IL LENTO PROCESSO DI ALLINEAMENTO DELLA PREVENZIONE AI CANONI DEL DIRITTO PENALE
Marta Staiano, Livio Muscatiello e Alice Piperissa – Obiettivo del presente lavoro è porre all’attenzione del lettore il faticoso percorso della giurisprudenza Costituzionale e di legittimità verso l’allineamento della prevenzione ai canoni del diritto penale e alle garanzie proprie del giusto processo, ovvero verso la definizione dell’ambigua portata interpretativa della nozione codicistica che lo investe. Discussa per lungo tempo la natura giuridica, l’istituto in questione attrae l’attenzione del giurista a cagione della sua applicabilità – in materia sia personale che patrimoniale – ante o praeter delictum, ovvero prescindendo dalla condanna o anche solo esistenza di procedimento penale, rispetto al quale si pone in rapporto di teorica autonomia. In premessa si rileva quanto enucleato dalla Corte Costituzionale n. 24/2019: confrontandosi con le censure che la sentenza De Tommaso[1] muove all’architettura del sistema della prevenzione, la Corte estende le garanzie proprie del giusto processo[2] e della giurisdizione anche alla materia in questione, interessando aree di certo più vaste di quella strettamente penalistica; la Corte ribadisce così la natura non penale della materia, dacché fuori dall’alveo della finalità punitiva, ponendosi questa ai margini della stretta osservanza della riserva di legge; centrale dunque l’opera tassativizzante della giurisprudenza. In particolare la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui limiti della categoria di cui all’art. 1, comma 1 lettera a) D. L.vo 159/11, in tema di pericolosità generica ha rilevato la carenza di “sufficiente determinazione della fattispecie”[3], requisito necessario acché l’individuo liberamente si determini, concludendo per l’eccessiva genericità incapace di individuare i potenziali destinatari delle disposizioni in questione. Nemmanco suppliva orientamento giurisprudenziale consolidato alcuno che, nel definire i criteri di identificazione dei “traffici delittuosi”, fornisse una lettura tassativizzante della norma, così da soddisfare, sia pure per via interpretativa, il canone di precisione richiesto dall’art. 2 prot. 4 CEDU. Da qui ci si immerge. Atteso che il distretto catanzarese molto si occupa di criminalità organizzata (in specie reati associativi ex art 416 bis c.p.), nonostante i soggetti destinatari di misure di prevenzione appartengano a due categorie di pericolosità diverse (generica ex art. 1, qualificata ex art. 4), lo scritto vuole concentrarsi sulla categoria dei pericolosi qualificati destinatari di provvedimento applicativo ad opera dell’autorità giudiziaria, ovvero i soggetti indiziati di più gravi reati, tra cui gli “appartenenti” ad associazioni di stampo mafioso, focalizzandosi dunque sul processo di tassativizzazione operato dal Giudice delle Leggi in tale ambito. A ben vedere, le scarne nozioni del codice antimafia sul punto non soddisfano i canoni di tassatività e determinatezza, declinati sulla base del costituzionale principio di legalità, specie a fronte dell’“indiziario” metodo accertativo nonché dell’asserita completa autonomia – oramai non più attuale[4] – del procedimento de quo rispetto a quanto, oltre ogni ragionevole dubbio, già eventualmente accertato in termini di responsabilità penale. Recita l’art. 4 del codice antimafia, «i provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.»: in particolare, ad interessare è la precipua nozione di “appartenenza”, la possibile sconfinante portata del lemma. Nonostante un orientamento giurisprudenziale a lungo determinante abbia ricondotto nel concetto di “appartenenza” condotte materiali diverse e più ampie di quelle riconducibili alla partecipazione criminale in tema di associazione mafiosa, sopperisce la conseguente lacuna di tipicità lo sforzo della Giurisprudenza più recente, che si muove nel solco di una lettura “tassativizzante” del requisito della pericolosità qualificata di tipo mafioso, precisandone confini e requisiti di applicazione: «La nozione di indiziato di “appartenenza” alla associazione di stampo mafioso (…) va colta nella sua portata tassativizzante, con rifiuto (…) di approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione” con soggetti coinvolti nel sodalizio»[5]. Costante sul punto l’insegnamento del Supremo Collegio: «È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni»[6]. In tal senso, la Corte scrive esplicitamente di un “ridimensionamento”[7] della diversità tra le nozioni di appartenenza e partecipazione di cui all’art. 4, lett. a), cod. antimafia: permanendo rilevanti le condotte pur non connotate da stabile vincolo associativo ma piuttosto inquadrabili nella figura del concorso esterno, rimane d’altro canto escluso, per espresso dictum delle Sezioni Unite, l’agito che si traduca in condotta indefinitamente ascrivibile ai concetti di contiguità o vicinanza al gruppo, quando anche si abbia consapevolezza dell’illecito[8]. Dunque, lungi dal trovare conforto tassativizzante il financo cosciente contegno di colui il quale sia asseritamente nella disponibilità dell’associazione per il fatto di condividerne gli interessi illeciti, riposano nel concetto di appartenenza le sole condotte espressive di almeno un “contributo fattivo”, «pena la dilazione ulteriore del concetto di appartenenza, già esteso al di là della portata testuale, ad un ambito indefinito e soprattutto sganciato da ogni condotta materialmente riferibile all’interessato»[9]. Ed ancora: «in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad una associazione mafiosa integra un’ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa»[10]. In definitiva, a descrivere la portata del concetto non può essere la mera vicinanza all’interesse illecito dell’associazione, dovendo piuttosto questa sostanziarsi in una “vicinanza funzionale” agli scopi associativi che, pur in mancanza di stabile inserimento nell’ente criminale, produca esiti vivificanti dell’associazione, versando l’agente nella consapevolezza di inserirsi all’interno del programma criminoso della stessa. Mutuando le parole della Suprema Corte: «il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa – pur senza integrare il fatto-reato tipico
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