di quella cronaca (non tutta, per fortuna) che trascende, che cede alla tentazione di alimentare l’opinione pubblica somministrando notizie ‘inopportune’, che nulla hanno a che fare con la notizia in sé, in questo caso, un’autentica tragedia consumatasi ancora una volta sulla SS 106, sì la famigerata “strada della morte”. A chi giova, a chi può interessare, a poche ore da un dramma che ha distrutto quattro famiglie, se i ragazzi che viaggiavano nella Panda, in direzione Catanzaro-Soverato, erano o meno reduci da una visita in carcere? A chi giova la dovizia di particolari sulla genealogia di famiglia? Quattro giovani hanno perso la vita su una strada maledetta, una tragedia che testimonia la forza dell’indifferenza anche di fronte al valore della vita. L’ennesimo tributo di sangue che non troverà consolazione alcuna. È forse utile alla giusta causa (quella di rendere più sicura questa strada) documentare i rapporti di parentela, i dati biografici? È veramente importante, al cospetto della morte, il richiamo ai legami familiari che ciascuno di noi porta in dote? Questi dettagli debbono ritenersi necessari per l’esercizio del diritto di cronaca su un episodio così tragico? Conoscere i nomi e le parentele delle vite spezzate può cambiare la prospettiva sull’accaduto o, piuttosto, si riduce in un eccesso di informazione ‘inopportuno’, decentrato, proprio perché orientato semplicemente a soddisfare eventuali curiosità morbose di chi legge e, quindi, ad alimentare la soglia degli utenti? Non è in discussione, sia chiaro, il piano deontologico, che non compete a noi. Del pari, ben conosciamo il fondamentale ruolo dell’Informazione ed il delicato e difficile compito dei giornalisti chiamati a divulgare le notizie di cronaca. Eppure abbiamo avvertito (non solo noi), in queste ore, un richiamo della coscienza, che ci impone di sollevare un doveroso problema di opportunità. Di fronte alla morte così tragica e dolorosa, a giovani vite spezzate in modo violento e drammatico, dovremmo avvertire il bisogno di fermarci e recuperare il senso del limite, un’ecologia dell’informazione che renda consapevoli dei diritti fondamentali della persona, di ogni persona, tutti meritevoli di essere salvaguardati. Ispirarci a criteri di correttezza, continenza e pertinenza delle notizie date, senza trascendere in eccessi bulimici che si scontrano con il buon senso, prima ancora che con altri diritti parimenti meritevoli di tutela. Sono considerazioni, punti di vista, che desiriamo offrire alla ragione pubblica e alla riflessione collettiva. Il dato certo da portare in emersione nella triste vicenda consumatasi nel giorno dell’Epifania era uno solo: questi quattro giovani, figli della nostra terra e della nostra storia, non dovevano lasciare su quel manto stradale le loro speranze e i loro sogni. Camera penale “Alfredo Cantàfora” Il Consiglio Direttivo Rassegna stampa: https://shorturl.at/ijrIT https://shorturl.at/BEV56

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Nelle repliche inviate alla Corte Europea l’Avvocatura dello Stato sostiene che la confisca dei beni a un innocente non costituisce pena……

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo Che cos’è la confisca di prevenzione? A giudicare dal nome e dalla sua collocazione normativa, verrebbe naturale rispondere che si tratta di una misura di prevenzione. Ma la prevenzione è, storicamente, destinata ad operare nel futuro del soggetto inciso, così da evitare che egli reiteri le proprie manifestazioni di pericolosità sociale. Ma se quel soggetto non è più pericoloso, se non si può pronosticare la sua prossima trasgressione alle Leggi, se è stato assolto nei procedimenti penali che lo hanno visto imputato o se, nel frattempo, è passato a miglior vita, la confisca di prevenzione non dovrebbe essere disposta. Eppure lo è… Legittimo, quindi, che la Corte Europea, nell’ormai ben noto caso Cavallotti/Italia, rivolga al nostro Governo la domanda con la quale abbiamo aperto questo scritto, ma declinata in modo più diretto e suggestivo: non sarà, la confisca di prevenzione, una pena, visto che da tale categoria mutua la propria funzione ed i propri effetti? Se fosse una pena, dovrebbe essere soggetta al principio di legalità (e, quindi, ai corollari di tassatività, determinatezza, irretroattività, riserva di legge, riserva di giurisdizione), che la prevenzione nazionale non rispetta. Garanzie che il Governo non intende riconoscere, perché verrebbe meno il principale strumento di coercizione di libertà individuali altrimenti incoercibili. Ecco allora che inizia il “gioco delle parole”, con il lessico finalizzato ad eludere le risposte che la CEDU richiede. Rifacendosi alla giurisprudenza nazionale, il Governo, attenzione, non si limita ad escludere che la confisca di prevenzione sia una pena, ma giunge perfino a concludere che essa non sia neanche una misura di prevenzione “in senso stretto”, definizione che calzerebbe solo al sequestro di cui all’art. 20 del Testo Unico Antimafia. Nonostante il Legislatore l’abbia espressamente inserita tra le misure di prevenzione patrimoniali e nonostante la confisca sia destinata a stabilizzare, confermandolo, gli effetti del sequestro (che è una misura cautelare di prevenzione destinata a perdere efficacia al decorrere del termine previsto dall’art. 24 del Codice), secondo i nostri rappresentanti la prima non è prevenzione ed il secondo si. Ragionamento che potrebbe anche essere convincente, se alla confisca si attribuisse natura di pena, rispetto ad un provvedimento provvisorio che potrebbe essere di prevenzione. Invece, il “trasformismo semantico” è solo all’inizio: la confisca, secondo il Governo (che cita precedenti di legittimità), è una sanzione amministrativa a contenuto ablatorio/ripristinatorio e, per questo motivo, assoggettate alla disciplina delle misure di sicurezza quanto a divieto di irretroattività e destinate a colpire, senza prognosi di pericolosità, i patrimoni di sospetta accumulazione illecita. Dimentica, l’Avvocatura Generale che la confisca di prevenzione è stata introdotta dalla Legge Rognoni-La Torre (L 646/82) come sanzione penale – tanto che, fino alla modifica del 1990 che abrogò l’art. 24 della Legge, poteva essere irrogata dal giudice penale, all’interno del procedimento penale con equiparazione tra la sentenza ed il decreto di confisca – per come emerge dai lavori preparatori nei quali si parla espressamente di “duplicazione” delle pene nei confronti degli appartenenti alla mafia. Dimentica, ancora, che, per superare i dubbi di costituzionalità, che emergevano già dalle relazioni parlamentari alla Legge del 1982 (nelle quali si dichiara di “accettare il rischio di incostituzionalità”, data la applicazione territorialmente limitata alla Sicilia della Legge), la Corte Costituzionale, con ripetute pronunce ha escluso che il fine della confisca di prevenzione fosse quello di colpire beni di origine illecita in quanto tali, ma piuttosto impedire che la persona pericolosa ne potesse disporre per commettere reati (ordinanza 177/88, sentenza 335/96, sentenza 21/2012). Dimentica, pure, che la Corte di Cassazione, con la sentenza Occhipinti (10044/12), a seguito della introduzione della confisca disgiunta, aveva riconosciuto natura oggettivamente sanzionatoria alla ablazione di prevenzione, poiché ormai anche formalmente sganciata dal requisito della attuale pericolosità sociale del proposto. Il Governo ricorda, invece, che, in altra occasione, la Suprema Corte (sentenza Ferrara, 24272/13) l’aveva definita una misura di sicurezza, obliterando, da parte sua, che tale equiparazione dovrebbe condurre a riconoscere le medesime basi applicative, cioè una sentenza di condanna o, in caso di proscioglimento, l’accertamento sostanziale del fatto secondo gli standard probatori e valutativi del giusto processo. Quanti nomi per definire un solo istituto: pena, misura di prevenzione, misura di sicurezza, sanzione amministrativa. Tra tutti, l’Avvocatura ha scelto di sostenere quello che, a suo avviso, consentirà alla prevenzione di sopravvivere al ricorso, sfuggendo ai “contra” che ogni altra definizione reca con sé. E propone un parallelo tra la confisca di prevenzione e la confisca urbanistica, citando il caso GIEM/Italia, deciso dalla Corte EDU. Non si avvede, tuttavia, che mentre la giurisprudenza nazionale considera la confisca urbanistica come una sanzione amministrativa a carattere ripristinatorio, quella europea, proprio nel caso citato (così come nelle due sentenze Sud Fondi/Italia), la ritiene pena! Come nel gioco dell’oca, il governo cerca di salvare la prevenzione ma ha tirato male i dadi, finendo nella casella sbagliata e tornando al punto di partenza. Come non pensare  al soldato di Samarcanda che pensa di scappare dal proprio destino e che, invece, gli corre incontro… (pubblicata su Il Dubbio – 6 gennaio 2024)

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Ma è possibile considerare le vittime della mafia un pericolo per la collettività, com’è successo ai Cavallotti?

  Di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo   La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con i quesiti posti al governo italiano, dimostra le perplessità nei confronti del  nostro sistema di prevenzione. I giudici europei pongono richieste precise che avrebbero meritato  risposte altrettanto precise. Ma, non potendo fornirle, il governo è costretto a rischiosissime spigolature che denotano spiccate tendenze solipsistiche ed una certa predisposizione al masochismo. C’è un quesito, in particolare, che mette l’Italia con le spalle al muro: come è possibile che, nel nostro Paese, si possano confiscare i beni di chi è stato assolto? Già. Come è possibile? Siamo ai limiti della domanda retorica, tanto la risposta dovrebbe essere scontata: “non è possibile, scusateci”. Ma non per i nostri rappresentanti, che provano a rispondere mediante il consueto armamentario retorico, dialettico e lessicale, facendo leva su due cardini in particolare. L’autonomia e la differenza funzionale tra il procedimento penale e quello di prevenzione. Le sentenze assolutorie, dunque, non rappresenterebbero un ostacolo alla adozione di misure prevenzionali (né, in ciò, la parte pubblica vede la negazione della presunzione di innocenza), dal momento che il procedimento di prevenzione non si fonda sulle prove contenute nel fascicolo penale, né è destinato a concludersi con un accertamento di colpevolezza, quanto di mera pericolosità. La prima affermazione è una bugia sesquipedale (e noi non possiamo più accettare le bugie dette sulla pelle delle persone); sulla seconda bisogna intendersi. Anche il Governo sa che, in Europa, la presunzione di innocenza ha una latitudine diversa, rispetto alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 della Costituzione. L’art. 6 della Convenzione EDU, infatti, tutela anche la “percezione pubblica” dell’individuo, cioè la sua sfera reputazionale, assicurando che, anche al di fuori o dopo la chiusura del procedimento penale, in assenza di un formale accertamento di colpevolezza, egli non possa essere ritenuto colpevole di un qualche crimine. Così che, una volta che l’individuo sia stato assolto, non è possibile una rivalutazione dei fatti oggetto del procedimento penale, pur se in sede diversa, perché ciò determinerebbe una violazione della sentenza di assoluzione incompatibile con le garanzie del giusto processo. Numerose sono, sul punto, le precedenti pronunce europee. A fronte di tale aporia, l’Italia obietta che l’autonomia tra procedimenti assicura che quello di prevenzione non si basi sugli stessi fatti o sulle stesse prove di quello penale. La verità, che ci ostiniamo a nascondere all’Europa, è invece esattamente il contrario. Quello di prevenzione, nell’assoluta maggioranza (prossima alla totalità) dei casi prende origine da un procedimento penale, con il quale condivide la base probatoria. Nel senso che il fascicolo delle indagini preliminari diventa, nella sostanza, il fascicolo del Tribunale di prevenzione. Sostenere il contrario non è serio. Sostenerlo nel caso Cavallotti, nel quale i decreti di confisca sono espressamente motivati con l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali, è semplicemente uno spergiuro. Sostenerlo dopo l’introduzione dell’art. 578-ter del codice di rito penale, che prevede espressamente l’ambulatorietà dell’azione pubblica dal processo penale a quello di prevenzione (e, quindi, sancisce per Legge che i due procedimenti sono interconnessi tra loro), è da doppelganger: il Governo si è inconsapevolmente sdoppiato, proiettando in Europa una differente – e più malvagia – versione di sé. All’Europa, spieghiamo magari anche “dove va” la prevenzione, non solo “da dove viene”. Sull’autonomia, intesa come l’intende la giurisprudenza convenzionale, non c’è davvero altro da dire. Sulla diversità di funzione, invece, si. Formalmente, infatti, le misure di prevenzione patrimoniale da pericolosità “qualificata” (nel caso dei Cavallotti, viene in rilievo una presunta contiguità mafiosa) hanno natura praeter delictum, cioè al di là della commissione (e, quindi, dell’accertamento) di un fatto costituente reato. Il Tribunale, infatti, deve rendere un giudizio di pericolosità e non di colpevolezza. Questo prevede il Testo Unico antimafia che, se la Corte Edu dovesse qualificare la confisca come sanzione penale, non sarebbe parte più conforme a Costituzione. Il problema, in questo caso, è tuttavia di merito. Il governo, tramite l’avvocatura, cerca di tracciare un impalpabile confine tra i concetti di partecipazione (rilevante nel processo penale) ed appartenenza (rilevante nel procedimento di prevenzione) mafiosa, così come tra quelli di “contiguità” e “soggiacenza”. Immaginiamo quale possa essere lo stupore dei Giudici europei a recepire questi distinguo, frutto di una semantica costituita da vocaboli pensati con il solo fine di spiazzare chi legge le risposte del governo e, soprattutto, usati per “non farsi intendere”. Ma, nelle risposte ai quesiti posti dalla Corte EDU. Il Governo omette di riferire la circostanza più importante: all’esito dei vari gradi del procedimento penale, i Cavallotti sono stati ritenuti VITTIME della mafia. Possono allora, le vittime della mafia essere considerate pericolose per la collettività e, in quanto tali, diventare vittime anche dello Stato? Copyright (c)2024 Il Dubbio, Edition Il Dubbio

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IL MONITO DELLA CONSULTA

  di Francesco Iacopino   Abuso di ufficio e abusi interpretativi della Magistratura Uno dei giudizi più autorevoli, insospettabili e severi verso la costante forzatura interpretativa della magistratura italiana in tema di abuso in atti d’ufficio lo ha dato la Corte Costituzionale (sent. n. 8/2022). Nel legittimare la costituzionalità dell’ultima, restrittiva riforma del 2020, la Corte così si esprime: << l’intervento normativo oggi in discussione riflett(e) due convinzioni, […] entrambe diffuse: a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione. […] l’esigenza di contrastare tali fenomeni, incidendo sulle relative cause […] non nasce con l’emergenza epidemiologica, ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere>>. Il ragionamento della Consulta è chiarissimo. L’abuso d’ufficio è norma “di chiusura” del sistema dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa. Una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo della gestione della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante. Per garantire un punto di equilibrio, il legislatore ha più volte inutilmente tentato, negli ultimi 30 anni, di fissare limiti alle incursioni della magistratura penale sulle scelte dei pubblici funzionari. Ma la giurisprudenza ha sistematicamente travalicato i rigidi paletti normativi, vanificando ogni iniziativa di riforma e riaprendo ampi scenari di controllo sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Tutto ciò, oltre ad alterare gli equilibri nella divisione dei poteri dello Stato, ha dato l’abbrivio al fenomeno della “burocrazia difensiva” e alla c.d. “paura della firma”. Ecco perché, di fronte alla trentennale ostinazione della magistratura di autoassegnarsi, anche a seguito della riforma del 2020, attraverso la figura “abusata” dell’abuso d’ufficio, un potere di controllo “no limits”, onnivoro, sull’operato dei pubblici funzionari e più in generale sulla politica, l’abrogazione dell’art. 323 c.p. appare oggi il “male minore” per recuperare una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente. Non spaventi l’eventuale abolitio criminis. La mala gestio del pubblico funzionario, nei casi più gravi, sarà sempre regolata dalla leva penale ricorrendo ad altre specifiche fattispecie di reato, mentre nelle ipotesi residuali competerà al giudice “naturale”, quello amministrativo, lo scrutinio dei profili di (il)legittimità dell’atto. Del pari, il pubblico funzionario dovrà rispondere al giudice erariale, con il proprio patrimonio, ogni qual volta sarà accertata una sua condotta infedele e dannosa per l’amministrazione. A margine della soluzione radicale proposta, urge comunque risolvere il “cuore” del problema, vale a dire il rispetto del “limite” da parte di chi, ai “limiti del potere”, fino ad oggi ha opposto strenuamente un “potere senza limiti”. (pubblicato su “PQM-Il Riformista”, il 30 dicembre 2023)

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Dall’emarginazione all’inclusione anche grazie alla bontà dei panettoni prodotti dai detenuti

La Camera penale ha deciso di sostenere il progetto avviato dalla società cooperativa “Mani in Libertà”, con la partnership della  Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro, del locale Ufficio Esecuzione Penale Esterna, di Promidea e delle associazioni Liberamente ed Amici con il cuore che hanno aderito a  un bando indetto da Fondazione con il Sud, teso alla formazione  professionale e all’assunzione dei detenuti. Tutto nasce da un sogno. Quello di un detenuto in regime di alta sorveglianza nel carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro, con le mani, la mente e il cuore votati per la pasticceria. Gli bastavano un fornellino ed una padella per realizzare dolci straordinari. Nel 2019 arriva la svolta. Un bando di Fondazione Con il Sud, che sembra proprio “cucito” addosso al sogno di questo detenuto  e di altri detenuti raggiunti dal suo entusiasmo: così la direzione della Casa Circondariale decide di coinvolgere l’impresa sociale “Promidea” e l’associazione “Amici con il Cuore”, operativa da anni all’interno del carcere con i laboratori di arte e di riciclo, nella realizzazione di un progetto che prevede l’apertura di una vera e propria pasticceria. Si aggiungono come partner l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna e l’associazione “Liberamente”, mentre la Regione Calabria sostiene assieme a Fondazione Con il Sud i corsi di formazione in pasticceria e panificazione per un totale di 600 ore. Ma ci pensa la pandemia a fermare tutto. Il progetto continua. Ed i corsisti diventano tirocinanti La proroga del bando di Fondazione Con il Sud permette di ripartire con il progetto, e di iniziare, nell’aprile del 2021, le prime lezioni di teoria in modalità online. Gli otto detenuti corsisti, dopo aver superato le prove finali nel dicembre 2021, conquistano così l’agognato attestato spendibile su tutto il territorio nazionale e possono cominciare a mettere “le mani in pasta” come tirocinanti. Nel frattempo, grazie al sostegno di Fondazione Con il Sud, e al Provveditorato si lavora alacremente per la ristrutturazione del locale all’interno del carcere da adibire a laboratorio di pasticceria. Il giorno dell’inaugurazione, il 23 febbraio 2023, è una festa per tutti: per la direttrice del carcere, Patrizia Delfino, e tutta la popolazione carceraria; per Antonietta Mannarino, presidente dell’associazione “Amici con il Cuore” capofila del progetto e i vari partner; per i docenti del corso, ma soprattutto per i detenuti che vedono concretizzarsi le loro speranze di riscatto. La cooperativa “Mani in Libertà” per un futuro lavorativo possibile Dal giorno dell’inaugurazione, gli aspiranti pasticceri non hanno mai smesso di sperimentare, inventare e utilizzare in tutti i modi possibili le attrezzature, che arredano il nuovo laboratorio all’interno del carcere, per realizzare torte, semifreddi, gelati, brioche e biscotti su richiesta. Le ordinazioni da parte delle famiglie dei detenuti, ma anche degli agenti di polizia penitenziaria, degli educatori e di quanti lavorano all’interno della struttura, non si fanno attendere, e diventano sempre più numerose man mano che i pasticceri rivelano le loro incredibili doti creative e manuali. Sotto la supervisione della presidente Antonietta Mannarino, si cimentano anche nella realizzazione di dolci tipici calabresi, come la “pitta ‘nchiusa”, e nella rivisitazione del “bigiotto”, il biscotto energetico del camminatore a base di miele, fiori di lavanda ed essenza di mandarino, da distribuire ai pellegrini che ogni estate attraversano in lungo e in largo i boschi e i sentieri, alla scoperta dei luoghi storici e dei paesaggi mozzafiato della regione. Una volta concluso il progetto, per i detenuti si aprono le porte della cooperativa, dal nome benaugurante “Mani in Libertà”, appositamente fondata per far giungere i loro prodotti dolciari al di là delle mura carcerarie e per farli diventare protagonisti del proprio riscatto sociale. Il progetto si conclude, ma la cooperativa continuerà a dare seguito al loro impegno A dicembre il progetto “Dolce Lavoro” si avvia alla sua naturale conclusione, ma intanto l’attività nella pasticceria prosegue senza sosta con la produzione di panettoni artigianali di altissima qualità, in attesa di poter attivare la piattaforma online per effettuare le ordinazioni. La cooperativa, infatti, continuerà sul solco già tracciato dal progetto sostenuto da Fondazione Con il Sud, potendo contare sull’apporto incondizionato dell’istituto di pena e dell’ampia rete di enti e associazioni che sin da subito ha creduto nella bontà dell’idea progettuale. Un progetto forse non originale – non è il primo in Italia – ma che è il primo in Calabria e probabilmente l’unico a livello nazionale ad avere come destinatari detenuti di alta sicurezza e condannati “a fine pena mai”.  Per loro, forse, un futuro di libertà non sarà possibile, ma nulla potrà impedirgli di impegnarsi ogni giorno per qualcosa di utile ed appagante, che li gratifica dal punto di vista economico, ma soprattutto umano.                                                                                                                    Benedetta Garofalo Addetta stampa progetto “Dolce Lavoro” Rassegna Stampa: https://rb.gy/xf16r2 https://rb.gy/9bzx6q https://rb.gy/csjgtf https://rb.gy/cgs8ei

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Riqualificazione giuridica del fatto. Utilizzabilità delle intercettazioni.

  Massima a cura dell’avv. Stefania Mantelli del Foro di Catanzaro Contestazione nuovi reati a seguito degli esiti del compendio intercettivo. Assenza di connessione ex art. 12 c.p.p., anche sotto il profilo dell’art. 81 cpv c.p. e mancata inclusione nel novero dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. o soggetti all’arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380 c.p.p. Inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni di conversazioni. Acquisibilità delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni come corpo del reato. Esclusione laddove costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o mera prova di un frammento del reato. (ordinanza del 23 gennaio 2023 Tribunale di Catanzaro, in composizione monocratica). In tema di intercettazioni, stante il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui l’utilizzabilità delle intercettazioni per un reato diverso, connesso con quello per il quale l’autorizzazione sia stata concessa, è subordinata alla condizione che il nuovo reato rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p., non si applica ai casi in cui lo stesso fatto-reato per il quale l’autorizzazione è stata concessa sia diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni,  poiché in tale evenienza non vi è elusione del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. attesa l’intervenuta legittima autorizzazione dell’intercettazione e la modifica dell’addebito unicamente per sopravvenuti fisiologici motivi. Incontra, invece, la sanzione dell’inutilizzabilità, l’ipotesi in cui, all’esito delle intercettazioni legittimamente disposte, la Procura valuti di contestare nuovi reati, privi di qualsivoglia connessione ex art. 12 c.p.p. con il delitto in relazione al quale l’autorizzazione alle intercettazioni di conversazioni telefoniche era stata originariamente disposta, i quali neanche rientrino nei delitti per i quali è consentita l’intercettazione di conversazioni ai sensi dell’art. 266 c.p.p. o l’arresto obbligatorio in flagranza ai sensi dell’art. 380 c.p.p. Nel caso di specie, il Tribunale non ha riscontrato alcuna connessione neanche sotto il profilo del vincolo della continuazione ex art. 81 cpv c.p., in considerazione dell’evidente autonomia sussistente fra le incriminazioni, che non consente di desumere alcuna primitiva rappresentazione, nemmeno ipotetica ed eventuale, dei singoli fatti di reato. Trattasi, all’evidenza, di fatti storici del tutto autonomi ed eterogenei sotto il profilo della condotta, dei motivi a delinquere, rispetto ai quali non può, dunque, rinvenirsi alcun elemento sintomatico di collegamento psicologico. In tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato solo allorché essa integri ed esaurisca la condotta criminosa, nei casi in cui questa possa perfezionarsi anche con la sola interlocuzione oggetto di registrazione, mentre deve escludersi la natura di corpo del reato dell’intercettazione che costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o prova di un frammento del reato, portato a compimento con condotte ulteriori, rispetto alle quali la comunicazione assuma mero carattere descrittivo (Nel caso di specie le conversazioni costituivano solo prova di un frammento del reato, atteso che per potersi integrare la fattispecie di falso in atto pubblico è necessaria, quanto meno, la compilazione materiale del certificato medico contenente la diagnosi assunta come non veritiera).

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Il senso (smarrito) della giustizia

  Il Dott. Davigo ha rilasciato qualche giorno or sono una intervista a Fedez per sostenere, tra le altre cose, a proposito del fenomeno dei suicidi in carcere, che “prima di tutto, il fatto che uno decida di suicidarsi, lo perdi come possibile fonte di informazione” e, poi, che “le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono”. La reazione immediata è stata di “disorientamento” e “incredulità” (non è possibile che lo abbia detto veramente!). A mente ferma, invece, si impongono alcune riflessioni. Proviamo a svilupparne tre. La prima, è che il pensiero del Dott. Davigo – diffuso non solo nell’opinione pubblica, ma ahinoi,  anche tra gli addetti ai lavori – dovrebbe essere indicato a motivo paradigmatico della necessaria separazione delle carriere dei Magistrati. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica che, conclusa l’esperienza di “Mani pulite”, il nostro è stato dapprima consigliere presso la Corte d’appello di Milano e, in seguito, consigliere presso la Corte di Cassazione, divenendo infine presidente della Seconda Sezione penale. Davigo, quindi, ha esercitato funzioni giudicanti per oltre venti anni, dovendo essere per disposizione costituzionale “terzo ed imparziale”, oltre che permeato dalla presunzione di innocenza. Ora, chiunque affermi che un “assolto è solo un colpevole che l’ha fatta franca” o che in carcere ci sta solo chi ha commesso un delitto non può essere considerato imparziale, né consapevole della presunzione di innocenza. Quindi, i due decenni abbondanti trascorsi dall’altra parte del “banco” non sono riusciti, evidentemente, ad emendarlo da quel portato di “partigianeria”, che è connaturato all’esercizio delle funzioni di  Pubblico Ministero, parte del processo. E questo consente di apprezzare la mai abbastanza esplicitata natura “culturale” (accanto a quella normativa e politica) della richiesta di separazione delle carriere. Si dice, ad opera di chi non condivide questa svolta, che l’esercizio di funzioni giudicanti farebbe del futuro PM un magistrato meno condizionato dal ruolo accusatorio. Ciò sarebbe vero se, negli ultimi 30 anni, si fosse registrato un equilibrio nella giurisdizione, mantenendo ferma la “centralità” del Giudice, rispetto a quella del Pubblico Ministero. La verità è altra, ed è sotto gli occhi di tutti, come dimostra lo sbilanciamento emotivo (non solo sociale e mediatico) sulle tesi d’accusa. La seconda considerazione è dettata dalla indifferenza dimostrata da chi ha esercitato la “terribilità del potere”, coma la chiamava Leonardo Sciascia, rispetto alla quota di umano dolore che ogni vicenda giudiziaria porta con sé. Presso gli antichi greci, e tanti esempi ce ne offre la tragedia classica, la hybris era la pretesa dell’uomo di esercitare il proprio potere contro l’ordine costituito, umano o divino che fosse. Chi parla di suicidi o di errori giudiziari come di fenomeni fisiologici e non, come essi sono, della più grave patologia che il sistema giustizia possa subire, assomiglia a Creonte che nega sepoltura a Polinice, vittima e carnefice del fratello Eteocle. Dimentico, evidentemente, di quanto sia carico di umanità il volto della giustizia disegnato dai nostri padri costituenti! La dissaldatura da quel modello, quando lo capiremo sarà troppo tardi, è una autentica tragedia per la nostra democrazia. Lo spiega molto bene un altro P.M. di quel pool, Gherardo Colombo, che già 15 anni fa nel suo libro “il perdono responsabile” scriveva: “quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero per qualche giorno in carcere come detenuti. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile; ma poi ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne sto davvero esercitando giustizia?”. La terza riflessione riguarda la missione, del tutto “controintuitiva”, di associazioni come Antigone o Nessuno Tocchi Caino. Quei don Chisciotte che credono davvero che anche il colpevole sia un uomo come noi, con gli stessi diritti, gli stessi bisogni, le stesse aspirazioni. E che nelle carceri ci sia bisogno di umanità, dignità, comprensione, socialità, uniche vie di riscatto. E che dedicano la vita alla tutela di chi non ha più voce, perché una voce, dal carcere, non può uscire da sola. Insomma, il contrario dell’indifferenza mostrata davanti alla morte suicida o all’innocente detenuto (“e sono tanti, e sono troppi”, diceva Enzo Tortora). Già, i suicidi. Una ferita aperta del nostro sistema carcerario e, con esso, della nostra civiltà del diritto, che non riesce a suturarsi. Negli anni di Tangentopoli, molti detenuti si ribellarono alla “carcerazione ingiusta”, alla quale non seppero reagire in modo diverso (“quando la parola è flebile, non resta che il gesto”, scriveva Sergio Moroni). Oggi, i numeri sono ancora più insopportabili, non solo tra i detenuti (circa 100 all’anno!), ma anche tra gli agenti di polizia penitenziaria. Un mondo di sofferenza che un grande cantautore e poeta ha saputo accarezzare con delicatezza, col suo senso di giustizia mai scollegato da quello di umanità, tanto era profondo, in lui, il rispetto delle leggi di natura. Tra le sue canzoni, su tutte, viene in mente “Preghiera in gennaio”, dedicata a Luigi Tenco. “Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia Se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”.  “Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte, ai suicidi dirà baciandoli alla fronte: venite in Paradiso. Là dove vado anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. Il Consiglio Direttivo

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