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IL LENTO PROCESSO DI ALLINEAMENTO DELLA PREVENZIONE AI CANONI DEL DIRITTO PENALE

Marta Staiano, Livio Muscatiello e Alice Piperissa – Obiettivo del presente lavoro è porre all’attenzione del lettore il faticoso percorso della giurisprudenza Costituzionale e di legittimità verso l’allineamento della prevenzione ai canoni del diritto penale e alle garanzie proprie del giusto processo, ovvero verso la definizione dell’ambigua portata interpretativa della nozione codicistica che lo investe. Discussa per lungo tempo la natura giuridica, l’istituto in questione attrae l’attenzione del giurista a cagione della sua applicabilità – in materia sia personale che patrimoniale – ante o praeter delictum, ovvero prescindendo dalla condanna o anche solo esistenza di procedimento penale, rispetto al quale si pone in rapporto di teorica autonomia. In premessa si rileva quanto enucleato dalla Corte Costituzionale n. 24/2019: confrontandosi con le censure che la sentenza De Tommaso[1] muove all’architettura del sistema della prevenzione, la Corte estende le garanzie proprie del giusto processo[2] e della giurisdizione anche alla materia in questione, interessando aree di certo più vaste di quella strettamente penalistica; la Corte ribadisce così la natura non penale della materia, dacché fuori dall’alveo della finalità punitiva, ponendosi questa ai margini della stretta osservanza della riserva di legge; centrale dunque l’opera tassativizzante della giurisprudenza. In particolare la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui limiti della categoria di cui all’art. 1, comma 1 lettera a) D. L.vo 159/11, in tema di pericolosità generica ha rilevato la carenza di “sufficiente determinazione della fattispecie”[3], requisito necessario acché l’individuo liberamente si determini, concludendo per l’eccessiva genericità incapace di individuare i potenziali destinatari delle disposizioni in questione. Nemmanco suppliva orientamento giurisprudenziale consolidato alcuno che, nel definire i criteri di identificazione dei “traffici delittuosi”, fornisse una lettura tassativizzante della norma, così da soddisfare, sia pure per via interpretativa, il canone di precisione richiesto dall’art. 2 prot. 4 CEDU. Da qui ci si immerge. Atteso che il distretto catanzarese molto si occupa di criminalità organizzata (in specie reati associativi ex art 416 bis c.p.), nonostante i soggetti destinatari di misure di prevenzione appartengano a due categorie di pericolosità diverse (generica ex art. 1, qualificata ex art. 4), lo scritto vuole concentrarsi sulla categoria dei pericolosi qualificati destinatari di provvedimento applicativo ad opera dell’autorità giudiziaria, ovvero i soggetti indiziati di più gravi reati, tra cui gli “appartenenti” ad associazioni di stampo mafioso, focalizzandosi dunque sul processo di tassativizzazione operato dal Giudice delle Leggi in tale ambito. A ben vedere, le scarne nozioni del codice antimafia sul punto non soddisfano i canoni di tassatività e determinatezza, declinati sulla base del costituzionale principio di legalità, specie a fronte dell’“indiziario” metodo accertativo nonché dell’asserita completa autonomia – oramai non più attuale[4] – del procedimento de quo rispetto a quanto, oltre ogni ragionevole dubbio, già eventualmente accertato in termini di responsabilità penale. Recita l’art. 4 del codice antimafia, «i provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.»: in particolare, ad interessare è la precipua nozione di “appartenenza”, la possibile sconfinante portata del lemma. Nonostante un orientamento giurisprudenziale a lungo determinante abbia ricondotto nel concetto di “appartenenza” condotte materiali diverse e più ampie di quelle riconducibili alla partecipazione criminale in tema di associazione mafiosa, sopperisce la conseguente lacuna di tipicità lo sforzo della Giurisprudenza più recente, che si muove nel solco di una lettura “tassativizzante” del requisito della pericolosità qualificata di tipo mafioso, precisandone confini e requisiti di applicazione: «La nozione di indiziato di “appartenenza” alla associazione di stampo mafioso (…) va colta nella sua portata tassativizzante, con rifiuto (…) di approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione” con soggetti coinvolti nel sodalizio»[5]. Costante sul punto l’insegnamento del Supremo Collegio: «È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni»[6]. In tal senso, la Corte scrive esplicitamente di un “ridimensionamento”[7] della diversità tra le nozioni di appartenenza e partecipazione di cui all’art. 4, lett. a), cod. antimafia: permanendo rilevanti le condotte pur non connotate da stabile vincolo associativo ma piuttosto inquadrabili nella figura del concorso esterno, rimane d’altro canto escluso, per espresso dictum delle Sezioni Unite, l’agito che si traduca in condotta indefinitamente ascrivibile ai concetti di contiguità o vicinanza al gruppo, quando anche si abbia consapevolezza dell’illecito[8]. Dunque, lungi dal trovare conforto tassativizzante il financo cosciente contegno di colui il quale sia asseritamente nella disponibilità dell’associazione per il fatto di condividerne gli interessi illeciti, riposano nel concetto di appartenenza le sole condotte espressive di almeno un “contributo fattivo”, «pena la dilazione ulteriore del concetto di appartenenza, già esteso al di là della portata testuale, ad un ambito indefinito e soprattutto sganciato da ogni condotta materialmente riferibile all’interessato»[9]. Ed ancora: «in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad una associazione mafiosa integra un’ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa»[10]. In definitiva, a descrivere la portata del concetto non può essere la mera vicinanza all’interesse illecito dell’associazione, dovendo piuttosto questa sostanziarsi in una “vicinanza funzionale” agli scopi associativi che, pur in mancanza di stabile inserimento nell’ente criminale, produca esiti vivificanti dell’associazione, versando l’agente nella consapevolezza di inserirsi all’interno del programma criminoso della stessa. Mutuando le parole della Suprema Corte: «il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa – pur senza integrare il fatto-reato tipico

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FERMARE I SUICIDI IN CARCERE. NON C’È PIÙ TEMPO!

  La Camera Penale di Catanzaro aderisce all’astensione nazionale di giorno 20 marzo, proclamata dall’UCPI, per chiedere a Governo e Parlamento un intervento urgente per porre fine al sovraffollamento carcerario e al dramma dei suicidi in carcere. Le politiche in materia di sicurezza realizzate dallo Stato italiano negli ultimi decenni sono la causa del fenomeno cronico del sovraffollamento carcerario e delle conseguenze inumane e degradanti dello stato di detenzione, certificate persino da pronunce di condanna da parte della CEDU nei confronti della Repubblica Italiana; fra le tante si ricorda la sentenza “pilota” emessa nel procedimento tra Torreggiani + altri contro Italia, nel 2013. Sono passati oltre dieci anni da questa storica pronuncia e, nonostante l’indice di commissione dei reati sia in costante calo, la situazione all’interno degli istituti di pena non è mutata: il numero di detenuti è superiore alle 60.000 unità e, con un aumento costante di circa 400 detenuti al mese, a breve raggiungerà il livello che valse la condanna internazionale nell’anno 2013. La verità è che, a seguito di un costante quanto immotivato aumento degli edittali di pena e di una creazione spropositata di fattispecie delittuose, promulgate in esclusiva ottica di raccolta del consenso elettorale, è oggi molto più facile entrare in carcere ed è altrettanto più difficile uscirne, visto il proliferare di condizioni ostative alla concessione di misure alternative o l’uso eccessivo della leva cautelare, soprattutto alle nostre latitudini. Il risultato è uno Stato che con frequenza sistemica è obbligato a indennizzare i propri cittadini a causa degli errori giudiziari. Le cifre sono importanti, quasi mille errori giudiziari all’anno negli ultimi trenta anni. Dal 1991 al 31 dicembre 2022 i casi sono stati 30.778: in media, poco più di 961 l’anno. Il tutto per una spesa complessiva dello Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri, pari a 932 milioni 937 mila euro (dati tratti da Errori giudiziari, ecco tutti i numeri aggiornati di B. Lattanzi e V. Maimone). Si ritiene che la soglia di fisiologico errore sia stata ampiamente superata. I cittadini detenuti negli istituti di pena, che per lo più appartengono alla fascia dei soggetti economicamente in stato di povertà e spesso sono di origine meridionale, con frequenza oramai drammatica decidono di togliersi la vita, piuttosto che soffrire una detenzione che si connota per un insopportabile, quanto illegittimo, surplus di afflittività. Dall’inizio dell’anno, in due mesi e mezzo, sono venticinque i soggetti in stato di detenzione che hanno deciso per il suicidio, uno ogni tre giorni. È necessario che il Governo e il Parlamento abbiano il coraggio politico di fare ricorso agli istituti di clemenza collettiva, l’amnistia e l’indulto, che sono stati costituzionalmente previsti e ampiamente utilizzati nella storia dello Stato italiano proprio per fronteggiare situazioni emergenziali, dalla monarchia alla repubblica passando per il fascismo. Altre soluzioni che possono essere immediatamente adottate e consentire l’equilibrio del sistema penitenziario sono l’introduzione della liberazione speciale anticipata, il sistema del “numero chiuso” e il ridimensionamento delle misure cautelari personali intramurarie, riconducendole così ai principi liberali del minor sacrificio possibile e della presunzione di innocenza. Queste le ragioni dell’astensione nazionale proclamata dall’UCPI per il 20 marzo, a cui la Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro aderisce, affinché il tempo della pena sia un tempo utile a realizzare l’integrazione sociale del reo e non conduca più alla morte per pena. Catanzaro, 15 marzo 2024 Il Consiglio Direttivo   Rassegna stampa: https://shorturl.at/eEIMU https://shorturl.at/dmuDL  

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L’INARRESTABILE DERIVA DELLE INGIUSTE DETENZIONI

  di Francesco Iacopino –  La vicenda giudiziaria di Beniamino Zuncheddu ha scosso la coscienza collettiva. Arrestato a 27 anni per una “strage” mai commessa, ha sopportato per 33 interminabili anni l’ingiusta privazione della sua libertà, dei suoi sogni e della sua stessa vita, consumata per metà negli angusti spazi di un istituto di pena. Un caso eclatante di mala giustizia, tutt’altro che isolato. Il caso Zuncheddu – lo sanno bene gli addetti ai lavori – rappresenta purtroppo la punta dell’iceberg del fenomeno ben più ampio e diffuso dell’errore giudiziario, nel cui genus si inquadra la inarrestabile species dell’ingiusta detenzione, costituita dal carcere preventivo, in misura cautelare somministrata ad alte dosi nei confronti di chi si trovi catapultato nel tritacarne giudiziario del nostro Paese, in attesa di un giudizio. Come sempre, la nuda aritmetica è idonea a offrirci una prima, efficace, rappresentazione fotografica del fenomeno. E le immagini sono allarmanti. Negli ultimi trent’anni sono state detenute ingiustamente circa 30.000 persone, 1.000 all’anno, con una media di 3 al giorno. Lo Stato ha corrisposto quasi un miliardo di euro di indennizzo nei confronti delle vittime della (in)giustizia. Per quanto esondanti, però, i numeri sono tuttavia parziali e incapaci di restituirci l’effettiva dimensione drammatica della realtà. Vi sono tanti imputati, cautelati nel corso del processo e poi assolti nel giudizio di cognizione, che per paura o per stanchezza non se la sono sentita di avviare iniziative giudiziali contro lo Stato, finalizzate al riconoscimento dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione. Ancora, negli anni, molte richieste sono state respinte sistematicamente da una giurisprudenza restrittiva che ha ravvisato la “colpa” dell’arrestato, ogni qual volta questi si sia avvalso durante il processo (fosse anche nelle sole fasi iniziali) del diritto al silenzio. Con evidente contraddizione di un sistema che, con una mano, riconosce il silenzio quale espressione del diritto di difesa (nel rispetto del principio del nemo tenetur se detegere) e, con l’altra, “usa” l’esercizio di quel diritto quale circostanza ostativa al riconoscimento dell’indennizzo da parte dello Stato. Oltre al danno, la beffa. Di fronte alla drammaticità del fenomeno, dobbiamo riconoscere che il nostro tempo è contrassegnato dalla esasperazione del momento punitivo, tanto nel corso del giudizio, ove sempre maggiore è l’uso intensivo, bulimico, della leva cautelare – e, in particolare, della custodia in carcere (da tempo svuotata della sua dimensione di extrema ratio) –, quanto nella fase dell’esecuzione penale, ispirata sempre più da una logica carcerocentrica. Come ha ben scritto il sociologo e antropologo francese Didier Fassin nel suo saggio “Punire. Una passione contemporanea”, viviamo in una società punitiva che negli ultimi 40 anni è progressivamente (ri)entrata nell’era del castigo. Basti pensare che in tale forbice temporale i tassi di incarcerazione sono aumentati del 180%. È la corsa folle, inarrestabile, del moderno penale vendicativo, onnivoro, insaziabile. Ad amplificare il fenomeno punitivo, l’apparato mediatico-giudiziario, che alimenta il sovradosaggio farmacologico della penalità nel tessuto sociale, oramai assuefattosi alla terapia intensiva delle manette in un circolo vizioso che non si riesce più a spezzare. E così, in una democrazia emotiva, davanti al “Tribunale del Popolo” la sentenza sociale è emessa in modo rapido e sommario, senza l’osservanza di regole formali. In barba alla presunzione di innocenza, prescindendo dallo sviluppo del processo nella sua sede naturale si assiste alla lettura di verdetti inappellabili, con danno reputazionale incalcolabile, essendo noto a tutti che l’assoluzione emessa all’esito del giudizio ordinario se, da un lato, servirà a tenere pulita la “fedina penale”, alcuna incidenza avrà invece su quella sociale. In questo stato di cose, bisogna prendere atto che il modello pan-penalistico che si è fatto progressivamente strada negli ultimi decenni, regolando spesso con la leva penale il disagio sociale, si è rivelato fallimentare. L’eccesso di penalità non ci ha restituito maggiore sicurezza collettiva. Al contrario, ha eroso gli spazi di libertà, come ci insegnano le esperienze vissute sulla carne viva dai tanti, troppi Beniamino Zuncheddu, persone della porta accanto che hanno conosciuto il volto muscolare dello Stato. Non è possibile indagare in questa sede le molteplici cause del fenomeno. Una, però, non può essere taciuta e riguarda il fattore culturale. Bisogna riallinearsi anche nel discorso pubblico e nella ragione collettiva all’orizzonte assiologico disegnato dai nostri padri costituenti. Il diritto penale, oggi, non rappresenta più la Magna Charta del reo, il limite alla pretesa punitiva dello Stato, ma uno strumento di lotta sociale. Ecco perché l’unico argine alla deriva punitiva è il recupero dell’impegno civile in difesa dei valori non negoziabili sui quali è edificata la nostra civiltà del diritto. In tale direzione, come ci insegna Vincenzo Maiello, è necessario opporre “al moderno diritto penale di lotta, una moderna lotta per il diritto”.

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PER ARMANDO VENETO NEL GIORNO DELLA SUA ASSOLUZIONE

Armando Veneto, vessillo e guida dell’avvocatura calabrese e nazionale, è stato assolto dalla Corte di appello di Catanzaro. È dunque arrivato anche il riconoscimento del sistema che si era attivato per strappargli la toga e l’onore del grande avvocato. È un giorno fausto per tutti noi. E per i molti altri che non hanno mai pensato che servisse una sentenza per sapere dell’estraneità all’accusa infamante rivolta ad un uomo di impareggiabili qualità umane, intellettuali, professionali. I penalisti italiani non gli hanno mai fatto mancare il calore e la vicinanza e il sostegno durante i quattro anni di calvario trascorsi nell’attesa che la macchina infernale del processo all’innocente si inceppasse finalmente e si svelasse insulsa, indecifrabile, ciecamente violenta. Vergognosa in una parola. Ma la sentenza di oggi non cancella la condanna del processo ingiustamente inflitta, quella che non ha rimedio, che colpisce e umilia ancor più intensamente quando, come nel caso di Armando Veneto, è certo che un processo non poteva nemmeno essere iniziato. È però accaduto che un uomo degno per virtù ed opere ma scomodo per passione civile irriducibile e coraggio, abbia avuto in sorte di incrociare la miseria etica del pregiudizio, del fanatismo belligerante che ottenebra menti devastate dal cancro del sospetto. Così come infinite volte lui, campione nella contesa per il cittadino accusato, l’Avvocato Veneto ha avuto a fianco difensori valorosi e tenaci che hanno saputo misurarsi con le insidie del pre-potere capace di imbastire un processo senza prove ma con un bersaglio preciso; ed hanno saputo arginare la spinta pre- potente verso un risultato che suonasse da monito per tutti noi. A loro va nostra gratitudine. È un giorno fausto ma i nostri pugni sono serrati e la tensione non si scioglie. Non dimentichiamo, non possiamo dimenticare. Non dimenticheremo. Comunicato: Per Armando Veneto nel giorno della sua assoluzione

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GIORNATA IN RICORDO DELLE VITTIME DELL’ERRORE GIUDIZIARIO

“Io devo andare perché voi siate liberi” – Rocco Greco (m. 27.02.2019) Prevenzione dall’errore giudiziario NELLA RICORRRENZA DEL V ANNIVERSARIO DALLA MORTE DI ROCCO GRECO 27 FEBBRAIO 2019 – 27 FEBBRAIO 2024 È l’alba del 27 febbraio 2019. Rocco Greco, imprenditore di Gela, simbolo della lotta alla mafia, si toglie la vita all’interno della sua azienda, la Cosiam s.r.l., dopo aver letto l’ordinanza del Tar di Palermo con cui viene confermata una seconda interdittiva antimafia che paralizza l’impresa e, ancor più, l’Uomo. Insostenibile il peso di un sistema che, in nome dello Stato, fagocita sospette vittime compiacenti della mafia, sulla scorta di elementi la cui infondatezza è già stata conclamata dall’autorità giudiziaria con sentenza passata in giudicato. Un “artificio manifestamente infondato”, così si esprimeva la Suprema Corte già nel 2013 sulle calunniose propalazioni accusatorie mosse dagli estorsori di Rocco Greco nel tentativo di macchiarne l’integrità, per cui l’imprenditore è stato successivamente imputato e assolto dal processo penale, con formula piena, dall’accusa di concorso esterno e in seguito, sulle medesime circostanze, irrimediabilmente “condannato” dal sistema di prevenzione. Perché, con ogni evidenza, di condanna si tratta se si guarda alle drammatiche ripercussioni di tali misure sulla vita di chi ne viene travolto, oltre che sul tessuto economico-sociale in special modo delle aree più depresse del Paese. Purtroppo, a distanza di cinque anni, ci rendiamo conto di quanto la prevenzione patrimoniale continui a “far male” e coinvolga l’intero sistema giustizia. Ma non basta. Il recente caso di Beniamino Zuncheddu, vittima innocente dello Stato, condannato all’ergastolo per un terribile delitto e assolto dalla Corte d’Appello di Roma lo scorso 26 gennaio, all’esito del processo di revisione, dopo trentatré anni di privazione della libertà, ci impone di fermarci e riflettere dinanzi al tema, delicato e complesso, dell’errore giudiziario. Un caso emblematico di eccezionale gravità, tutt’altro che isolato. Basti pensare che dal 1992 al 2022 sono stati registrati in Italia, ogni anno, oltre 985 casi di innocenti catturati, incarcerati, e comunque privati della libertà, in forza di provvedimenti restrittivi successivamente obliterati da sentenze di assoluzione e seguiti da indennizzi per ingiusta detenzione per oltre 800 milioni di euro. Tale stato di cose, coinvolge significativamente anche la nostra regione, a lungo in cima alle classifiche. Questo dato, ci responsabilizza ancor di più, perché il tema dell’errore giudiziario non riguarda – e non può riguardare – solo l’Avvocatura, ma coinvolge tutto il Sistema giustizia, poiché unica è la funzione di tutela per i diritti: la Toga, espressione di democrazia e indipendenza. Attenzione da rivolgere in ogni sede, dentro e fuori i Palazzi di Giustizia, perché a tutti noi sta a cuore assicurare il giusto processo penale e il giusto procedimento di prevenzione, per ridurre le aree di rischio ed evitare gli inciampi e gli strappi che si consumano ogni qual volta si concretizza il dramma dell’errore giudiziario. Siamo ben consapevoli che senza uomini e mezzi, con riforme a costo zero e organici ridotti, non si può garantire una risposta soddisfacente alla crescente domanda di giustizia. Perché è inevitabile, proseguendo ostinatamente la corsa su questo binario cieco, che l’eccesso quantitativo degli affari da smaltire si riverberi sul dato qualitativo del risultato da offrire. Ma al tempo stesso siamo convinti che non possa avere diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento un sistema, come quello della prevenzione personale e patrimoniale, con un difetto d’origine che lo rende fonte inesauribile di errori giudiziari irrimediabili. Perché l’idea che la sommarietà dei procedimenti applicativi della pena del sospetto possa legittimarsi in virtù della rilevanza secondaria dei diritti incisi dal sistema della prevenzione e, cioè, il patrimonio ed il lavoro degli uomini, contrasta coi principi basilari che cementano il senso di comunità e che la Costituzione come tali riconosce nella sua prima parte. Ed è offensiva della memoria e delle sofferenze degli uomini che, come Rocco Greco, ne hanno patito le indiscriminate conseguenze. È il momento, allora, di tracciare il percorso comune della prevenzione dall’errore giudiziario. La memoria di tutte le vittime della giustizia – per ricordarne alcuni Enzo Tortora, Antonino Spanò, Daniele Barillà, Aldo Marongiu, Giuseppe Gulotta, Rocco Greco, Beniamino Zuncheddu – deve spingerci tutti a fermarci e a riflettere sullo stato di cose, diventando protagonisti di percorsi di cambiamento che possano migliorare la qualità della risposta che ogni giorno siamo chiamati a fornire a chi è in attesa di giustizia. Ecco perché tutte le Camere penali della Calabria avvertono l’esigenza di lanciare l’iniziativa del 27 febbraio prossimo e di sostenere la proposta dell’UCPI di indire una giornata nazionale in memoria delle vittime dell’errore giudiziario e delle misure di prevenzione. Ecco perché tutte le Camere penali della Calabria avvertono l’esigenza di lanciare l’iniziativa del 27 febbraio prossimo – di osservare alle ore 9:30, simultaneamente, in tutte le aule di udienza dei tribunali e delle corti di appello della Calabria, un minuto di silenzio, seguito dalla lettura del presente documento del Coordinamento regionale delle Camere penali della Calabria – e di sostenere la proposta dell’UCPI di indire una giornata nazionale in memoria delle vittime dell’errore giudiziario e delle misure di prevenzione.   Documento originale a cura del Coordinamento Camere Penali Calabresi Comunicato del 27.02.2024 LINK rassegna stampa: https://shorturl.at/nqzN5 https://shorturl.at/etX01

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La giustizia del governo e il governo della giustizia. Riflessioni a margine dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei penalisti italiani.

di Francesco Iacopino –  Si è conclusa sabato scorso l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, dedicata al “processo come ostacolo” e al “carcere come destino”. Abbiamo affrontato il tema della ‘fabbrica dei reati’ e della dimensione “carcerocentrica della pena”, confrontandoci anche con il Ministro della Giustizia e la classe politica, in una sessione specificamente dedicata al “governo della giustizia” e alla “giustizia del governo”. Il “governo della giustizia” dovrebbe trovare fonte di ispirazione e alimentare la “giustizia sociale” e non delegare la soluzione delle disuguaglianze e delle povertà del nostro tempo alla “giustizia penale”. E, invece, il fallimento o, meglio, la bancarotta fraudolenta della politica sociale è “coperta” sempre di più dalla truffa continuata dell’espansione penale. In una democrazia emotiva, qual è quella nella quale viviamo, alla domanda di sicurezza collettiva si risponde bulimicamente con l’aumento “dei delitti e delle pene”. Si ignorano ostinatamente le conseguenze tossiche prodotte dal sovradosaggio del diritto penale (oramai “totale”) e si insiste demagogicamente nella folle corsa alla produzione dei reati, all’inasprimento delle sanzioni, alla somministrazione sempre maggiore di sofferenza carceraria. Una risposta illusoria, inadatta, una mal practice che alimenta il disagio individuale e l’insicurezza collettiva. Un circolo vizioso e disumano produttivo di sovraffollamento, disperazione, suicidi (negli ultimi 30 anni la popolazione carceraria è raddoppiata e, nel 2024, si sono tolti la vita ben 17 detenuti: uno ogni due giorni). Ad aggravare il carico di dolore, i centri di permanenza per il rimpatrio: carceri mascherate, fatiscenti, scandalose, che certificano l’esistenza di esseri umani di “serie b”, portatori di “diritti di scarto”, di “libertà (non) fondamentali”, “violabili”. Se rimuoviamo il velo dell’ipocrisia ci affacciamo su luoghi di “detenzione amministrativa”, vere e proprie galere per extracomunitari irregolari che (non hanno commesso reati, ma) pagano con la libertà il prezzo di un titolo di soggiorno mai avuto. Discariche per rifiuti non pericolosi, centri di raccolta dei moderni disperati della storia. A inchiodarci al muro delle nostre responsabilità ancora una volta una morte tragica, quella di Ousmane Sylla, il 22enne della nuova Guinea impiccatosi – lasciando un biglietto straziante – nel CPR di Ponte Galeria! Dovremmo fermarci e sostare davanti a tanto dolore. Arrestare la folle corsa ossessivo-punitiva. Trovare il coraggio di ribellarci a un sistema pan-penalistico che ha alterato gli equilibri del rapporto tra autorità e libertà. Smascherare le pubblicità ingannevoli che hanno anestetizzato quotidianamente il nostro senso di umanità. Perché è disumano, oltre che illusorio, pensare che le tossicodipendenze, le malattie psichiatriche, i soggiorni irregolari dei migranti economici che fuggono dalla miseria, le povertà materiali e la solitudine esistenziale possano trovare soluzioni e garantire sicurezza alle nostre vite comode e borghesi, scaricandone il peso sull’istituzione penitenziaria o, peggio, buttando via le chiavi! Non è questa la civiltà del diritto che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli. Non è questo – un diritto penale onnivoro, vendicativo, spietato – quello che hanno immaginato i nostri padri costituenti quando ne hanno disegnato l’architettura nella nostra costituzione. E, allora, dopo due giorni intensi, ritorniamo alla quotidianità del ministero difensivo con la rinnovata consapevolezza di essere, gli Avvocati, l’ultimo baluardo, l’ultimo argine possibile alla deriva punitiva che ha dato l’abbrivio a un sistema che pretende di regolare le disuguaglianze e gli scarti sociali con la leva penale e di utilizzare il carcere come centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali. Dopo momenti alti di confronto e di formazione, che hanno irrobustito l’orgoglio di essere Avvocati, e Avvocati penalisti in particolare, ritorniamo nelle nostre trincee ancora più motivati e consapevoli del significato profondo, autentico della nostra missione e della nostra funzione, chiamati come siamo a assumere la difesa dell’uomo e delle sue libertà e, al contempo, a essere sentinelle e custodi del corredo assiologico che ha dato vita al moderno diritto penale liberale e al giusto processo.   Rassegna stampa: https://shorturl.at/bfRV6 https://shorturl.at/wxL08 https://shorturl.at/eBISV http://tinyurl.com/ymn4232e https://t.ly/8O86K  

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Uno Stato minimo nei contenuti sociali e massimo nell’esercizio del potere punitivo

di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –   Nonostante tutti gli esecutivi e le rispettive maggioranze degli ultimi trent’anni si siano sempre professate assolutamente liberali, hanno in vero realizzato delle politiche in materia di sicurezza in direzione opposta al paradigma garantista di matrice liberale che vorrebbe l’esercizio del potere punitivo da parte dello Stato, ovverossia il potere penale, da considerarsi quale extrema ratio di governo. In compenso, la medesima classe politica, nelle sue poliedriche declinazioni, al netto delle eccezioni imposte da una realtà non facilmente imbrigliabile, si è distinta nel sostenere e realizzare i più spinti propositi di ristrutturazione statale all’insegna del laisser faire, laisser passer. Nel corso degli ultimi decenni, il martellante battere della grancassa sull’interesse primario dell’impresa e sull’idea dello Stato considerato alla stregua di un’azienda, se ha condotto ad un’iniziale presa di coscienza della necessità di un’amministrazione della cosa pubblica secondo criteri anche di economicità, per superare decenni di sperperi, per altro verso ha instaurato un regime di governo improntato sulla prevalenza assoluta dei parametri economici. Dimenticando, però, che il perseguimento del bene comune non si misura semplicemente in termini numerici, perché comprende anche la tutela dei ceti più deboli, l’eliminazione delle sacche di emarginazione, la solidarietà sociale e in modo prevalente l’accesso di tutti ai diritti fondamentali. Con l’effetto per nulla inatteso di un processo di selvaggia privatizzazione di enti e servizi, di un’azione amministrativa rispondente alla logica aziendalistica, di una configurazione dei rapporti di lavoro improntati sulla flessibilità e lo scardinamento delle difese giuridiche, della compressione delle tutele e di un’erosione graduale dello stato sociale. In un contesto così delineato si sono profilati in maniera costante ripetuti tagli in settori evidentemente ritenuti non produttivi almeno nell’immediato. Una visione sicuramente miope degli interessi collettivi, accompagnata dalla mancanza di proiezione verso l’avvenire, ha indotto, così, a mortificare campi nevralgici come la ricerca e la sanità, ma soprattutto ad operare un graduale, ma continuo, taglio della spesa sociale. A questo progressivo arretramento dello Stato sulle politiche sociali a tutti i livelli ha fatto riscontro un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. Con l’idea ben precisa di affidare alla materia penalistica un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica. Si sono andate sviluppando, così, le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing, in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. L’esempio più recente è quello annunciato qualche settimana addietro con il comunicato n. 59 del Consiglio dei Ministri, per ora cristallizzato in un disegno di legge approvato dall’esecutivo, in attesa di passare dal vaglio parlamentare, che assai probabilmente lo approverà senza intaccarne la struttura e il finalismo. Tra le novità risaltano la norma che renderà da obbligatorio a facoltativo il differimento pena per le donne incinte e le madri con prole fino a un anno, così aprendo le porte degli istituti penitenziari ai bambini, di certo incolpevoli, al seguito delle madri. Trattasi di una normativa che è stata pensata con particolare riguardo alle donne di etnia rom, così rispolverando vecchie logiche parrebbe ispirate al diritto penale del nemico. Queste innovazioni sono nel solco di quanto già fatto dai precedenti esecutivi, al di là del colore politico. Difatti negli ultimi anni, oltre l’allargamento delle misure di prevenzione con l’introduzione del Daspo Urbano (Decreto c.d. Minniti 2017), sempre suscettibili di nuove applicazioni, come disposto dal Decreto c.d. Caivano, addirittura nei confronti dei minori. Si assiste alla continua creazione di nuove fattispecie punitive, del tutto superflue ad esempio la norma contro i rave party (art. 633 bis), oppure all’aumento delle pene, molto spesso incidendo proprio sul minimo. In questo senso la L. n. 107/2023, c.d. Riforma Orlando, che ha innalzato i minimi delle pene per le fattispecie di rapina, estorsione e furto in abitazione. Reati quest’ultimi contro il patrimonio che sono commessi, molto probabilmente, da soggetti che sono stati risucchiati in quella fascia di povertà assoluta che sempre più si allarga, causata delle crisi cicliche economiche e sociali che hanno investito il paese negli ultimi anni. La risposta dello Stato a questi nuovi poveri, emarginati o espulsi dal ciclo produttivo o che giungono sulle barche della disperazione sulle nostre coste, in fuga da fame, guerra e regime violenti irrispettosi dei diritti umani, al netto di qualche provvedimento ottriato di volta in volta così da calmierare gli animi, è il diritto penale, probabilmente perché, tra gli altri vantaggi, è anche a costo zero, almeno nell’immediato. In modo sistematico si è andato profilando, in tal modo, un vero e proprio diritto penale massimo, che, silenziosamente, ha sfruttato le ansie derivanti dai pericoli avvertiti dalla collettività, per attuare una espansione del potere punitivo, con il coinvolgimento di un numero sempre più ampio di soggetti inseriti nel circuito della penalità. Sotto questo aspetto la pena torna, però, ad essere crudele o forse non ha mai smesso di esserlo e il re è nudo. Il garantismo, nella politica legislativa dell’Italia repubblicana, è durato lo spazio di un mattino, dall’approvazione della prima riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 alla riforma del Codice di Procedura Penale del 1989, per poi cedere il passo al mantra della Zero Tolerance. (Pubblicato 8/02/24 in “Studi sulla questione criminale”, Nuova serie dei delitti e delle pene)

Uno Stato minimo nei contenuti sociali e massimo nell’esercizio del potere punitivo Leggi tutto »

“Liberi” di amare? – Breve nota alla pronuncia della Corte Costituzionale, n.10/2024, in tema di affettività in carcere.

Osservatorio Carcere – Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” – In data 26 gennaio 2024 la Corte Costituzionale con Sentenza n. 10/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354 per la mancata previsione di modalità per l’esercizio dell’affettività tra il detenuto ed il coniuge o il convivente. La questione sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale ha abbrivio dall’ordinanza di rimessione n. 2023/23 del Tribunale di Sorveglianza di Spoleto emessa a seguito del reclamo presentato da un detenuto presso la Casa Circondariale di Terni. Costui ha evidenziato di essere ristretto in esecuzione di ordine di carcerazione dal 11.07.2019 con fine pena previsto per il 10.04.2026, di non poter beneficiare, a causa di alcune infrazioni, di permessi premio di un programma di trattamento in suo favore e per tali ragioni lamentava le difficoltà nel mantenere, migliorare e ristabilire le relazioni familiari, potendo svolgere unicamente colloqui visivi con la propria compagna e con la figlia minore di anni tre. Il detenuto, invero, rappresentava che in occasione di tali colloqui non aveva modo di esercitare il proprio diritto all’affettività, non potendo usufruire di spazi adeguati ed essendovi un controllo a vista da parte del personale della Polizia Penitenziaria. Ciò determinava un serio pregiudizio per il sereno sviluppo della relazione di coppia e per la tutela del diritto alla genitorialità a cui il reclamante attribuiva particolare rilievo in funzione del futuro reinserimento sociale. Effettivamente il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto nella propria ordinanza di rimessione ha accertato che la condizione detentiva  si traduceva in un vero e proprio divieto all’esercizio dell’affettività in una dimensione riservata ed in particolare della sessualità con il partner anche perché i colloqui visivi con i familiari sono svolti con il controllo a vista del personale dell’istituto di detenzione, così come previsto dall’art. 18 comma 3 dell’ordinamento penitenziario. Previsione, quella del controllo visivo, del tutto inidonea ad assicurare l’esercizio dell’affettività, compresa la sessualità, nel rispetto della riservatezza da riconoscere anche nel contesto della detenzione carceraria. Peraltro, il Tribunale di sorveglianza di Spoleto, nel sollevare la questione di illegittimità Costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 4, 27 comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117 comma 1 della Costituzione, ha evidenziato che già in passato la Corte Costituzionale si era occupata di analoga doglianza avanzata dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze ed in tale occasione si era pronunciata dichiarandone l’inammissibilità (sentenza n. 301 del 2012) ritenendo che il diritto alla sessualità poteva essere garantito attraverso la concessione di permessi premio, ravvisando che l’esigenza prospettata era da considerare “reale e fortemente avvertita”, tanto da  invitare il Legislatore, rimasto inerte, ad intervenire, anche alla luce di indirizzi giurisprudenziali derivati dalle fonti sovranazionali. In realtà il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto nell’ordinanza di rimessione ha precisato che la circostanza di poter usufruire di permessi premio in realtà non affronta la problematica sottesa, quanto piuttosto determina uno spostamento dell’esercizio di un diritto fondamentale della persona verso l’orizzonte della premialità, che rappresenta carattere di eccezionalità rispetto al diritto alla sessualità, il cui effettivo esercizio non può essere neppure garantito con l’istituto del permesso per gravi motivi di cui all’art. 30 dell’ordinamento penitenziario, concedibile soltanto in casi stringenti ed eccezionali che non prevedono l’esercizio della sessualità. Ha rappresentato, dunque, il Tribunale di Sorveglianza che nel caso specifico l’interessato era un soggetto ristretto in media sicurezza, che non ha commesso reati che lo descrivano come collegato ad organizzazioni criminali, non era sottoposto a controllo visivo e auditivo, la sua corrispondenza non era controllata e, dunque, si è ravvisato che inibizione dei contatti intimi con la compagna non poteva incidere, aumentandolo, sul livello di sicurezza per la collettività. Alquanto diverso dall’ipotesi del detenuto sottoposto al 41-bis O.P.  per il quale le limitazioni all’esercizio del diritto all’affettività sono rese necessarie proprio per scongiurare il pericolo della veicolazione di messaggi illeciti o direttive verso l’esterno, tanto da richiedere la video registrazione dei colloqui con evidente compressione nell’esercizio della sfera di riservatezza. Consegue che l’indifferenziato divieto di svolgere colloqui intimi è da intendere in contrasto sia con la protezione della famiglia pregiudicando i rapporti di coppia, perché compromette il diritto alla genitorialità, vanifica l’attuazione effettiva del principio di rieducazione prescritto dall’art. 27 della Costituzione e contrasta con la tutela dei diritti fondamentali della persona per come riconosciuti dall’art. 8 del CEDU, secondo il quale ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare attuato in molti paesi europei, anche, attraverso le visite coniugali ai detenuti. D’altra parte il Tribunale di Sorveglianza  nella sua ordinanza ha denotato lo stringente contrasto con la normativa prevista dall’ordinamento penitenziario minorile che favorisce le relazioni affettive, garantendo visite prolungate in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, in grado di riprodurre, per quanto possibile un ambiente familiare, tanto da ravvisare una irragionevole disparità di trattamento tra quanto attuato negli istituti penitenziari minorili ed in quelli per gli adulti.   La valenza dell’articolato tessuto normativo, giurisprudenziale e argomentativo  espresso dal Tribunale di Sorveglianza di Spoleto è stato riconosciuto totalmente fondato, tanto da indurre la Corte Costituzionale, con una sentenza storica per il nostro Ordinamento,  a dichiarare   “l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354 nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Motiva al riguardo la Consulta che lo stato di detenzione non può annullare l’esercizio della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto e che la prescrizione del controllo visivo durante lo svolgimento dei colloqui con le persone legate al detenuto da stabile relazione affettiva, si risolve in una compressione sproporzionata ed in un sacrificio irragionevole della dignità della persona in violazione dell’art. 3 della Costituzione che si ripercuote, anche, sui familiari non

“Liberi” di amare? – Breve nota alla pronuncia della Corte Costituzionale, n.10/2024, in tema di affettività in carcere. Leggi tutto »

Nino D’Uva, l’avvocato dei maxi processi

di Antonio Ludovico – Nell’immaginario collettivo dei siciliani, la provincia di Messina viene definita da sempre come la “provincia babba“, ossia quel territorio lontano anni luce da dinamiche e strategie di tipo mafioso, quasi una zona franca e libera da appetiti criminali. Nulla di più sbagliato, esattamente come una lettura distorta di un libro di storia. E la vicenda dell’avvocato Nino D’Uva sta qui a dimostrarlo, purtroppo, nella sua drammatica interezza. Infatti, a metà degli anni ottanta, l’Italia giudiziaria era travolta dai cosiddetti maxi processi, una sequela spasmodica di inchieste fiume – scaturite per lo più dalle dichiarazioni dei primi pentiti di mafia – che generavano maxi retate e, conseguentemente, dibattimenti elefantiaci con centinaia e centinaia di imputati alla sbarra. Contrariamente alla vulgata ricorrente, anche Messina – così come Palermo- ebbe in quegli anni turbolenti il suo maxi processo (a dire il vero fu il secondo, dopo quello “ai 69” qualche anno prima). Ed infatti, alla sbarra finirono ben 283 imputati, tutti gravitanti nell’area peloritana, accusati di associazione mafiosa e traffico di droga. E tutti assiepati nell’aula bunker di Gazzi, dove – raccontano le cronache di allora – poteva succedere di tutto: urla, schiamazzi, insulti, minacce e cose di questo genere. L’avvocato Nino D’Uva – un uomo raffinatissimo, colto, intelligente, spigliato come pochi, rappresentava ben 13 imputati ed era considerato da tutti un professionista dalla schiena dritta, un punto di riferimento, tant’è che assunse un ruolo che potremmo definire di raccordo tra la Corte e gli imputati. Nativo di Livorno, si trasferì con la famiglia a soli dieci anni in Sicilia dove si laureò a soli 21 anni con il massimo dei voti e scelse da subito la nobile professione forense, non disdegnando però di curare l’amore per la letteratura, il teatro, la pittura e l’arte in generale. Insomma, un uomo che non perdeva il suo tempo soltanto dietro i codici e gli atti processuali, ma che arricchiva il suo sapere spaziando i campi d’interesse nelle nobili arti. Tornando al maxi processo, c’è da precisare che quello che iniziò il 14 aprile del 1986, scaturiva dal famoso blitz della notte di San Paolino, dove furono arrestati personaggi famigerati come Gaetano Costa, detto “Facc’i sola”, amico di Raffaele Cutolo (protagonista in negativo di questa triste storia), Placido Cariolo, Carmelo Milone, boss di Barcellona, Lorenzino Ingemi e, in un clima letteralmente infuocato, il presidente Domenico Cucchiara riusciva a stento a mantenere l’ordine in aula. Basti pensare che qualcuno paragonò quel luogo ad un campo di calcio di periferia, visti i fischi, gli strepiti e le invettive che gli imputati rivolgevano al pentito Giuseppe Insolito, ma anche agli avvocati difensori, rei (a loro dire) di una strategia troppo morbida ed accomodante. Ed in questo clima di tensione, nel corso di un’udienza affollatissima, un imputato scagliò una scarpa proprio all’avvocato Nino D’Uva, colpendolo in pieno. Neanche a dirsi, quella era non una plateale rimostranza, ma il segnale che il killer attendeva tra le fila del pubblico per mettere a segno il suo terribile omicidio. Cosa che avverrà, tra le 19 e le 20, del 6 maggio 1986, nello studio del prestigioso avvocato messinese, in via San Giacomo, quando qualcuno bussò alla porta, entrò, prese un cuscino che utilizzò come silenziatore e, mentre D’Uva, era voltato di spalle, intento a fare una telefonata, gli esplose un colpo di pistola alla nuca stramazzandolo a terra. Poi, uscì dallo studio dove all’esterno c’era il complice ad aspettarlo a bordo di una Mini verde per fuggire via. Un’ora più tardi, di quel corpo riverso a terra in una pozza di sangue se ne accorse la colf che avvisò subito la Questura. Le indagini furono particolarmente complesse e, solo grazie all’ausilio di un pentito (Umberto Santacaterina), portarono all’arresto di un giovanissimo di soli 19 anni, Placido Dino Calogero, ma il mandante fu il terribile boss Gaetano Costa, l’ultimo vero padrino della mafia messinese, che da dietro le sbarre del carcere dell’Asinara (insieme ai suoi accoliti, in particolare il fidato Mario Marchese), ordinò altri sette omicidi riguardanti presunti sodali di una cosca agguerritissima e sanguinaria. Ma non finisce qui, poiché – 14 anni dopo – a seguito delle dichiarazioni di un altro pentito, Pasquale Barreca, si scoprì un’altra pista investigativa, quella che portava direttamente in Calabria, per la precisione a Melito Porto Salvo, regno incontrastato del boss Natale Lamonte, condannato a sette anni di reclusione dal genero di Nino D’Uva, il giudice del tribunale di Palmi Melchiorre Briguglio (marito di Giuseppina D’Uva, anch’essa magistrato presso lo stesso tribunale) in un processo nel quale l’avvocato messinese non accettò il mandato difensivo per evidenti ragioni d’incompatibilità. Storie che sembrano provenire da un passato remoto, ma che invece somigliano tanto a schegge e frammenti di una realtà che a volte riusciva nell’impresa di superare la fantasia. L’esempio di avvocati come Nino D’Uva ci rende comunque fieri di sentirsi parte della più nobile delle professioni, così come la sua straordinaria capacità di restare fedele ai valori del principio di legalità; princìpi che andavano oltre la tracotanza di taluni soggetti che pensavano di poter mettere a tacere quei capisaldi con l’uso della violenza. Nino D’Uva morì a soli 61 anni, un’età che si può tranquillamente considerare “giovane” per chi – come il professionista messinese – svolgeva il suo lavoro con grande passione, un’abnegazione assoluta ed una competenza riconosciuta da tutti. “Ricordare è fondamentale “sottolinea da sempre il figlio Gerardo ed è per questo che è nata – nel 2006 – un’associazione culturale forense che porta il nome del grande penalista e l’aula del Tribunale di sorveglianza di Messina è stata giustamente intitolata alla sua memoria. Per la cronaca: dei 283 imputati, ben 180 furono assolti con le formule più svariate, in un clima da autentica corrida, tra striscioni di protesta e tentativi palesi di ritardare la sentenza per arrivare alla scadenza termini; ma l’anima gentile dell’avvocato Nino D’Uva non riuscì mai ad ascoltare quel verdetto.

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Il giornalista Paolo Orofino spiato col trojan. Attacco degli apparati investigativi e silenzio stampa, (quasi) totale. Chi imbavaglia, per davvero, la libertà di informazione?

Si levano scudi ogni qualvolta si denunzia l’abuso delle intercettazioni e si invoca la necessaria “separazione delle carriere” tra Uffici di Procura e mezzi di informazione. Un munitissimo blocco di potere dispone di tanta forza da essere capace anche di manipolare il dibattito pubblico sull’argomento, demonizzando l’opinione critica e anche addirittura attribuendo ad una maggioranza di governo – della cui ispirazione autoritaria nessuno in buona fede potrebbe dubitare – l’intento di smantellare la lotta al crimine. Certa stampa che campa di veline, ça va sans dire, si presta a sostenere simili incredibili paradossi. Non è sorprendente, allora, che passino (quasi) inosservati gli abusi dell’autorità inquirente contro la libertà di informazione. Sembra non interessare agli agiografi della democratura giudiziaria il fatto che un giornalista, nella specie Paolo Orofino de Il Quotidiano del Sud, nell’esercizio della sua professione e a motivo del suo lavoro, venga intercettato con il più potente, invasivo, indiscriminato strumento di spionaggio che la tecnologia militare ha messo a disposizione della lotta contro il Male della società. Non interessa scoprire che “la bomba atomica dell’investigazione” possa attivarsi nei confronti di soggetto estraneo all’indagine (Orofino non è mai stato mai indagato nel procedimento in questione, che riguardava un Magistrato, ma è stato “spiato” solo per aver “dialogato” con lui) e sulla base di ipotesi di reato tanto evanescente da essere considerata manifestamente infondata all’esito dell’indagine esplorativa. Nemmeno interessa la rilevanza dei diritti fondamentali soppressi da tale uso esplorativo/preventivo dell’intercettazione: la libertà e segretezza delle comunicazioni, la riservatezza della vita privata e la libertà dell’informazione che non tollerano controlli preventivi o censure. Nemmeno quando siano in gioco tali valori fondativi della democrazia liberale preoccupa l’uso di uno strumento che non risparmia alcun aspetto della vita dello spiato, relazioni personali, lavoro, opinioni, affetti, sentimenti, emozioni. Un patrimonio di dati sensibilissimi di cui il bersaglio dell’indagine viene espropriato e del quale nemmeno potrà controllare l’uso che l’autorità vorrà a farne. Perché l’apparato sarà libero di attingervi e impedire l’accesso allo stesso titolare del diritto violato. Di fronte a uno strappo così forte con la libertà e le stesse fondamenta della democrazia, ci si sarebbe attesi una reazione immediata, istintiva, corale, un’insurrezione dei colleghi giornalisti e della stampa in difesa della libertà di tutti, messa in discussione dalle modalità insidiose e invasive con le quali è stata schiacciata e compressa quella del singolo, in questo caso di Orofino. E, invece, questa reazione (caratteristica di ogni paese civile) non è arrivata. Anzi. È accaduto il contrario. Il silenzio è stato (quasi) assordante. Abbiamo così compreso che ci sono bavagli finti, sui quali si strilla, per non modificare il comodo status quo (sul cui altare un collega può ben essere sacrificato), e bavagli veri, che invece funzionano bene, e fanno paura. Eccome. E allora occorre uno scatto di orgoglio, un richiamo alla verità del nostro tempo e alla serietà delle nostre funzioni. Se all’Avvocatura compete il ruolo di “sentinella dei diritti”, ai Giornalisti è assegnato il compito di essere il “cane da guardia della democrazia”. Avremmo dovuto (e voluto) sentire ringhiare. Speriamo, ancora, in un colpo di reni e che ciò accada. Altrimenti avremo consentito un ulteriore stato di avanzamento nel percorso di “tolleranza autoritaria” che la nostra società civile (?) sta indifferentemente consentendo. Non è ancora persa l’occasione per confrontarsi su questi temi. Anche i più ostinati alfieri dell’autoritarismo repressivo, quelli che proprio non riescono a volgere lo sguardo verso le macerie prodotte dalla visione massimalista della giustizia penale di lotta, potrebbero cogliere l’occasione, e lo speriamo davvero, per una pausa di riflessione. Rassegna stampa:  https://shorturl.at/FJL49 https://shorturl.at/afgyU   Camera Penale di Castrovillari Il Presidente – Avv. Michele Donadio Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” Il Presidente – Avv. Francesco Iacopino Camera Penale di Cosenza “Avvocato Fausto Gullo” Il Presidente – Avv. Roberto Le Pera Camera Penale di Crotone “G. Scola” Il Presidente – Avv. Romualdo Truncè Camera Penale di Lamezia Terme “Avvocato Felice Manfredi” Il Presidente – Avv. Renzo Andricciola Camera Penale di Locri “G. Simonetti” Il Presidente – Avv. Antonio Alvaro Camera Penale di Palmi “V. Silipigni” Il Presidente – Avv. Giuseppe Milicia Camera Penale di Paola “E. Lo Giudice” Il Presidente – Avv. Massimo Zicarelli Camera Penale di Reggio Calabria “G. Sardiello” Il Presidente – Avv. Pasquale Foti Camera Penale di Rossano Il Presidente – Avv. Giovanni Zagarese Camera Penale di Vibo Valentia “F. Casuscelli” Il Presidente – Avv. Giuseppe Mario Aloi Il Coordinatore delle Camere Penali Calabresi Avv. Giuseppe Milicia

Il giornalista Paolo Orofino spiato col trojan. Attacco degli apparati investigativi e silenzio stampa, (quasi) totale. Chi imbavaglia, per davvero, la libertà di informazione? Leggi tutto »

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