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Il panpenalismo riduce al minimo lo Stato sociale

In nome della sicurezza sono aumentate le categorie dei “nemici” da punire di Alberto Scerbo (ordinario Filosofia del diritto presso Università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro) e Orlando Sapia (segretario Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro)   Negli ultimi decenni si è realizzato un’accentuazione delle istanze repressive all’insegna di una legislazione “emergenziale” senza fine. Si sono andate sviluppando le dinamiche tipiche del «populismo penale» che hanno prodotto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Uno sguardo rapido, a titolo di esempio, ai più recenti interventi può essere utile. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo, per la rapina e per l’estorsione. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici” e ha reintrodotto i reati di mendicità e blocco stradale. Sempre nel medesimo solco, sono le previsioni relative alla misura di prevenzione del Daspo Urbano, introdotto dal decreto c.d. Menniti D.L. n. 14/2017 e poi ampliato dal decreto Salvini, ovverosia esecutivi di differente colore realizzano la medesima politica. Nel 2022, sempre con decretazione d’urgenza, è stato introdotto l’art. 633 bis c.p. che punisce l’invasione di terreni o edifici in occasione dei rave party. Successivamente, a seguito della tragedia di Cutro, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023, c.d. decreto Cutro, che ha inasprito le pene per il reato di immigrazione clandestina e introdotto il delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina”, punito con la reclusione da venti a trenta anni. È del mese di settembre l’emanazione del D.L. n. 123/2023, c.d. Decreto Caivano, che contiene norme finalizzate ad ampliare l’applicazione delle misure cautelari nei confronti dei minori. Infine, recentissimo è un comunicato stampa, n. 59, del Consiglio dei Ministri, nel quale si dà notizia dell’approvazione di tre disegni di legge che introdurranno, qualora diverranno legge, nuove norme in materia di sicurezza. Spicca la modifica della normativa relativa al differimento della pena per donne incinte e madri di bambini fino a un anno di età, così da rendere tale rinvio facoltativo anziché obbligatorio, come è attualmente. Tale norma, pensata nei riguardi di alcune decine di donne di etnia ROM e dei bambini al seguito, rischia di confinare all’interno del mondo penitenziario le madri ed i loro neonati. Tra le altre novità, oltre ad aumenti di pena per varie fattispecie di reato, si segnala la creazione del reato di “rivolta in istituto penitenziario”, art. 415 bis c.p., che probabilmente realizzerà un’anticipazione della soglia punitiva, così da colpire anche condotte non concretamente offensive. La previsione normativa dimostra come il Legislatore non tenga in alcuna considerazione il fatto che, laddove vi sono state rivolte nelle carceri ciò è avvenuto per le condizioni di estrema sofferenza subite dalla popolazione detenuta e causate dal cronico problema del sovraffollamento carcerario valso allo Stato italiano alcune condanne dinanzi alla CEDU. In sostanza, la parola d’ordine della sicurezza pubblica ha soppiantato il modello penalistico di matrice illuministica costituzionalmente orientato. Ha prodotto la frantumazione del principio di proporzionalità della pena, ha rinforzato gli istituti, più fluidi, della prevenzione a detrimento della tipicità legale. Le categorie di “nemici” non sono più solamente i mafiosi e i terroristi, ma, a seconda delle circostanze, i rom, i rumeni, i migranti, i sex offenders, i giovani frequentatori di rave party, in generale tutti coloro che appartengono al mondo degli “esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei nuovi barbari”. Compare lo spettro del novecentesco diritto penale d’autore (Täterstrafrecht), in cui la colpevolizzazione, il giudizio e la pena non riguardano più ciò che si è fatto, ma solamente ciò che si è. La continua implementazione del sistema penale a garanzia della presunta sicurezza della comunità evidenzia una crisi di legittimazione dello Stato, che ha rinunciato alle sue funzioni sociali ed economiche. Lo Stato minimo nei contenuti sociali, diviene massimo nell’esercizio del potere punitivo.   (pubblicato il 30 novembre 2023 su Il Dubbio)

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IL PARADIGMA LIBERALE NEL DIRITTO PENALE POST MODERNO: UN REQUIEM EVITABILE?

Abbiamo trascorso due giorni straordinari per intensità e contenuti. Ciascun relatore ha apportato un contributo di idee e offerto stimoli di riflessione davvero molto alti. E il comune “sentire” sulla necessità di pubblicare gli atti del convegno rappresenta la migliore risposta circa la qualità raggiunta dall’evento. Ne sono molto felice, soprattutto perché di un tema così delicato e complesso, qual è la crisi del paradigma liberale, si è parlato in un distretto problematico come quello calabrese, davanti a una avvocatura penalista che si è fatta carico, politicamente, di affrontare le difficoltà della giurisdizione nel difficile equilibrio – spesso ‘saltato’ – tra le esigenze di difesa sociale e quelle di tutela delle libertà individuali. Un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile la riuscita dell’evento e a coloro – e sono stati tanti – che lo hanno impreziosito assicurandone la presenza. Un ringraziamento particolare e ‘speciale’ ai miei preziosi compagni di viaggio, il direttivo della Camera penale, ineguagliabile per generosità e impegno, e ai qualificati relatori che hanno dato, ciascuno da par suo, davvero il meglio di sè. Alla prossima. Il nostro è soltanto un arrivederci. Francesco Iacopino

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Ora basta!

Quando, mesi fa, le Camere Penali calabresi hanno denunciato per l’ennesima volta l’erroneo e smodato ricorso all’istituto della connessione tra procedimenti, la Magistratura associata e certa stampa consociata hanno reagito con la solita veemente levata di scudi.

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L’allarme dei penalisti: a Catanzaro troppi ‘maxi’ e pochi giudici. Libertà a rischio. Urge una nuova sezione

Ognuno di noi lo sa, da quando indossa per la prima volta la toga: l’avvocatura non può essere tenuta lontana dalla politica giudiziaria. È nei nostri doveri, prima ancora che tra le nostre prerogative, quello di partecipare al dibattito sulle riforme legislative, sulle prassi giudiziarie e, in generale, su tutti i temi che incidono sulla tutela dei diritti. Fa parte del nostro giuramento perseguire «i fini della giustizia e a tutela dell’assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento». E l’avvocatura non può, non deve e non vuole rinunciare a una componente significativa, tra le responsabilità connesse al proprio ministero: essere guardiana dei diritti. Quando gli avvocati segnalano le criticità della giurisdizione è la collettività – che a loro ha affidato la tutela dei diritti fondamentali – a esprimersi. E nessuno può pensare di godere di spazi di insindacabilità o statuti di infallibilità. Sarebbe un ragionamento proprio di uno stato teocratico, nel quale il potere non ammette critica, perché promana direttamente da Dio. Questi sono gli apriori logici, se si vogliono affrontare i problemi della giustizia e tentare di risolverli tutti insieme, nella consapevolezza che, senza il sapere e la collaborazione degli avvocati, ben poco può essere fatto. Uno dei principali problemi per la macchina giudiziaria è, oggi, quello relativo ai numeri delle risorse impiegate nella organizzazione degli uffici. La scopertura di organico tra magistrati e personale di cancelleria è fenomeno endemico. Ma i numeri, nel distretto catanzarese, dicono altro (e oltre) e sembrano segnare, anche in tema di distribuzione delle risorse, il ricorso al “doppio binario”, che è ormai diventato, nell’amministrazione della giustizia, l’ordinario. Quello di Catanzaro è, per quanto dato sapere, l’unico tribunale distrettuale italiano nel quale il numero dei pubblici ministeri supera, e di gran lunga, quello dei giudici. Quando ci si è preoccupati di irrobustire la pianta organica della procura, ci si è dimenticati di potenziare parallelamente anche l’organico dei giudici, così concorrendo a causare un problematico effetto a “imbuto”. Se con obiettività si pensa che sotto la direzione di ogni p.m. operano decine di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, non ci si può non rendere conto che ogni giudice deve controllare il lavoro svolto da centinaia di persone, con ritmi assolutamente insostenibili. Ora, poiché i giudici non possono denegare una risposta e il codice di rito spesso impone termini perentori o comunque presidiati da responsabilità disciplinare, a soffrirne non può che essere la qualità di quell’intervento di controllo del lavoro investigativo, che segna il discrimine tra la libertà e la detenzione, tra il diritto di proprietà e l’ablazione, tra il benessere e il fallimento, tra la considerazione sociale e la berlina, tra la vita e la morte (civile). Non sono temi, questi, sui quali si possono lesinare risorse, impegno, lotta. La sezione gip del tribunale di Catanzaro, sede del distretto, è composta da meno di dieci giudici, a fronte di settantaquattro magistrati del pubblico ministero presenti nelle varie procure circondariali e in forza alla DDA. La sezione riesame del tribunale di Catanzaro, con un organico di soli sette magistrati, è ordinariamente investita da migliaia di procedimenti de libertate e ciclicamente travolta da maxi-operazioni con centinaia di cautelati. Come se non bastasse, si deve occupare delle misure di prevenzione, non solo nella fase genetica e conclusiva, ma anche, se non soprattutto, nella fase gestoria dei patrimoni sequestrati e in attesa di confisca, nella quale a quei giudici è richiesta la risoluzione di questioni complesse di natura civile, giuslavoristica, commerciale, fiscale, societaria e altro. Ecco perché gli avvocati hanno criticato severamente le contestazioni, spesso infondate, dell’aggravante mafiosa, così come l’uso disinvolto dei c.d. maxi processi (anche quando se ne potrebbe -e dovrebbe- fare a meno). Detto modus operandi mette i Giudici in affanno, ne satura il lavoro, costringendoli a pronunciarsi sulla vita e sulla libertà delle persone senza poter disporre della quota di tempo necessaria a una valutazione laica e serena. Li espone, inevitabilmente, a una maggiore percentuale di errore nei confronti di vittime innocenti. È evidente, dunque, che senza i necessari e rapidi correttivi, un sistema asimmetrico così congegnato rischia di soffocare (ulteriormente) i diritti di libertà. Alle nostre latitudini, infatti, il crinale sul quale si gioca l’efficienza della giurisdizione ha almeno due versanti. Il primo, logistico. Occorrono maggiori risorse. Urge aumentare il numero dei giudici nelle sezioni penali e istituire, come avvenuto in altri tribunali, una sezione promiscua che si occupi di prevenzione, fallimenti ed esecuzioni, in modo tale da assicurare, grazie alle diverse professionalità impegnate, l’effettivo controllo anche sulla attività degli amministratori giudiziari e, nel contempo, alleggerire la pressione sulla sezione riesame. Su detto versante, l’avvocatura penalista è pronta a unire con forza la propria voce a quella della magistratura e del presidente del tribunale, dott. Rodolfo Palermo, che da tempo si batte in tale direzione. Il secondo, culturale. Va alleggerito il ricorso alla leva cautelare, perché troppo spesso i processi si concludono con l’assoluzione dei cautelati. Va utilizzata con maggior prudenza la contestazione dell’aggravante mafiosa, che frequentemente è disconosciuta in giudizio e che, oltre a consentire la dilatazione temporale delle misure coercitive, sottrae l’indagato al proprio giudice naturale sottoponendolo a quello distrettuale. Va limitata l’istruzione di maxi-processi per reati eterogenei e non connessi secondo una delle ipotesi codicistiche, perché tale prassi ha un costo economico e sociale enorme, ostacola la ragionevole durata del processo, stigmatizza l’imputato oltre la contestazione concretamente elevata. Se si vuole migliorare la risposta della giurisdizione sul piano logistico, la Camera penale è pronta a fare la propria parte in ogni sede, senza alcun pregiudizio. È pronta a discuterne seriamente con la Magistratura, così come accade in altri distretti, al fine di individuare soluzioni comuni e condivise. È pronta a sollecitare il dibattito parlamentare. Ma occorre anche un diverso approccio culturale. Occorre che l’avvocatura sia considerata un interlocutore e non un ostacolo; occorre che si abbandoni quel senso di lesa maestà che non consente di comprendere quello che da sempre si sostiene: gli avvocati penalisti sono politicamente impegnati a tutelare i valori liberali del diritto penale

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Omicidio nautico: Reato di nuovo conio. Se ne sentiva davvero la necessità?

di Angela La Gamma – ottobre 2023 Ci risiamo. A meno di dieci giorni dall’ormai famigerato decreto Caivano, in cui è contenuta una sfilza di previsioni a carattere fortemente repressivo, con un grave e intollerabile abbassamento della soglia dell’imputabilità e una espansione del già eccessivo ambito di applicazione delle misure di prevenzione, prende vita, nell’ordinamento italiano, un nuovo reato. Stavolta il neo-nato delitto porta il nome di “omicidio nautico” e determinerà una modifica agli articoli 589 bis, 589 ter, 590 bis e 590 ter del codice penale, nonché si ritiene, agli articoli 590 quater e quinquies, in tema di omicidio e lesioni stradali. Il disegno di legge, approvato il 21 settembre scorso, in via definitiva, alla Camera con 268 voti favorevoli ed un solo contrario, e che, a febbraio, aveva già ricevuto il via libera in Senato, non avendo subito modifiche, diventerà legge tra una manciata di giorni, dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Ed ecco, quindi, che le pene previste per il delitto di omicidio stradale e per quello di lesioni stradali, diventano applicabili anche ai fatti commessi con violazione delle norme sulla circolazione marittima; pene esemplari, inoltre, anche per chi viene trovato alla guida di un natante da diporto in stato di alterazione psicofisica determinato dall’assunzione di alcol o di sostanze stupefacenti Non solo. Sotto il profilo procedurale, è stato esteso l’obbligo di arresto in flagranza anche al conducente di un mezzo nautico che sia trovato in stato di ebbrezza alcolica o abbia assunto sostanze stupefacenti o psicotrope. Una nuova fattispecie di reato quindi, in tutto e per tutto equiparata all’omicidio ed alle lesioni stradali della quale, a dirla tutta, non si sentiva affatto la necessità. E invero, la circolazione con mezzi da diporto è senza dubbio, ad avviso di chi scrive, completamente differente dalla circolazione stradale, non fosse altro perché più contenuta e limitata oggettivamente e soggettivamente; ciò induce a nutrire serie perplessità sull’adattabilità della normativa (si ricorderà, di tipo emergenziale) dettata in materia di omicidio e lesioni stradali alla differente ipotesi di fatti avvenuti in mare o, comunque, alla guida di imbarcazioni. Quale è stato, questa volta, l’allarme sociale che ha indotto il legislatore ad intervenire facendo ricorso allo strumento penalistico? Nessuno. Sebbene l’emergenzialismo degli ultimi anni non sia affatto una scriminante alla compulsività legislativa, anzi il contrario, stavolta non vi è nemmeno un fatto di grave allarme sociale cui imputare la responsabilità dell’agire irresponsabile del nostrano legislatore. L’introduzione della nuova fattispecie di reato, altro non è, se non l’ulteriore esempio – come se già non bastassero i precedenti – dell’ipertrofia del diritto penale in Italia. Quando si ha un calo del consenso popolare, quando le famiglie sono allo stremo, quando le promesse elettorali sono rimaste, appunto, scatole piene solo di belle parole, ecco che si tenta di riacquistare il rispetto della cittadinanza mediante un inasprimento delle sanzioni ovvero inventando nuove fattispecie di delitti. Un dato deve essere rilevato. Nel caso in esame, l’impatto sotto il profilo formale sarà meno evidente e gravoso, dal momento che non verranno introdotti nuovi articoli nel codice penale, ma verranno, soltanto, apportate modifiche a quelli già esistenti in materia di omicidio e lesioni stradali; quello che deve destare allarme e far riflettere, però, è la facilità con cui si fa ricorso, in maniera ormai quotidiana, al diritto penale, il quale, al contrario dovrebbe rappresentare l’extrema ratio, il rimedio minimale riservato alla repressione di fatti gravissimi e tassativamente tipizzati. E, invece, esempi quali il decreto Caivano, il decreto Cutro ed oggi il nuovo reato di omicidio nautico, mettono in evidenza come ci si trovi in un’epoca dominata dal panpenalismo, dalla pervasività del diritto penale, inoculato, ormai, in ogni piega del tessuto sociale, che vede il legislatore nelle vesti di un moderno giustiziere, il cui agire è veicolato, esclusivamente, da emotività momentanea e da un magnetismo ancestrale verso la creazione di nuovi reati. Questa corsa alla repressione, però, sta portando il potere legislativo a non operare una preliminare considerazione della realtà normativa esistente e, di conseguenza, a partorire nuove fattispecie delittuose che, spesso, rimangono puramente simboliche, dettate dalla bramosia di placare e tenere a freno l’opinione pubblica, distraendola dalle effettive criticità. Quale sarà il prossimo frutto di questa deriva giustizialista che sta infettando l’Italia, nella quale il diritto penale è sempre più il mezzo privilegiato per perseguire fini politici o morali? La sensazione è che non passerà molto tempo prima della nuova, improbabile, creazione… (Foto tratte dal web)

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Quando l’italia perse la faccia: riflessioni sul calvario giudiziario di enzo tortora e il moderno diritto penale

Nella suggestiva cornice della Sala del Pianoforte del Comune di Catanzaro abbiamo avuto l’onore di ricevere quale gradito ospite l’avvocato Raffaele della Valle, autore del libro “Quando l’Italia perse la faccia. L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora”, scritto insieme al giornalista Francesco Kostner, anch’egli presente all’evento.

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