LE RAGIONI GIURIDICHE CHE IMPONGONO DI SEPARARE LE CARRIERE DEI MAGISTRATI
di Nico D’Ascola* SOMMARIO 1.QUANDO SORGE LA QUESTIONE 2. COSA APPARVE URGENTE PROPORRE 3.AUTONOMIA E INDIPENDENZA COME PRINCIPI DA DECLINARE, NON SOLO ALL’ESTERNO, MA ANCHE ALL’INTERNO. IL RUOLO “POLITICO” DELL’UNIONE 4. LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE È GIÀ IN COSTITUZIONE 5. LA IMPARZIALITÀ DEL GIUDICE 6. CARRIERE UNITARIE COMPATIBILI CON IL CODICE DEL ’30, NON CON QUELLO DELL’88 7.GLI ATTUALI PUBBLICI MINISTERI SAREBBERO OTTIMI GIUDICI? 8.IL PERICOLO DI UNA OPPOSIZIONE STRUMENTALE 9.L’UNICA OPINIONE CONTRARIA CON LA QUALE CONFRONTARSI 10. I RISCHI CONNESSI ALLE SCELTE SIN QUI ADOTTATE DALLA MAGISTRATURA 1.QUANDO SORGE LA QUESTIONE Inizio con una rivendicazione. La separazione delle carriere è patrimonio intellettuale e di cultura giuridica esclusivamente riferibile all’Unione delle Camere Penali. Si deve, infatti, a quello straordinario e irripetibile laboratorio di idee che fu l’Unione nel corso degli anni ’90, il merito di averne compreso la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, al solo fine di realizzare un processo penale davvero giusto. Ciò perché era apparso evidente che le riforme ordinamentali costituivano l’imprescindibile presupposto di quelle processuali, altrimenti destinate al fallimento. A quel progetto non fu nemmeno estranea una lucida analisi di natura politica, generata dalle strette relazioni che legano la politica stessa al diritto in generale e al diritto penale in particolare. Non pare dubitabile, infatti, che individuare il punto di equilibrio del conflitto tra autorità e libertà, questione cruciale per noi avvocati penalisti, è questione di competenza esclusivamente politica. Punto di equilibrio che contribuisce a delineare il tasso di effettiva democrazia di una Nazione. Della separazione delle carriere dei magistrati, se ne era parlato intorno alla seconda metà degli anni ’80, a margine di un congresso, mi pare fosse quello di Bari, in previsione della riforma del codice di procedura penale. All’epoca, per le ragioni che spiegherò in seguito, non se ne poteva percepire tutta l’importanza, che fu evidente dopo la riforma del codice di procedura penale. Gli anni ’90 si conclusero con la storica approvazione del nostro art. 111 Costituzione, alla quale, però, non seguì alcuna seria riforma ordinamentale, data l’ostinata opposizione della magistratura e il disinteresse, all’epoca, della politica. A quelle giunte io ho avuto l’onore di partecipare, insieme a indimenticabili amici, molti dei quali ci hanno lasciato. Pertanto, posso testimoniare e scrivere dando voce anche a loro. Prima di farlo, ricordo a tutti ancora una volta che bisogna completare quel percorso. Percorso che comprendeva sin da allora la necessità di una tutela costituzionale per il nuovo codice, iniziativa che ci costò una battaglia durissima e l’accusa di essere peggiori dei terroristi, nonché un adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo sistema processuale. 2.COSA APPARVE URGENTE PROPORRE In quegli anni capimmo velocemente diverse cose. In primo luogo che il codice dell’88 si reggeva su basi fragili e malferme. Era particolarmente indifesa la linea di confine che separava il sapere investigativo del pubblico ministero, dal sapere a formazione progressiva del giudice, fondato sul contraddittorio. Più precisamente il codice difettava di un ombrello di protezione costituzionale rispetto ai prevedibili aggiramenti e alle manomissioni delle quali sarebbe stato oggetto. I rischi già si profilavano. Il sospetto fu poi confermato dalla sentenza n°254/92 della Corte costituzionale la quale aveva rovesciato la struttura del codice, frantumando la indispensabile separazione tra indagini e giudizio. Capimmo pure, per come ho già ricordato, che l’ulteriore e indispensabile passaggio era costituito dalla separazione delle carriere, senza la quale il principio del contraddittorio sarebbe stato inevitabilmente svuotato di significato. Il giudice, infatti, non sarebbe mai stato terzo ed equidistante nel suo rapporto con la difesa e l’accusa, anzi sarebbe stato attratto in questa ultima orbita. La necessità di un giudice super partes sarebbe rimasta inattuata se giudice e pubblico ministero avessero continuato ad avere interessi comuni, carriere altrettanto comuni e interscambiabili. Insomma, fu chiara la incoerenza tra il nuovo codice e l’assetto dell’ordinamento giudiziario che metteva insieme giudice e pubblico ministero. La separazione tra le due storiche articolazioni della magistratura ci sembrò necessaria proprio per garantire il funzionamento di un sistema processuale, sia pure solo tendenzialmente accusatorio e misto. Proprio per questa ragione nessuno pensò a una riforma punitiva, per come oggi si dice, né tantomeno limitativa delle prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza. 3.AUTONOMIA E INDIPENDENZA COME PRINCIPI DA DECLINARE, NON SOLO ALL’ESTERNO, MA ANCHE ALL’INTERNO. IL RUOLO “POLITICO” DELL’UNIONE Capimmo pure che autonomia e indipendenza della magistratura erano garanzie irrinunciabili per la stessa difesa penale. Nessuno di noi avrebbe voluto misurarsi con un pubblico ministero in grado di spendere, oltre ai suoi tradizionali e ampi poteri, anche quelli propri dell’esecutivo. Valutando oggi la questione in modo distaccato e non corporativo, bisogna ammettere che la separazione delle carriere estende il campo di applicazione dei principi di autonomia e indipendenza, anziché limitarli. Li declina, infatti, non solo all’esterno, ossia nelle relazioni tra il potere giudiziario e i restanti poteri dello Stato, ma anche all’interno. Affermandoli pure riguardo alle relazioni tra giudici e pubblici ministeri. Circostanza, questa, che semmai incrementa e di certo non riduce le prerogative della intera categoria, scolpendone con precisione le differenze non solo funzionali. Tuttavia sbagliammo previsione, come ho già anticipato, quando pensammo che la separazione delle carriere, anche se accompagnata dalla estensione, al pubblico ministero separato, delle garanzie di autonomia e indipendenza, per come noi sin dall’inizio avevamo pensato, avrebbe eliminato ogni resistenza della magistratura. In altri termini, la mancanza di tutela costituzionale per il nuovo codice e l’evidente disallineamento tra quest’ultimo e l’assetto dell’ordinamento giudiziario, proprio perché fatali per il codice e per la stessa sua sopravvivenza, ci sembrarono punti talmente condivisibili da meritare un generalizzato consenso. Ma così non avvenne. Fu buona fede avere pensato che tutti avessero interesse a un sistema processuale effettivo e coerente. Le resistenze all’epoca incontrate (ed oggi manifestate con maggiore forza) ci persuasero del contrario. Le battaglie di quegli anni furono precedute dal maturare della convinzione che per l’Unione fosse necessario attribuirsi una funzione politica, reclamando per l’avvocatura penale, strumento insostituibile per la difesa dei diritti dei cittadini, il ruolo di interlocutrice nei processi di trasformazione del
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