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Ma è possibile considerare le vittime della mafia un pericolo per la collettività, com’è successo ai Cavallotti?

  Di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo   La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con i quesiti posti al governo italiano, dimostra le perplessità nei confronti del  nostro sistema di prevenzione. I giudici europei pongono richieste precise che avrebbero meritato  risposte altrettanto precise. Ma, non potendo fornirle, il governo è costretto a rischiosissime spigolature che denotano spiccate tendenze solipsistiche ed una certa predisposizione al masochismo. C’è un quesito, in particolare, che mette l’Italia con le spalle al muro: come è possibile che, nel nostro Paese, si possano confiscare i beni di chi è stato assolto? Già. Come è possibile? Siamo ai limiti della domanda retorica, tanto la risposta dovrebbe essere scontata: “non è possibile, scusateci”. Ma non per i nostri rappresentanti, che provano a rispondere mediante il consueto armamentario retorico, dialettico e lessicale, facendo leva su due cardini in particolare. L’autonomia e la differenza funzionale tra il procedimento penale e quello di prevenzione. Le sentenze assolutorie, dunque, non rappresenterebbero un ostacolo alla adozione di misure prevenzionali (né, in ciò, la parte pubblica vede la negazione della presunzione di innocenza), dal momento che il procedimento di prevenzione non si fonda sulle prove contenute nel fascicolo penale, né è destinato a concludersi con un accertamento di colpevolezza, quanto di mera pericolosità. La prima affermazione è una bugia sesquipedale (e noi non possiamo più accettare le bugie dette sulla pelle delle persone); sulla seconda bisogna intendersi. Anche il Governo sa che, in Europa, la presunzione di innocenza ha una latitudine diversa, rispetto alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 della Costituzione. L’art. 6 della Convenzione EDU, infatti, tutela anche la “percezione pubblica” dell’individuo, cioè la sua sfera reputazionale, assicurando che, anche al di fuori o dopo la chiusura del procedimento penale, in assenza di un formale accertamento di colpevolezza, egli non possa essere ritenuto colpevole di un qualche crimine. Così che, una volta che l’individuo sia stato assolto, non è possibile una rivalutazione dei fatti oggetto del procedimento penale, pur se in sede diversa, perché ciò determinerebbe una violazione della sentenza di assoluzione incompatibile con le garanzie del giusto processo. Numerose sono, sul punto, le precedenti pronunce europee. A fronte di tale aporia, l’Italia obietta che l’autonomia tra procedimenti assicura che quello di prevenzione non si basi sugli stessi fatti o sulle stesse prove di quello penale. La verità, che ci ostiniamo a nascondere all’Europa, è invece esattamente il contrario. Quello di prevenzione, nell’assoluta maggioranza (prossima alla totalità) dei casi prende origine da un procedimento penale, con il quale condivide la base probatoria. Nel senso che il fascicolo delle indagini preliminari diventa, nella sostanza, il fascicolo del Tribunale di prevenzione. Sostenere il contrario non è serio. Sostenerlo nel caso Cavallotti, nel quale i decreti di confisca sono espressamente motivati con l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali, è semplicemente uno spergiuro. Sostenerlo dopo l’introduzione dell’art. 578-ter del codice di rito penale, che prevede espressamente l’ambulatorietà dell’azione pubblica dal processo penale a quello di prevenzione (e, quindi, sancisce per Legge che i due procedimenti sono interconnessi tra loro), è da doppelganger: il Governo si è inconsapevolmente sdoppiato, proiettando in Europa una differente – e più malvagia – versione di sé. All’Europa, spieghiamo magari anche “dove va” la prevenzione, non solo “da dove viene”. Sull’autonomia, intesa come l’intende la giurisprudenza convenzionale, non c’è davvero altro da dire. Sulla diversità di funzione, invece, si. Formalmente, infatti, le misure di prevenzione patrimoniale da pericolosità “qualificata” (nel caso dei Cavallotti, viene in rilievo una presunta contiguità mafiosa) hanno natura praeter delictum, cioè al di là della commissione (e, quindi, dell’accertamento) di un fatto costituente reato. Il Tribunale, infatti, deve rendere un giudizio di pericolosità e non di colpevolezza. Questo prevede il Testo Unico antimafia che, se la Corte Edu dovesse qualificare la confisca come sanzione penale, non sarebbe parte più conforme a Costituzione. Il problema, in questo caso, è tuttavia di merito. Il governo, tramite l’avvocatura, cerca di tracciare un impalpabile confine tra i concetti di partecipazione (rilevante nel processo penale) ed appartenenza (rilevante nel procedimento di prevenzione) mafiosa, così come tra quelli di “contiguità” e “soggiacenza”. Immaginiamo quale possa essere lo stupore dei Giudici europei a recepire questi distinguo, frutto di una semantica costituita da vocaboli pensati con il solo fine di spiazzare chi legge le risposte del governo e, soprattutto, usati per “non farsi intendere”. Ma, nelle risposte ai quesiti posti dalla Corte EDU. Il Governo omette di riferire la circostanza più importante: all’esito dei vari gradi del procedimento penale, i Cavallotti sono stati ritenuti VITTIME della mafia. Possono allora, le vittime della mafia essere considerate pericolose per la collettività e, in quanto tali, diventare vittime anche dello Stato? Copyright (c)2024 Il Dubbio, Edition Il Dubbio

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IL MONITO DELLA CONSULTA

  di Francesco Iacopino   Abuso di ufficio e abusi interpretativi della Magistratura Uno dei giudizi più autorevoli, insospettabili e severi verso la costante forzatura interpretativa della magistratura italiana in tema di abuso in atti d’ufficio lo ha dato la Corte Costituzionale (sent. n. 8/2022). Nel legittimare la costituzionalità dell’ultima, restrittiva riforma del 2020, la Corte così si esprime: << l’intervento normativo oggi in discussione riflett(e) due convinzioni, […] entrambe diffuse: a) che il “rischio penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione. […] l’esigenza di contrastare tali fenomeni, incidendo sulle relative cause […] non nasce con l’emergenza epidemiologica, ma si connette all’epifania, ben anteriore, degli indirizzi giurisprudenziali che hanno dilatato la sfera applicativa dell’incriminazione, attraendovi tanto la violazione dell’art. 97 Cost., quanto lo sviamento di potere>>. Il ragionamento della Consulta è chiarissimo. L’abuso d’ufficio è norma “di chiusura” del sistema dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione e rappresenta il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa. Una perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto tondo della gestione della cosa pubblica, e l’esigenza di evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante. Per garantire un punto di equilibrio, il legislatore ha più volte inutilmente tentato, negli ultimi 30 anni, di fissare limiti alle incursioni della magistratura penale sulle scelte dei pubblici funzionari. Ma la giurisprudenza ha sistematicamente travalicato i rigidi paletti normativi, vanificando ogni iniziativa di riforma e riaprendo ampi scenari di controllo sull’esercizio della discrezionalità amministrativa. Tutto ciò, oltre ad alterare gli equilibri nella divisione dei poteri dello Stato, ha dato l’abbrivio al fenomeno della “burocrazia difensiva” e alla c.d. “paura della firma”. Ecco perché, di fronte alla trentennale ostinazione della magistratura di autoassegnarsi, anche a seguito della riforma del 2020, attraverso la figura “abusata” dell’abuso d’ufficio, un potere di controllo “no limits”, onnivoro, sull’operato dei pubblici funzionari e più in generale sulla politica, l’abrogazione dell’art. 323 c.p. appare oggi il “male minore” per recuperare una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente. Non spaventi l’eventuale abolitio criminis. La mala gestio del pubblico funzionario, nei casi più gravi, sarà sempre regolata dalla leva penale ricorrendo ad altre specifiche fattispecie di reato, mentre nelle ipotesi residuali competerà al giudice “naturale”, quello amministrativo, lo scrutinio dei profili di (il)legittimità dell’atto. Del pari, il pubblico funzionario dovrà rispondere al giudice erariale, con il proprio patrimonio, ogni qual volta sarà accertata una sua condotta infedele e dannosa per l’amministrazione. A margine della soluzione radicale proposta, urge comunque risolvere il “cuore” del problema, vale a dire il rispetto del “limite” da parte di chi, ai “limiti del potere”, fino ad oggi ha opposto strenuamente un “potere senza limiti”. (pubblicato su “PQM-Il Riformista”, il 30 dicembre 2023)

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Dall’emarginazione all’inclusione anche grazie alla bontà dei panettoni prodotti dai detenuti

La Camera penale ha deciso di sostenere il progetto avviato dalla società cooperativa “Mani in Libertà”, con la partnership della  Direzione della Casa Circondariale di Catanzaro, del locale Ufficio Esecuzione Penale Esterna, di Promidea e delle associazioni Liberamente ed Amici con il cuore che hanno aderito a  un bando indetto da Fondazione con il Sud, teso alla formazione  professionale e all’assunzione dei detenuti. Tutto nasce da un sogno. Quello di un detenuto in regime di alta sorveglianza nel carcere “Ugo Caridi” di Catanzaro, con le mani, la mente e il cuore votati per la pasticceria. Gli bastavano un fornellino ed una padella per realizzare dolci straordinari. Nel 2019 arriva la svolta. Un bando di Fondazione Con il Sud, che sembra proprio “cucito” addosso al sogno di questo detenuto  e di altri detenuti raggiunti dal suo entusiasmo: così la direzione della Casa Circondariale decide di coinvolgere l’impresa sociale “Promidea” e l’associazione “Amici con il Cuore”, operativa da anni all’interno del carcere con i laboratori di arte e di riciclo, nella realizzazione di un progetto che prevede l’apertura di una vera e propria pasticceria. Si aggiungono come partner l’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna e l’associazione “Liberamente”, mentre la Regione Calabria sostiene assieme a Fondazione Con il Sud i corsi di formazione in pasticceria e panificazione per un totale di 600 ore. Ma ci pensa la pandemia a fermare tutto. Il progetto continua. Ed i corsisti diventano tirocinanti La proroga del bando di Fondazione Con il Sud permette di ripartire con il progetto, e di iniziare, nell’aprile del 2021, le prime lezioni di teoria in modalità online. Gli otto detenuti corsisti, dopo aver superato le prove finali nel dicembre 2021, conquistano così l’agognato attestato spendibile su tutto il territorio nazionale e possono cominciare a mettere “le mani in pasta” come tirocinanti. Nel frattempo, grazie al sostegno di Fondazione Con il Sud, e al Provveditorato si lavora alacremente per la ristrutturazione del locale all’interno del carcere da adibire a laboratorio di pasticceria. Il giorno dell’inaugurazione, il 23 febbraio 2023, è una festa per tutti: per la direttrice del carcere, Patrizia Delfino, e tutta la popolazione carceraria; per Antonietta Mannarino, presidente dell’associazione “Amici con il Cuore” capofila del progetto e i vari partner; per i docenti del corso, ma soprattutto per i detenuti che vedono concretizzarsi le loro speranze di riscatto. La cooperativa “Mani in Libertà” per un futuro lavorativo possibile Dal giorno dell’inaugurazione, gli aspiranti pasticceri non hanno mai smesso di sperimentare, inventare e utilizzare in tutti i modi possibili le attrezzature, che arredano il nuovo laboratorio all’interno del carcere, per realizzare torte, semifreddi, gelati, brioche e biscotti su richiesta. Le ordinazioni da parte delle famiglie dei detenuti, ma anche degli agenti di polizia penitenziaria, degli educatori e di quanti lavorano all’interno della struttura, non si fanno attendere, e diventano sempre più numerose man mano che i pasticceri rivelano le loro incredibili doti creative e manuali. Sotto la supervisione della presidente Antonietta Mannarino, si cimentano anche nella realizzazione di dolci tipici calabresi, come la “pitta ‘nchiusa”, e nella rivisitazione del “bigiotto”, il biscotto energetico del camminatore a base di miele, fiori di lavanda ed essenza di mandarino, da distribuire ai pellegrini che ogni estate attraversano in lungo e in largo i boschi e i sentieri, alla scoperta dei luoghi storici e dei paesaggi mozzafiato della regione. Una volta concluso il progetto, per i detenuti si aprono le porte della cooperativa, dal nome benaugurante “Mani in Libertà”, appositamente fondata per far giungere i loro prodotti dolciari al di là delle mura carcerarie e per farli diventare protagonisti del proprio riscatto sociale. Il progetto si conclude, ma la cooperativa continuerà a dare seguito al loro impegno A dicembre il progetto “Dolce Lavoro” si avvia alla sua naturale conclusione, ma intanto l’attività nella pasticceria prosegue senza sosta con la produzione di panettoni artigianali di altissima qualità, in attesa di poter attivare la piattaforma online per effettuare le ordinazioni. La cooperativa, infatti, continuerà sul solco già tracciato dal progetto sostenuto da Fondazione Con il Sud, potendo contare sull’apporto incondizionato dell’istituto di pena e dell’ampia rete di enti e associazioni che sin da subito ha creduto nella bontà dell’idea progettuale. Un progetto forse non originale – non è il primo in Italia – ma che è il primo in Calabria e probabilmente l’unico a livello nazionale ad avere come destinatari detenuti di alta sicurezza e condannati “a fine pena mai”.  Per loro, forse, un futuro di libertà non sarà possibile, ma nulla potrà impedirgli di impegnarsi ogni giorno per qualcosa di utile ed appagante, che li gratifica dal punto di vista economico, ma soprattutto umano.                                                                                                                    Benedetta Garofalo Addetta stampa progetto “Dolce Lavoro” Rassegna Stampa: https://rb.gy/xf16r2 https://rb.gy/9bzx6q https://rb.gy/csjgtf https://rb.gy/cgs8ei

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Riqualificazione giuridica del fatto. Utilizzabilità delle intercettazioni.

  Massima a cura dell’avv. Stefania Mantelli del Foro di Catanzaro Contestazione nuovi reati a seguito degli esiti del compendio intercettivo. Assenza di connessione ex art. 12 c.p.p., anche sotto il profilo dell’art. 81 cpv c.p. e mancata inclusione nel novero dei reati di cui all’art. 266 c.p.p. o soggetti all’arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380 c.p.p. Inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni di conversazioni. Acquisibilità delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni come corpo del reato. Esclusione laddove costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o mera prova di un frammento del reato. (ordinanza del 23 gennaio 2023 Tribunale di Catanzaro, in composizione monocratica). In tema di intercettazioni, stante il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il principio secondo cui l’utilizzabilità delle intercettazioni per un reato diverso, connesso con quello per il quale l’autorizzazione sia stata concessa, è subordinata alla condizione che il nuovo reato rientri nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 c.p.p., non si applica ai casi in cui lo stesso fatto-reato per il quale l’autorizzazione è stata concessa sia diversamente qualificato in seguito alle risultanze delle captazioni,  poiché in tale evenienza non vi è elusione del divieto di cui all’art. 270 c.p.p. attesa l’intervenuta legittima autorizzazione dell’intercettazione e la modifica dell’addebito unicamente per sopravvenuti fisiologici motivi. Incontra, invece, la sanzione dell’inutilizzabilità, l’ipotesi in cui, all’esito delle intercettazioni legittimamente disposte, la Procura valuti di contestare nuovi reati, privi di qualsivoglia connessione ex art. 12 c.p.p. con il delitto in relazione al quale l’autorizzazione alle intercettazioni di conversazioni telefoniche era stata originariamente disposta, i quali neanche rientrino nei delitti per i quali è consentita l’intercettazione di conversazioni ai sensi dell’art. 266 c.p.p. o l’arresto obbligatorio in flagranza ai sensi dell’art. 380 c.p.p. Nel caso di specie, il Tribunale non ha riscontrato alcuna connessione neanche sotto il profilo del vincolo della continuazione ex art. 81 cpv c.p., in considerazione dell’evidente autonomia sussistente fra le incriminazioni, che non consente di desumere alcuna primitiva rappresentazione, nemmeno ipotetica ed eventuale, dei singoli fatti di reato. Trattasi, all’evidenza, di fatti storici del tutto autonomi ed eterogenei sotto il profilo della condotta, dei motivi a delinquere, rispetto ai quali non può, dunque, rinvenirsi alcun elemento sintomatico di collegamento psicologico. In tema di intercettazioni, la conversazione o comunicazione intercettata costituisce corpo del reato solo allorché essa integri ed esaurisca la condotta criminosa, nei casi in cui questa possa perfezionarsi anche con la sola interlocuzione oggetto di registrazione, mentre deve escludersi la natura di corpo del reato dell’intercettazione che costituisca mera documentazione sonora della commissione del fatto o prova di un frammento del reato, portato a compimento con condotte ulteriori, rispetto alle quali la comunicazione assuma mero carattere descrittivo (Nel caso di specie le conversazioni costituivano solo prova di un frammento del reato, atteso che per potersi integrare la fattispecie di falso in atto pubblico è necessaria, quanto meno, la compilazione materiale del certificato medico contenente la diagnosi assunta come non veritiera).

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Il senso (smarrito) della giustizia

  Il Dott. Davigo ha rilasciato qualche giorno or sono una intervista a Fedez per sostenere, tra le altre cose, a proposito del fenomeno dei suicidi in carcere, che “prima di tutto, il fatto che uno decida di suicidarsi, lo perdi come possibile fonte di informazione” e, poi, che “le conseguenze dei delitti ricadono su quelli che li commettono”. La reazione immediata è stata di “disorientamento” e “incredulità” (non è possibile che lo abbia detto veramente!). A mente ferma, invece, si impongono alcune riflessioni. Proviamo a svilupparne tre. La prima, è che il pensiero del Dott. Davigo – diffuso non solo nell’opinione pubblica, ma ahinoi,  anche tra gli addetti ai lavori – dovrebbe essere indicato a motivo paradigmatico della necessaria separazione delle carriere dei Magistrati. Troppo spesso, infatti, ci si dimentica che, conclusa l’esperienza di “Mani pulite”, il nostro è stato dapprima consigliere presso la Corte d’appello di Milano e, in seguito, consigliere presso la Corte di Cassazione, divenendo infine presidente della Seconda Sezione penale. Davigo, quindi, ha esercitato funzioni giudicanti per oltre venti anni, dovendo essere per disposizione costituzionale “terzo ed imparziale”, oltre che permeato dalla presunzione di innocenza. Ora, chiunque affermi che un “assolto è solo un colpevole che l’ha fatta franca” o che in carcere ci sta solo chi ha commesso un delitto non può essere considerato imparziale, né consapevole della presunzione di innocenza. Quindi, i due decenni abbondanti trascorsi dall’altra parte del “banco” non sono riusciti, evidentemente, ad emendarlo da quel portato di “partigianeria”, che è connaturato all’esercizio delle funzioni di  Pubblico Ministero, parte del processo. E questo consente di apprezzare la mai abbastanza esplicitata natura “culturale” (accanto a quella normativa e politica) della richiesta di separazione delle carriere. Si dice, ad opera di chi non condivide questa svolta, che l’esercizio di funzioni giudicanti farebbe del futuro PM un magistrato meno condizionato dal ruolo accusatorio. Ciò sarebbe vero se, negli ultimi 30 anni, si fosse registrato un equilibrio nella giurisdizione, mantenendo ferma la “centralità” del Giudice, rispetto a quella del Pubblico Ministero. La verità è altra, ed è sotto gli occhi di tutti, come dimostra lo sbilanciamento emotivo (non solo sociale e mediatico) sulle tesi d’accusa. La seconda considerazione è dettata dalla indifferenza dimostrata da chi ha esercitato la “terribilità del potere”, coma la chiamava Leonardo Sciascia, rispetto alla quota di umano dolore che ogni vicenda giudiziaria porta con sé. Presso gli antichi greci, e tanti esempi ce ne offre la tragedia classica, la hybris era la pretesa dell’uomo di esercitare il proprio potere contro l’ordine costituito, umano o divino che fosse. Chi parla di suicidi o di errori giudiziari come di fenomeni fisiologici e non, come essi sono, della più grave patologia che il sistema giustizia possa subire, assomiglia a Creonte che nega sepoltura a Polinice, vittima e carnefice del fratello Eteocle. Dimentico, evidentemente, di quanto sia carico di umanità il volto della giustizia disegnato dai nostri padri costituenti! La dissaldatura da quel modello, quando lo capiremo sarà troppo tardi, è una autentica tragedia per la nostra democrazia. Lo spiega molto bene un altro P.M. di quel pool, Gherardo Colombo, che già 15 anni fa nel suo libro “il perdono responsabile” scriveva: “quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero per qualche giorno in carcere come detenuti. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile; ma poi ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne sto davvero esercitando giustizia?”. La terza riflessione riguarda la missione, del tutto “controintuitiva”, di associazioni come Antigone o Nessuno Tocchi Caino. Quei don Chisciotte che credono davvero che anche il colpevole sia un uomo come noi, con gli stessi diritti, gli stessi bisogni, le stesse aspirazioni. E che nelle carceri ci sia bisogno di umanità, dignità, comprensione, socialità, uniche vie di riscatto. E che dedicano la vita alla tutela di chi non ha più voce, perché una voce, dal carcere, non può uscire da sola. Insomma, il contrario dell’indifferenza mostrata davanti alla morte suicida o all’innocente detenuto (“e sono tanti, e sono troppi”, diceva Enzo Tortora). Già, i suicidi. Una ferita aperta del nostro sistema carcerario e, con esso, della nostra civiltà del diritto, che non riesce a suturarsi. Negli anni di Tangentopoli, molti detenuti si ribellarono alla “carcerazione ingiusta”, alla quale non seppero reagire in modo diverso (“quando la parola è flebile, non resta che il gesto”, scriveva Sergio Moroni). Oggi, i numeri sono ancora più insopportabili, non solo tra i detenuti (circa 100 all’anno!), ma anche tra gli agenti di polizia penitenziaria. Un mondo di sofferenza che un grande cantautore e poeta ha saputo accarezzare con delicatezza, col suo senso di giustizia mai scollegato da quello di umanità, tanto era profondo, in lui, il rispetto delle leggi di natura. Tra le sue canzoni, su tutte, viene in mente “Preghiera in gennaio”, dedicata a Luigi Tenco. “Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia Se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”.  “Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte, ai suicidi dirà baciandoli alla fronte: venite in Paradiso. Là dove vado anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. Il Consiglio Direttivo

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Le teorie fragili esposte alla Cedu per difendere l’ingiustizia suprema delle confische agli assolti

  di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo La tautologia è quel procedimento logico per il quale un fatto si assume essere vero “per definizione”, spesso in base a riflessioni circolari o autoreferenziali. È il modo di ragionare dei bambini, dei matti e dei tiranni, i quali hanno ragione perché, per svariati motivi, non accettano o non comprendono mai di avere torto. Con questo spirito sembra che il Governo italiano abbia deciso di rispondere ai quesiti che la Corte EDU gli ha rivolto nel caso che vede il nostro Stato contrapposto ai signori Cavallotti, imprenditori siciliani assolti in via definitiva dal delitto di partecipazione mafiosa e, anzi, ritenuti vittime di estorsione da parte di quei soggetti che il Pubblico Ministero ipotizzava, invece, essere loro sodali. E che, nonostante l’assoluzione, sono diventati ancora vittime: questa volta, dell’onnivorismo della prevenzione che non segue i sofistici distinguo del diritto penale sostanziale (ad esempio, quella spigolatura, da raffinato giurista, tra imprenditore “soggiacente” e “compiacente”), ma divora tutto quello che le si offre, come la più spietata divinità precolombiana. Così, ai Giudici europei che chiedevano come ciò sia possibile ed erano curiosi di conoscere se le nostre Leggi in materia di prevenzione siano accessibili nel precetto e prevedibili nella sanzione, se la confisca di prevenzione sia o meno considerabile sanzione penale, se l’irrogazione di una confisca senza un formale accertamento di responsabilità violi la presunzione di innocenza, se il procedimento – anche a causa dell’inversione dell’onere della prova circa la legittima acquisizione dei beni – offra sufficienti garanzie difensive, il governo, tramite l’avvocatura dello Stato, ha risposto con ben 121 pagine per tentare di spiegare che la nostra prevenzione (“nostra”, perché con queste caratteristiche, nel mondo, ce l’abbiamo solo noi) è conforme alla Costituzione repubblicana ed alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come assicura proprio la giurisprudenza della Corte di Cassazione. Come i bambini, i matti ed i tiranni, dopo lunghe cogitazioni e richieste di rinvio, rassicuriamo l’Europa che “abbiamo ragione, perché lo diciamo noi”. Cioè ( giusto per chiarire), mentre da Strasburgo ci indicano la Luna e ci dicono che la nostra Legge sembra dissonante rispetto ai cardini del diritto punitivo ( legalità, tipicità, precisione, irretroattività in malam partem, tassatività, determinatezza, extrema ratio, proporzionalità, rieducazione, divieto di analogia in malam partem), a Roma guardano il dito e rispondono che i nostri Giudici quella Legge la applicano proprio bene. Se diverse migliaia di cittadini italiani non ci rimettessero, ogni anno, il lavoro, la casa o la vita, ci sarebbe da fare spallucce e sorridere, proprio come si fa, appunto, con i bambini ed i matti. Ma, come avvisava Nietzsche, “a questa stregua uno può avere sempre torto e prendersi sempre la ragione e diventare alla fine con la migliore coscienza del mondo il più insopportabile tiranno”. E allora, qualcosa in proposito la dobbiamo dire, perché “l’ingiustizia suprema che è il sistema delle misure di prevenzione” (come lo ha definito, su queste pagine, Valerio Spigarelli) non debba continuare a proliferare sul nostro colpevole silenzio e sulle bugie che ancora andiamo raccontando in Europa. Non è un’analisi che può essere contenuta in un solo intervento, ma vogliamo almeno avviare il dibattito, perché il rischio da scongiurare non è tanto che la prevenzione “sopravviva” a Cavallotti, ma che diventi, definitivamente, il modello di punizione patrimoniale, sostituendo la sanzione penale e, quel più conta, il processo penale accusatorio, le sue garanzie, i suoi standard probatori. La prima osservazione è di metodo. Il primo quesito che la Corte Europea pone al governo è chiaro: i decreti di confisca emessi a carico dei ricorrenti presuppongono l’opinione che essi siano colpevoli, nonostante l’assenza di una formale affermazione di colpevolezza? La “formale affermazione di colpevolezza”, che è lemma mutuato dall’art. 6 comma 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo (non a caso, richiamato espressamente dal quesito), presuppone la celebrazione di un giudizio “giusto”, caratterizzato dalle garanzie previste dal successivo comma 3, e, quindi, di un processo penale che, secondo il nostro ordinamento, è l’unico strumento per il formale accertamento della colpevolezza. Il quesito, allora, è se sia possibile una confisca senza condanna. Il governo, evidentemente ritiene scontato che ciò sia possibile, e, con molta abilità, elude la domanda e la interpreta come rivolta a chiarire la compatibilità tra provvedimento di confisca e precedente sentenza di assoluzione, così eludendo il tema proposto e argomentando sulla autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, con affermazioni sulle quali converrà tornare in futuro, tanto sono internamente contraddittorie. Quel che è certo, per ora, è che le risposte fornite all’Europa, il cui tenore era ampiamente prevedibile, non solo non convincono, ma suonano come il disperato tentativo di giustificare un fenomeno che “tutti ci invidiano, ma, chissà perché, nessuno ci copia”. (Pubblicato su “Il Dubbio” il 13-12-2023)

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Di interdittive antimafia si muore: “io devo andare perché voi siate liberi”. Intervista a Francesco Greco, figlio di Rocco Greco

  di Francesco Iacopino Gela. Rocco Greco si è tolto la vita con un colpo di pistola alla tempia. È l’alba del 27 febbraio 2019. Aveva denunciato i suoi estortori, facendoli condannare. Per ritorsione fu accusato di avere rapporti con la mafia. Assolto dal Tribunale con formula piena, la Prefettura lo “interdice”. È l’Italia delle misure di prevenzione. Quel marchio di “interdetto” non lo sopporta, lo considera un’ipoteca negativa, un’infamia da cancellare dall’asse ereditario dei suoi figli. E lo fa nel modo più drammatico: “io devo andare perché voi siate liberi”. Un anno e mezzo dopo, la famiglia vincerà la battaglia giudiziaria. La sua impresa era “pulita”. E lo era anche lui.   Francesco sono trascorsi quasi cinque anni da quel tragico giorno. Nell’immediatezza dei fatti ha detto: “facciamo sì che vicende così non accadano più”. Cosa è cambiato? Nulla. Il sistema continua amaramente ad essere inefficiente e cancerogeno. A distanza di anni, nessun imprenditore percepisce le interdittive come la mano tesa dello Stato, l’alleanza con il tessuto economico sano per combattere “insieme” la mafia. Al contrario, i provvedimenti prefettizi, “inflitti” sulla base del sospetto, mortificano chi fa impresa, specie al sud. E così, si è schiacciati, da un lato dall’arroganza della criminalità e, dall’altro, dalla burocrazia dello Stato. È in atto la desertificazione dell’economia legale del meridione.   Da come si esprime, sembra che in materia di “prevenzione” l’Italia sia divisa in due. È la realtà. Al sud la macchina delle interdittive alimenta la quotidiana “guerra dei poveri”. Nei territori economicamente depressi una burocrazia lenta e deresponsabilizzata finisce per “schiacciare” le aziende e disincentivare gli investimenti. Molti imprenditori, per sopravvivere, si trasferiscono al nord. Fare impresa oggi nel meridione è un miracolo. All’esito dei processi, suo padre è stato riconosciuto innocente, mentre i suoi estortori sono stati definitivamente condannati. Lo Stato ha riparato all’errore? Purtroppo no. Esiste un fondo di rotazione per le vittime di mafia e, sebbene il Tribunale abbia accolto la nostra richiesta, il Prefetto ci ha negato il risarcimento dovuto. Siamo al paradosso. Il Giudice lo dichiara vittima. Il Prefetto se ne infischia. Per superare l’empasse, dovremmo intentare un’altra causa. Siamo molto stanchi e delusi dalla solitudine e dal peso, insopportabile, che il sacrificio di mio padre, in fondo, possa non essere servito a nulla. Dove trova la forza per andare avanti? Nella compattezza della mia famiglia. L’eredità di mio padre. Nonostante il dolore lacerante, mia mamma Enza si è caricata da subito il peso di supplire alla mancanza paterna, moltiplicando i sacrifici e gli sforzi. I miei fratelli, Andrea e Paola, si sono rimboccati le maniche e sono diventati la ragione del mio impegno quotidiano. Osservo la loro dedizione, l’amore e la passione per il lavoro e rivedo i valori che ci ha trasmesso papà. Certo, non è facile. Mamma, ancora oggi, ogni 27 del mese si sveglia alle 4 del mattino. Precede di un’ora l’orario in cui mio padre, quel fatidico 27 febbraio, è uscito di casa per non farvi più rientro. Ma non molliamo. Questo coraggio vi fa onore. Cosa si aspetta dal futuro. Che il sistema cambi. Il 27 febbraio del 2019 abbiamo dovuto affrontare una nuova vita, che non ci siamo scelti. Abbiamo deciso di canalizzare tutta la nostra sofferenza in una battaglia di civiltà, perché il sacrificio di mio padre non risultasse vano. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.

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Il metodo nelle associazioni di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.)

    Dott. Antonio Baudi   Abstract – Lo scritto affronta il dibattuto tema della natura del metodo mafioso qualificante la fattispecie di cui all’art. 416-bis cod. pen., disposizione innovativa introdotta dall’art. 1 della legge 13 settembre 1982 n. 646, quale forma speciale di associazione delittuosa. Dopo una preliminare trattazione della base associativa analizza gli elementi costitutivi del delitto (accordo, struttura, metodo, finalità) e si sofferma in maniera specifica sul metodo mafioso come requisito essenziale caratterizzante le associazioni del tipo, associazioni plurime operanti  nelle rispettive zone di influenza, tutte accomunate dalla tipologia normativa, e di recente problematizzate quanto alla connotazione giuridica di diverse, e nuove, realtà manifestatesi nel sociale, talune qualificate come forme di “mafia silente”. All’uopo introduce il principio di giuridicità rilevando che il principio di materialità, persistendo nel valorizzare il solo dato fenomenico, trascura che la fattualità non è isolabile, e quindi percepibile, senza il contributo derivante dal piano di rilevanza normativa. ove confluisce il complesso profilo del fatto penale nella sua consistenza duplice, storica e normativa, integrante il configurato principio di giuridicità. Quindi valorizza sul piano ermeneutico l’elemento del metodo mafioso e dell’avvalimento come requisito ricorrente in atto in funzione della necessaria offensività dell’illecito. In proposito, posto che Il delitto in esame è tradizionalmente reputato come reato di pericolo e a tutela anticipata, tale qualifica viene utilizzata per sostenere l’assunto secondo cui “l’avvalersi” andrebbe letto in senso potenziale, cioè come “il potersi avvalere”. Tale impostazione di pensiero viene censurata in questa sede sembrando più corretto l’orientamento che reputa la natura mista dell’offensività dell’illecito, in parte di pericolo ed in parte di danno: di pericolo rispetto al programma da compiere, di danno rispetto al metodo, che dunque va inteso come requisito che deve rinvenirsi in atto.   SOMMARIO –  1. Le ragioni della riforma e la disposizione speciale. 2. La base associativa. 3. Gli elementi costitutivi della fattispecie. 4. Il principio di giuridicità come guida ermeneutica per individuare il metodo mafioso come requisito essenziale di ogni associazione del tipo. 5. L’avvalimento della forza intimidatrice e i profili di offensività penale. (Il contributo è stato sottoposto in forma anonima, con esito favorevole, alla valutazione di un revisore esperto).   LEGGI CONTRIBUTO

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L’ERGASTOLO OSTATIVO TRA DIRITTO E RAGION DI STATO

di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro   ABSTRACT  1) La questione di legittimità al vaglio della corte costituzionale – 2) La costituzionalizzazione dell’ergastolo e il regime dell’ostatività- 3) Ostatività, tolleranza zero e ruolo dello stato – 4) Tra diritto penale massimo e diritto penale del nemico – 5) La giurisprudenza ed i recenti indirizzi: sent. n. 149/18 c.c. – sentenza viola cedu – sentenza n. 253 del 2019 c.c. – 6) 4 bis e circuito penitenziario differenziato  1) La questione di legittimità rimessa dalla Corte di Cassazione, I Sezione, con ordinanza del 3 Giugno 2020 alla Corte Costituzionale ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co.1, e 58 ter L. n. 354/ 1975 e art. 2 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso  in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter della medesima legge o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione. Visto, nel caso oggetto di rimessione alla Corte Costituzionale, l’essersi formato il c.d giudicato esecutivo di segno negativo in ordine all’impossibile e/o inesigibile collaborazione, la circostanza della mancata collaborazione ha precluso il vaglio di quanto dedotto nel merito, a sostegno della richiesta di liberazione condizionale, da parte del ricorrente. Con ciò, si è elevata la presenza o meno della collaborazione a criterio, da un lato, esclusivo al fine di vagliare l’assenza di legami con l’ambiente criminale di appartenenza e, dall’altro, escludente rispetto ad altri elementi che in concreto potrebbero essere validi al fine di valutare la presenza dei sopraddetti legami criminali e, quindi, escludere la pericolosità sociale del condannato. Ne consegue che l’esistenza di preclusioni assolute alla valutazione/concessione della liberazione condizionale realizza, pur laddove vi siano progressi del condannato in termini di risocializzazione, una violazione del dettato costituzionale in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 Cost.  La Suprema  Corte di Cassazione nell’ordinanza di rimessione, anche sulla scia della recente giurisprudenza internazionale (sentenza Corte EDU Viola/Italia) e nazionale (sentenza C.C. n. 253/19) ha ritenuto la questione di costituzionalità rilevante e non manifestamente infondata, dal momento che le vigenti disposizioni realizzano “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento” che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza n. 313 del 1990 – è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e, l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”. Ancora una volta si pone un confronto tra principi sottostanti ad istituti giuridici posti a tutela di differenti e, forse, antitetici interessi sociali, prima, e beni giuridici, dopo. Da una parte le ragioni dello Stato nell’esercizio del potere legittimo della forza, dall’altra le ragioni del cittadino nel pretendere che questo esercizio legittimo della forza non sia egemonizzato dalle esigenze di sicurezza sociale, ma trovi il suo baricentro nella funzione di rieducazione/risocializzazione della pena.   LEGGI TUTTO Ergastolo ostativo tra diritto e ragion di stato

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Misure di prevenzione: l’Italia ridotta a fare melina di fronte ai dubbi della Cedu

  di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo   Caso Cavallotti, Strasburgo stupita dalla confusione tra prove e sospetti Potrebbe sembrare una boutade oppure uno scherzo e invece è vero: il Governo italiano ha chiesto una proroga dei termini per rispondere ai quesiti posti dalla Corte EDU nello scorso mese di agosto, nel caso Cavallotti/Italia.Avevamo già segnalato che le domande, che indubbiamente svelano all’interrogato le idee dell’interrogante, anticipano una decisione che potrebbe essere epocale, per il futuro delle misure di prevenzione. Prudentemente, dunque, l’Italia fa quello che le riesce meglio, sin dai tempi della discesa di Annibale attraverso le Alpi: temporeggia. Eppure, la sensazione è che, questa volta, la truffa delle etichette abbia i giorni contati. Già la sentenza della Grande Camera EDU, sul caso De Tommaso/Italia, aveva lasciato intuire che il futuro della prevenzione è nell’alveo della legalità formale. In quella pronuncia, il tema era solo parzialmente quello della natura delle misure di prevenzione. Eppure, i Giudici convenzionali avevano invocato i principi di accessibilità della norma e di prevedibilità della sanzione. Cioè, avevano denunciato il difetto di tassatività e determinatezza, quali corollari della legalità. Ma avevano anche richiamato il terzo pilastro della legalità, cioè l’irretroattività, con un obiter dictum tanto chiaro, quanto sfuggito a molti.Ora, invece, l’ordinanza della Corte EDU investe frontalmente le misure di prevenzione, con domande che riguardano proprio la loro natura di sanzione, la “qualità della Legge” che le prevede, i diritti riconosciuti alle parti private nel procedimento applicativo, gli effetti.Un ritorno evidente alla legalità formale, segno che a Strasburgo le misure di prevenzione italiane sono viste come “sanzioni criminali”, cioè materia penale. La giurisprudenza europea svela dunque ciò che quella italiana si ostina a nascondere con virtuosismi semantici: non si può ulteriormente giustificare un sistema sanzionatorio che, come quello di prevenzione, è sovrapponibile al penale negli effetti, ma presenta delle peculiarità – come la retroattività, la instabilità del giudicato, la inquisitorietà – che lo rendono un terribile strumento (né di prevenzione, né di punizione, ma) di controllo sociale, grazie alla continua implementazione delle categorie di destinatari. E non è previsto come istituto, a differenza delle pene e delle misure di sicurezza, dalla nostra Costituzione, che fissa i casi ed i limiti di compromissione delle libertà fondamentali. Un arnese da “doppio stato” che il potere costituito decide, in modo sostanzialmente discrezionale, a chi applicare ed a chi no (non essendovi – né potendovi essere, per la labilità dei suoi confini normativi – obbligatorietà dell’azione di prevenzione), a seconda della opportunità o della necessità del momento. Come si è visto nel recente parossismo legislativo: a ciascuno la sua prevenzione! Senza accertamento di responsabilità su di un fatto costituente reato; spesso senza responsabilità tout court; a volte persino in presenza di sentenze assolutorie, come per i Cavallotti. Un ritorno al “re taumaturgo”, che decideva, con l’imposizione delle mani ed a proprio insondabile arbitrio, chi far vivere, chi far morire. Senza alcuna forma di controllo e coercizione. “Il re ti tocca, Dio ti guarisce”. O, nel caso della prevenzione, “ti uccide”. E troppi sono morti davvero, perché “toccati dal re”. Come Riccardo Greco, imprenditore di Gela, suicida per dare un futuro ai figli, ai quali rivolse un insolito biglietto di addio: “io devo andare, perché voi siate liberi”. Frasi rispetto alle quali i tentennamenti del Governo davanti alla CEDU suonano come una ennesima beffa, se non come un insulto alla memoria. Come il leggendario Hiroo Onoda, soldato giapponese che si arrese agli americani solo nel 1974 e solo perché aveva finito le munizioni, la politica prende tempo per difendere ciò che non è più difendibile: quel sistema che ha reso la prevenzione il terreno sul quale, più che nella giurisdizione penale, si misura oggi la pretesa punitiva pubblica in una congerie di ipotesi che il legislatore del 1956, ancora permeato dai valori della Costituzione, mai avrebbe potuto immaginare. E intanto, di prevenzione si muore ancora. (Articolo pubblicato su Il Dubbio)

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