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QUEI RICORDI CONDIZIONATI DALLA RICERCA DI UNA “VERITÀ” A OGNI COSTO SONO IL VERO MALE

  di Glauco Giostra   Era innocente. Beniamino Zuncheddu ha scontato più di 32 anni di dura detenzione perché ritenuto colpevole dell’uccisione di tre pastori e del ferimento di un quarto. All’epoca, il pastore superstite, dopo aver inizialmente negato la possibilità di individuare l’aggressore in quanto questi aveva il volto coperto da una calza, sollecitato più volte a riconoscere in Beniamino Zuncheddu l’omicida, sia mostrandogli una sua foto, sia precisando che aveva un movente e nessun alibi, se ne convinse («io mi convinsi») e puntò l’indice accusatore contro di lui in ogni grado del processo, che si concluse con la condanna all’ergastolo dell’imputato. Nell’odierno giudizio di revisione il testimone d’accusa, ritrattando la sua deposizione alla luce delle nuove emergenze, ha pronunciato una frase che dovrebbe far riflettere: «per tutto il processo ero convinto che a sparare fosse stato Zuncheddu (…). Se dovessi tornare indietro probabilmente farei lo stesso errore». Per quanto dolorosamente clamorosa, non si richiama questa notizia per gridare allo scandalo di un grave errore giudiziario: dobbiamo rassegnarci alla fallibilità della giustizia amministrata da uomini. E neppure si intende dedurre da questa angosciante vicenda che sarebbe bene diffidare sempre delle sentenze dei tribunali: ogni altro modo di rendere giustizia è meno credibile. Prendendo doverosamente atto che non è nelle nostre possibilità conoscere la verità, o meglio avere la certezza di averla conseguita, quello che possiamo, e che quindi dobbiamo fare, è predisporre l’itinerario cognitivo ritenuto più affidabile, nelle condizioni e conoscenze date, per approssimarci alla verità e pretendere che un soggetto terzo, il giudice, si attenga ad esso per rendere giustizia. La sentenza emessa al termine della procedura prescritta, dice un brocardo latino pro veritate habetur, deve, cioè, essere recepita come verità dal popolo nel cui nome è stata emessa (salvo che il sopravvenire di prove non dimostri, come in questo caso, che è stato condannato un innocente). Questo significa dover accettare che vi può essere una sentenza pienamente valida e corretta, ma orfana di verità. Dobbiamo sapere che non possiamo evitarlo; è la dolorosa conseguenza della nostra necessità di giudicare senza avere strumenti in grado di assicurarci la verità. Quello che però possiamo, e quindi dobbiamo garantire è di aver dato fondo a tutte le nostre modeste risorse per apprestare un metodo in grado di ridurre al minimo il rischio dell’errore. E invece dolorosissime vicende giudiziarie come queste stanno a ricordarci che ancora possiamo e, quindi, dobbiamo, migliorare. Il vigente codice di procedura penale aveva ovviato ad una ingenuità del codice Rocco: si riteneva che fosse irrilevante la tecnica di acquisizione dei “reperti cognitivi” che il fatto storico, come un mosaico frantumato, lascia nella realtà fisica e nella percezione sensoriale umana. Si pensava che più tessere del mosaico venivano comunque recuperate, più attendibile sarebbe stato il compito del giudice che doveva ricomporlo. Convinzione che sarebbe senz’altro da sottoscrivere se la persona informata sui fatti fosse una res loquens e il suo prodotto narrativo non fosse destinato a cambiare a seconda di chi, come, dove, quando la compulsa. Le scienze della mente, invece, avevano dimostrato che la rievocazione del ricordo viene sensibilmente influenzata dalla tecnica maieutica con cui lo si “estrae”: con il mutare del forcipe muta, talvolta anche in modo radicale, la conformazione del feto della memoria. Si convenne allora – e ancor oggi nessuna evidenza scientifica induce a riconsiderare quella scelta – che la migliore levatrice del ricordo fosse la formazione dialettica della prova testimoniale: ciò che viene unilateralmente raccolto dall’inquirente pubblico o privato per mettere a punto la linea accusatoria o difensiva è materiale conoscitivo inaffidabile. Ad avere pieno valore probatorio, di regola, è soltanto ciò che il teste, incalzato dalle domande delle parti, riferisce al giudice. Se il Codice vigente ha rimosso l’ingenuità epistemologica su cui poggiava quello precedente, temo che esso stesso poggi su un presupposto non meno fallace: l’inossidabilità del ricordo; cioè l’inalterabilità del patrimonio mnestico. L’attuale sistema è implicitamente costruito intorno all’idea che sia irrilevante ciò che càpita al testimone tra la sua percezione e quando sarà chiamato a rievocarla nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice della decisione. Ciò presuppone che il ricordo costituisca una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato della memoria; che il problema per il testimone sia soltanto quello di ritrovarlo alla luce della potente “torcia” del contraddittorio e di consegnarlo al giudice. Il ricordo, invece, è materia viva, deteriorabile e plasmabile. «La memoria, che è suscettibile e a cui non piace essere colta in fallo – scriveva Josè Saramagotende a riempire le dimenticanze con creazioni di realtà spurie». Un falso ricordo viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche o – come nella vicenda Zuncheddu – dalle incalzanti suggestioni di chi è deputato a cercare la verità, ma spesso è sopraffatto dall’urgenza di trovare un colpevole. Ci sono infatti domande che tendono a condizionare la risposta, quando non a suggerirla. Questa subdola suggestione risulterà tanto più condizionante quanto più autorevole sarà la figura dell’interrogante agli occhi dell’interrogato, che successivamente opererà in modo inconsapevole ogni possibile rielaborazione mnestica per cercare di non discostarsi da quanto l’interrogante aveva lasciato intendere fosse la “sua” verità. «Tornando indietro probabilmente farei lo stesso errore», ammette convinto il decisivo teste d’accusa. E ciò spiega come mai anche il miglior metodo di formazione della prova sia risultato imbelle: il contraddittorio è in grado di garantire la sincerità, non la veridicità delle risposte. Nessun esame incrociato sarà in grado di far riferire quanto originariamente percepito a un dichiarante che crede nella verità del suo falso ricordo. Ora che la tecnologia lo consente, bisognerebbe allora almeno prevedere come obbligatoria la videoregistrazione delle dichiarazioni assunte nel corso dell’indagine. È probabile che se ai giudici che hanno emesso la sentenza contro Zuncheddu la difesa avesse potuto mostrare come era stato più volte “interrogato” il principale teste d’accusa, avrebbero usato la dovuta diffidenza verso quella memoria insufflata dall’inquirente e probabilmente avremmo evitato ad un innocente questa dolorosissima, ingiusta esperienza, e a noi l’ascolto di una vicenda che strazia i timpani della nostra coscienza. (Copyright (c)2024 Il

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INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO

Intervento del Presidente Avv. Francesco Iacopino Signor Presidente della Corte di Appello, Signor Procuratore Generale, Autorità tutte, l’inaugurazione dell’anno giudiziario che celebriamo oggi nel “nostro” distretto rappresenta inevitabilmente un momento di bilanci: il bilancio consuntivo dell’anno che ci lasciamo alle spalle e il preventivo di quello che si affaccia all’orizzonte. Quanto al primo, dobbiamo con onestà riconoscere che l’anno trascorso, anzi, gli anni trascorsi, sono stati caratterizzati da una forte tensione interna alla giurisdizione. L’esigenza di contrastare fenomeni criminali ben radicati nel nostro tessuto sociale – quali la pervasività mafiosa e la percezione di una corruzione diffusa – ha determinato uno sbilanciamento nel rapporto tra autorità e libertà. La forte spinta sulle esigenze di difesa sociale ha comportato di riflesso un allentamento dei livelli di tutela delle libertà individuali. L’avvocatura penalista, funzionalmente chiamata a promuovere l’equilibrio tecnico dell’esercizio del potere giudiziario e l’osservanza delle regole del processo, ha più volte segnalato la torsione autoritaria e le conseguenze tossiche prodotte da un diritto punitivo etico, da un approccio chemioterapico intensivo che ha colpito “orizzontalmente” anche le cellule sane del nostro corpo sociale, con effetti devastanti sul piano personale, familiare, professionale, politico ed economico. Ha sostenuto con forza il grido di dolore proveniente dalle vittime collaterali dell’offensiva lanciata ai fenomeni che si intendevano contrastare. Un grido che non poteva rimanere inascoltato. In linea con i valori costituzionali e convenzionali ha affermato con forza l’irrinunciabilità del principio di presunzione di innocenza, sistematicamente violato dalle trionfali conferenze stampa, nelle quali molti uomini e donne sono stati esposti come colpevoli e condannati senza contraddittorio e senza appello dal Tribunale del popolo e dalla “giuria pubblica”, salvo poi risultare innocenti all’esito del giudizio penale. Ha segnalato le storture prodotte dall’uso disinvolto dell’istituto della “connessione” e dalla conseguente abnormità dei maxi-processi (sempre più elefantiaci), evidenziando il rapporto direttamente proporzionale tra il numero degli imputati e il numero degli errori giudiziari e la conseguente fisiologica difficoltà per i Giudici -specie nella fase più delicata, quella cautelare- di scrutinare la posizione di centinaia di imputati, compulsando migliaia di atti di indagine sui quali si decide della libertà dell’individuo. Ha posto l’accento sul necessario controllo preventivo del materiale intercettivo; tema che richiederà una riflessione seria e profonda, dal momento che la mancata previa verifica di “fedeltà” del dato trascritto, sovente in forma sommaria, rispetto a quello captato è capace di produrre, nell’immediato, effetti tossici irreparabili sulle libertà personali ed economiche dei soggetti attratti nel circuito penale. Ancora, ha richiamato l’attenzione sul “sotto-sistema” della prevenzione patrimoniale non ablativa, segnalando che l’uso intensivo delle interdittive antimafia (in una logica di mero sospetto) sta disincentivando gli investimenti al Sud e desertificando l’economia legale, con il rischio paradossale di liberare spazi di mercato in favore delle imprese criminali. Se non si tenderà la mano all’imprenditoria sana, insidiata dalla criminalità, si schiaccerà il sistema produttivo in una morsa soffocante, in contrasto con la logica recuperatoria che ispira la relativa disciplina legislativa. Di fronte a tali e tante criticità, senza peraltro pretesa di esaurirle, chi, se non l’avvocatura si doveva far carico di segnalarle, ponendo l’accento sull’esigenza di attivare gli anticorpi necessari a scongiurare il ripetersi degli effetti collaterali di un’offensiva penale che – in una eterogenesi dei fini – ha colpito vite, affetti, carriere, aziende, tutti travolti dal tritacarne giudiziario. E allora, nel predisporre il bilancio preventivo dell’anno che ci attende, non possiamo prescindere da una domanda sull’orizzonte di senso verso il quale vogliamo guardare da qui in avanti. Quale fisionomia e fisiologia di anno giudiziario ci aspettiamo? Come vogliamo riempire le pagine del libro della giustizia nell’anno che verrà? Certamente nessun cedimento sul terreno del contrasto ai fenomeni criminali. Le questioni che abbiamo sempre agitato, infatti, non riguardano il se ma il come detto contrasto si è inteso azionare. Rispettare la presunzione di innocenza, ridurre il numero degli imputati nei singoli processi, garantire un controllo maggiore del pubblico ministero nella fase investigativa, specie sul materiale intercettivo, permettere ai giudici di confrontarsi con fascicoli “gestibili”, per fare alcuni esempi, sono tutti meccanismi “correttivi” sui quali si può (e si deve) intervenire. Si tratta di riportare in asse il rapporto tra autorità e libertà, tra sicurezza e diritti fondamentali dell’individuo, nella consapevolezza che il ritrovato equilibrio nell’uso della leva penale potrà ridurre il margine di errore giudiziario e consentire un recupero di fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia. In questa direzione dobbiamo ritrovare, avvocati e magistrati, la dimensione di fiducia reciproca e di leale collaborazione, un lessico e una grammatica comuni, superando la cultura del sospetto che in qualche modo si è insinuata velenosamente tra noi e all’interno delle nostre aule. Dobbiamo ritornare alla gloriosa tradizione del nostro Foro, caratterizzata da un rapporto improntato al dialogo costruttivo e al reciproco rispetto, nella consapevolezza di essere componenti dell’unico corpo, che è la giurisdizione. Di fronte a un sistema penale che assume connotazioni parossistiche, governato da una bulimia politico-criminale che pretende di regolare il disagio e la marginalità sociale con la sola leva penale, occorre trovare la forza per resistere all’eccesso punitivo e per opporsi a una visione “vendicativa” del processo e “carcerocentrica” della pena, recuperando la dimensione del diritto penale come “limite” alla pretesa punitiva dello Stato. A tal proposito, non possiamo trascurare il mondo sofferente del carcere, sempre più affollato. Gli Istituti di pena, spesso anche fatiscenti, continuano ad assumere la funzione di discarica sociale, un centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali del nostro tempo: tossicodipendenti, migranti, poveri, malati psichiatrici. Categorie che possono essere sintetizzate in un unico sintagma: vite di scarto. Per non parlare degli imputati minorenni reclusi nell’I.P.M., per lo più stranieri senza una rete familiare e affettiva, vite segnate dalla povertà materiale e dalla solitudine esistenziale. Dobbiamo sentire su di noi le ferite dell’umanità che incrocia il mondo della giustizia, vedere dietro ogni reato l’uomo con le sue fragilità, consapevoli che non è la (sola) dimensione retributiva che potrà restituirci una società più giusta e più sicura. Umanità e giustizia, un’endiadi indissolubile. Perché se è vero che non può esistere

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IL GRATUITO PATROCINIO: STORIA DI UN SISTEMA QUANTO MAI NECESSARIO

OSSERVATORIO GRATUITO PATROCINIO – di Manuel Curcio e Federico Sapia –  L’istituto del gratuito patrocinio, inteso nella sua accezione più ampia, risulta essere figlio di una tradizione ormai secolare, per non dire millenaria, ampiamente diffusa in tutto il mondo occidentale fin dai tempi antichi. L’esigenza di una tutela nei confronti degli individui meno abbienti ha da sempre accompagnato le civiltà, rappresentando un vero e proprio perno morale dell’intero sistema sociale, infatti, basti pensare come già nel tardo diritto romano si prevedeva la possibilità, spettante in capo a determinati soggetti ritenuti più “fragili”, quali, ad esempio, le vedove, gli orfani e persone definite come “miserabili”, di essere giudicati direttamente dal Tribunale imperiale romano in funzione della protezione sociale esercitata nei loro confronti da parte degli esponenti del regno Carolingio. Anche numerosi statuti medievali predisposero un sistema simile volto, appunto, ad assicurare la difesa a soggetti che per il loro contesto economico e sociale risultavano essere al di fuori del tessuto cittadino e, quindi, privi di un’apposita protezione. Una testimonianza di un simile approdo storico venne dalla città di Parma, quando, nel 1233, nacque la figura ad hoc del “Difensore del Povero”, creando così un apposito settore statale con competenze specifiche volte in tal senso. Parallelamente, anche altre realtà territoriali, sia Statali che Comunali, iniziarono a predisporre un sistema ove la difesa dei soggetti non abbienti veniva addossata interamente sulle classi degli avvocati e dei procuratori mediante l’istituzione di un apposito titolo onorifico. Passando invece ai tempi più moderni, è utile sottolineare come, con l’avvicinarsi dell’unificazione d’Italia, gli istituti posti in essere come forma di sostegno per l’accesso alla giustizia ai soggetti non abbienti vennero ricondotti a due macro categorie: da un lato si ebbe la costituzione di un onere in capo ai membri della classe forense di eseguire le loro prestazioni pro bono rispetto le persone rientranti nel novero della disciplina, dall’altro vennero istituiti degli uffici legali di rilievo pubblicistico, ove era lo Stato a intervenire direttamente per la retribuzione dei patrocinanti. Quest’ultimo istituto prese il nome di “Avvocatura dei Poveri” e nacque inizialmente all’interno del Regno di Sardegna, per poi espandersi a Vercelli, Novara e Cuneo, sotto forma d’ufficio avente carattere pubblicistico, mentre, ad Alessandria si diffuse nell’ambito delle fondazioni private. Continuando con l’analisi storica, vi è da dire come un’ulteriore formalizzazione del fenomeno si ebbe con il legislatore Piemontese mediante l’adozione della legge “Rattazzi” n° 3871 del 1859, tramite cui nacquero, presso ciascuna corte d’appello, degli appositi uffici, detenuti da un avvocato e da un procuratore dei poveri, i quali vennero inseriti direttamente nell’organigramma magistratuale con funzioni di patrocinio pro bono per i soggetti non abbienti e retribuiti interamente dalle casse statali. Dopo la nascita del Regno d’Italia, tuttavia, vi fu un netto cambio di tendenza e il fenomeno dell’Avvocatura dei poveri vide due fasi distinte e contrapposte. Infatti, in un primo momento, l’istituto venne ampliato con i R.D. n°620/1862 e n° 851/1862 alle province di Napoli e della Sicilia, tuttavia, successivamente, il sistema del patrocinio gratuito per i soggetti non abbienti vide, per la prima volta, un vero e proprio ridimensionamento che portò quasi alla sua scomparsa. Le casse del neonato Stato italiano non risultarono in grado di sostenere i costi economici del servizio e fu così che, con la Legge Cortese n° 2626/1865, il parlamento sancì l’eliminazione dell’Avvocatura dei Poveri sostenuta dallo Stato, con l’unica eccezione degli uffici istituiti mediante le fondazioni private che comunque continuarono ad operare. Da qui in poi la difesa pro bono dei soggetti meno abbienti divenne un vero e proprio incarico di valore prettamente “morale” atteso che l’istituto, a seguito dell’abolizione dei finanziamenti statali, acquisì in toto il carattere della gratuità. Era quindi il singolo professionista a dovesi accollare la difesa senza che vi fosse alcuna retribuzione economica. Anche nell’epoca fascista si proseguì con questa linea, tuttavia il “regime” volle riorganizzare organicamente la materia de quae, grazie al R.D. n° 3282/1923, venne istituito il gratuito patrocinio indicandolo come un vero e proprio ufficio onorifico ed obbligatorio rispetto la classe degli avvocati e dei procuratori. La particolarità di un simile approdo legislativo si manifestò essenzialmente nell’organicità della riorganizzazione, infatti, all’interno dell’istituto vennero ricompresi anche i giudizi penali, i cui destinatari del provvedimento di ammissione potevano essere l’imputato, la parte civile, il responsabile civile e la persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Ai fini della richiesta della difesa pro bono, il soggetto interessato avrebbe dovuto fornire la prova di un vero e proprio stato di povertà, tale per cui l’individuo doveva ritenersi impossibilitato a sopperire alle spese di lite del giudizio in questione. In concreto, occorreva che il cittadino non abbiente producesse un’attestazione del sindaco del comune nel quale risiedeva, previa esibizione di un certificato dell’agenzia delle imposte ove veniva indicato l’ammontare delle tasse pagate dal soggetto interessato così da provare, appunto, il suo stato di povertà. In più poi, nell’ambito dei giudizi civili e amministrativi, l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio venne subordinato al rilascio di un’ulteriore certificazione, disposta anch’essa da un’autorità amministrativa avente funzioni ad hoc, vincolata alla presunta probabilità di esito positivo della causa. Le particolarità eccentriche della procedura in questione, tali da renderla incompatibile rispetto poi ai successivi approdi costituzionali sul tema, furono, in primis, la suddetta potestà dell’autorità amministrativa nel rilascio dei certificati, con la conseguenza che l’accesso al beneficio finiva con l’essere subordinato all’esercizio di una potere di natura esecutiva e non di matrice giudiziaria e, successivamente, la scelta del difensore venne addossata come dominio esclusivo dell’autorità procedente, togliendo quindi la possibilità in capo al richiedente di godere di una difesa di fiducia nel caso di gratuito patrocinio. Con l’avvento della Carta Costituzionale del 1948, nonostante l’incompatibilità di alcuni principi, tra cui quelli poc’anzi citati, vennero comunque ribaditi alcuni capi saldi della disciplina, soprattutto rispetto l’obbligatorietà della difesa pro bono. In particolare, è con l’articolo 24 co. 1 e 3 che il Costituente individuò un vero e proprio obbligo gravante sullo Stato rispetto la tutela effettiva circa l’esercizio del diritto di difesa del singolo, con la conseguenza

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UN NODO ROSSO PER NON DIMENTICARE

  Giornata internazionale degli Avvocati minacciati – 24.1.2024 Nel 2023 sono stati 128 gli avvocati nel mondo minacciati, aggrediti, detenuti, scomparsi e uccisi. “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Martin Niemöller La Giornata internazionale degli Avvocati minacciati, istituita per ricordare il massacro di Atocha, a Madrid, del 24 gennaio 1977, in cui furono uccisi 5 avvocati nel periodo di transizione tra la dittatura franchista e la democrazia, acquista ogni anno un senso più profondo. Un urlo straziante che fatica ad essere inteso dalla generalità dei consociati, sommersi da pregiudizi sempre più pesanti da fronteggiare, che insozzano pericolosamente la figura del difensore. Per sensibilizzare sul tema, la Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro ha pensato di condividere una nuova iniziativa, invitando non solo i propri iscritti, ma tutte le Avvocate e gli Avvocati a indossare un piccolo fiocco di colore rosso, fino alla fine di gennaio. Che trovi spazio sulla toga, sulla borsa o altrove, la volontà è che possa diventare un “nodo” in aiuto alla memoria, brillante e stretto, per sollecitare una presa di coscienza davanti ad un problema attuale, ormai a tutte le latitudini, ma anche di consapevolezza circa la necessità di sostenere con un fronte comune le indebite aggressioni nei confronti di donne e uomini sempre più esposti e a rischio. Non sarà mai un esercizio di vuota retorica il tentativo di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle minacce, sulle violenze, e in molti casi, purtroppo, sugli omicidi di Avvocati, perseguitati e messi a tacere per la sola colpa di svolgere la professione in maniera indipendente e autonoma. Il dato è – a dir poco – allarmante: nel 2023 sono stati 128 gli avvocati nel mondo minacciati, aggrediti, detenuti, scomparsi e uccisi. Questa esponenziale crescita di episodi di violenza e di minaccia perpetrate nei confronti dei difensori è la triste cartina al tornasole di un mondo nel quale la figura del difensore è posta, costantemente, sotto la luce distorta del sospetto, sepolta dagli stilemi dell’efficientismo, sul cui altare vengono sacrificati valori un tempo fondanti del patto sociale. Ma è un mito oscuro, quello che prende vita nell’aggressione dovuta al mancato raggiungimento di un obiettivo processuale o al rifiuto di un incarico, che si nutre dell’angoscia di chi è stato costretto ad abbandonare il proprio paese per trasferirsi all’estero, dell’amarezza di chi ha dovuto appendere ad un chiodo arrugginito i traguardi professionali di una vita sapendo che, a partire dai suindicati episodi, non avrebbe più avuto l’occasione di raggiungerne altri perché sotto perenne bisogno di protezione. Assai recenti episodi di insopportabile oppressione e violenza sono accaduti in luoghi famigerati per le costanti violazioni e negazioni di diritti umani, nei quali gli Avvocati si sottopongono quotidianamente a estenuanti prove fisiche e psichiche pur di lottare per un mondo più giusto e ancorato ai principi di uguaglianza. La situazione si complica nel caso di professioniste di genere femminile. Dal medio oriente, risprofondato nella segregazione femminile, alla Colombia, dove le Avvocate che si battono per la verità sulle sparizioni “forzate”, sono costantemente minacciate e intimidite. Quest’anno i riflettori del terrore hanno allungato ombre sull’Iran, dove è in corso una feroce repressione in risposta al movimento di protesta che scuote le fondamenta della teocrazia sciita. Decine gli avvocati sbattuti in carcere (circa 60) per aver semplicemente offerto sostegno ai manifestanti fermati dalla polizia politica, “difesi” d’ufficio da legali approvati dal regime. Il volto della dissidenza e della resilienza dell’avvocatura iraniana è incarnato da Nasrin Sotoudeh, condannata a 38 anni di prigione e 148 frustate. Non è facile ottenere una banca dati esaustiva di tutti gli Avvocati vittime di abusi nel mondo, radiati da ordini professionali legati a doppio filo ai regimi, dei difensori di dissidenti politici, assimilati ai loro clienti e sbattuti in prigione, o di quelli addirittura assassinati, da gruppi privati, paramilitari, narcotrafficanti, organizzazioni criminali. Purtroppo, assai diverse sono le tipologie di abusi subiti dai difensori: tra le più frequenti le detenzioni arbitrarie, spesso al termine di processi sommari – se e quando questi hanno luogo. Come lamenta lo OIAD (Observatoire International des Avocats en Danger – in Italia “Osservatorio Internazionale Avvocati in Pericolo”) è una pratica corrente a latitudini diverse: “tali atti sono spesso conseguenza di dichiarazioni pubbliche, sia che si tratti di critiche alle forze dell’ordine o ai servizi di sicurezza – i quali, con le loro azioni vessatorie, zittiscono i dissidenti politici (Mohammed Ziane – Marocco) – sia che si tratti di smentire accuse formulate contro dei clienti (Joseph Sanane Chiko – Repubblica del Congo). Queste minacce si estendono anche ai familiari degli avvocati, come nel caso del Presidente dell’ordine di Diyarbakir (Nahit Eren – Turchia), membro dell’OIAD, del quale sono state divulgate sui social notizie importanti attinenti alla vita privata e familiare». Eppure, non è più necessario rivolgere lo sguardo a siti remoti per percepire l’ampiezza del fenomeno. Abusi sempre più insopportabili, purtroppo, sono frequenti e in preoccupante aumento anche nel nostro Paese. Basti pensare, ad esempio, agli innumerevoli casi di cronaca in cui i riflettori sono ricaduti, inesorabilmente, sul difensore di turno, vittima della gogna mediatica e del pubblico supplizio ogni qualvolta si sia trovato costretto a giustificarsi per l’esercizio della propria attività da difensore. Il più recente, solo in ordine di tempo, riguarda l’Avv. Giovanni Caruso, professore ordinario di Diritto Penale presso l’Università di Padova, nominato difensore di Filippo Turetta per l’omicidio di Giulia Cecchettin, destinatario di una “petizione” al fine di ottenere la rinuncia al mandato, giustificata da una presunta incompatibilità tra la partecipazione al dolore per la perdita della vittima e al tempo stesso una compiuta esplicazione del mandato professionale. Un abominio non soltanto giuridico, ma logico, figlio di un pensiero, che – in

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Maxi retate e carcere preventivo: tutto il potere agli apparati di sicurezza…

di Valerio Murgano Mentre doverosamente si discute sugli interventi legislativi finalizzati a limitare la divulgazione del contenuto delle ordinanze cautelari, non ci si avvede che qualcosa di più grave è già avvenuto: il potere giudiziario è stato appaltato agli apparati di pubblica sicurezza, con buona pace dei garantisti o presunti tali. Il governo del potere punitivo dello Stato, esercitato dagli apparati di polizia, è qualcosa di diverso dall’arbitrio interpretativo del giudice e dalle pulsioni populiste del legislatore, perché li trascende. La selezione unilaterale e parcellizzata dello sconfinato materiale investigativo posto a carico di centinaia di indagati, avallata dal finto vaglio del pubblico ministero e offerta all’impraticabile valutazione del Giudice delle indagini preliminari, si risolve “fisiologicamente” (sia consentito l’ossimoro) in un giudizio sommario nei confronti di “categorie criminologiche” assistite dalla presunzione di colpevolezza. Ne consegue l’annientamento definitivo dei tanti malcapitati di turno; tanto meglio se dotati di una robusta carica reputazionale. Cittadini, considerati sudditi, strappati alle famiglie e ai loro affetti, a cui è tolta la libertà, distrutto il credito sociale, spezzata la carriera, per sempre. Si certo, a fronte di centinaia di richieste di carcerazione – puntualmente proposte dagli investigatori nelle informative conclusive di reato – una manciata di indagati vengono graziati dall’applicazione della meno afflittiva custodia domiciliare. La selezione minimale tornerà utile al Tribunale del Riesame per rigettare qualche utopistica eccezione di nullità dell’ordinanza cautelare per mancanza dell’autonoma valutazione del giudice, in aderenza al dettato normativo dell’articolo 292 del codice di rito, come modificato nel 2015. All’apparenza il “semaforo giudiziario” funziona, ma è solo un’altra tragica boutade. La realtà è un’altra: migliaia di pagine imbastiscono fatti e circostanze sulla sagoma di fattispecie di reato accuratamente selezionate, pronte a divenire ordinanza cautelare e poi sentenza. La condanna mediatica è presto servita, quella formale si attende comodamente in carcere, spesso per anni, laddove quasi un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio. L’aumento della penalità, così concepita, realizza l’irrazionale criminalizzazione secondaria di intere categorie di individui, disorienta i consociati e accresce pulsioni antisociali, finendo per rafforzare proprio quei fenomeni che si intendono debellare. È un fatto acquisito: all’espansione irregolare del potere militare dello Stato e della penalità corrisponde la proporzionale ascesa della criminalità organizzata. Se nel processo il “metodo” autoritario si infrange sui residui argini edificati da difensori e giudici ostinatamente propensi a controllare l’esercizio del potere repressivo e di polizia dello Stato, il materiale unilateralmente raccolto non andrà perduto, in quanto esiste pur sempre il piano di riserva: riesumare gli archivi delle Procure della Repubblica per legittimare l’applicazione di misure di prevenzione, interdittive antimafia, decreti di scioglimento dei Consigli Comunali, capaci di compromettere gravemente le libertà personali, patrimoniali e politiche degli individui attinti. Il potere debordante degli apparati di polizia e degli uffici dell’accusa riduce sempre più lo spazio di agibilità dei diritti di libertà, stabilizzando un’inconcepibile dipendenza funzionale dell’autorità giudiziaria dalla polizia giudiziaria. Così gli equilibri costituzionali che regolano il cruciale rapporto tra potere coercitivo e diritti fondamentali delle persone sono definitivamente alterati. La sproporzione di mezzi tra gli uffici dell’accusa e la difesa del cittadino, compreso quello basilare dell’accesso al sapere investigativo, cresce esponenzialmente nei processi originati dalle maxi retate a misura degli indefiniti confini delle fattispecie associative. La mediatizzazione delle inchieste giudiziarie, la spettacolarizzazione dei super maxi processi, con richieste di condanna a reti unificate, fan si che si confonda l’arresto preventivo con la penale responsabilità, la qualità d’imputato con quella di condannato. Occorrerebbe chiedersi a chi giova la disattenzione da queste criticità che investono i “fondamentali” del “giusto processo” e cioè quelle precondizioni in assenza delle quali le garanzie previste dai codici si trasformano in forme vuote di contenuti, inidonei a controllare l’esercizio del potere repressivo dello Stato. Dunque, “se” il contrasto alla criminalità è obiettivo condiviso, non più differibile è una chiara e netta presa di posizione da parte di tutti gli attori della giurisdizione che riguardi il “come” e con quali “effetti” concreti sulla vita dei cittadini ciò stia avvenendo. Il silenzio rende TUTTI complici di una “giustizia” che genera un olocausto d’innocenti in misura che mai si è conosciuta in passato e dei cui terribili effetti, presto o tardi, dovremo fare i conti. (Pubblicato su “Il Dubbio” il 15.1.2024)

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Spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche

di Angela La Gamma   Il presente contributo mira ad offrire spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche, ex D.lgs. 231/2001 e di adeguatezza ed efficace applicazione del Modello di Organizzazione Gestione e controllo, partendo dall’analisi della pronuncia emessa dalla Corte di Cassazione, Quarta sezione penale, in data 5 ottobre 2023, avente numero 1636/2023 r.g sent. La sentenza in commento affronta la spinosa tematica della responsabilità dell’ente nelle ipotesi di morte (o infortunio) sul lavoro occorsa ad un dipendente e, nello specifico, della responsabilità derivante alla società dal presunto delitto di omicidio colposo commesso da soggetto apicale, il legale rappresentante dell’ente, nella qualità di datore di lavoro, fattispecie contemplata all’art. 25 septies del Dlgs 231/2001. La Suprema Corte, nell’annullare con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Firenze – la quale, confermando una pronuncia resa dal Tribunale di Pisa, aveva condannato, per il delitto di omicidio colposo ai danni di un operaio intento a rimuovere dei rifiuti boschivi derivanti da lavorazioni, tanto il datore di lavoro, quanto la persona giuridica- muove pesanti critiche ai giudici di secondo e primo grado. In particolare, la Cassazione, nella pronuncia in commento, rileva una serie di “errori giuridici” commessi dal Tribunale e reiterati dalla Corte d’Appello. In primo luogo, la Corte fiorentina è incorsa, secondo i Giudici di legittimità, in un’erronea valutazione, nel momento in cui ha edificato la responsabilità dell’ente su condotte che erano “riferibili, in astratto ancor prima che in concreto, esclusivamente alla persona fisica”: secondo le previsioni contenute nel D.lgs. 231/01, al contrario, la responsabilità dell’Ente va a sommarsi e non si confonde con quella della persona fisica che ha commesso l’illecito, è autonoma rispetto alla tradizionale responsabilità penale personale ed è legata alla commissione di un reato ricompreso nel catalogo dei reati presupposto previsti dal decreto medesimo. I Giudici di prime e seconde cure, inoltre, sono incorsi in un ulteriore errore valutativo, sempre secondo la Cassazione, allorquando hanno ritenuto coincidente il Modello di Organizzazione Gestione e controllo, di cui l’ente era dotato, con il sistema di gestione della sicurezza sul lavoro. Ancora, l’ultima censura che ha determinato l’annullamento con rinvio alla Corte d’appello di Firenze è relativa alla mancata prova circa la ricorrenza dei presupposti di imputazione della responsabilità, sanciti nell’art. 5 del D.lgs 231/01, il quale richiede, indefettibilmente, che il reato c.d. presupposto, quand’anche colposo, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’Ente. Pare opportuno soffermarsi, brevemente, su tali due ultime censure mosse dai Giudici di legittimità alla Corte territoriale fiorentina, ossia l’aver confuso, sovrapponendoli, gli ambiti di operatività, rispettivamente, del MOG e del sistema di gestione della sicurezza sul lavoro e l’aver trascurato la necessità che fosse provato l’interesse o il vantaggio per l’ente derivante dalla commissione dell’illecito. Con riferimento al primo punto, giova ricordare che il Modello di Organizzazione e Gestione, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs .231/01, è uno strumento di gestione aziendale che individua le procedure operative sviluppate per ridurre il rischio che soggetti apicali o sottoposti commettano reati a vantaggio o nell’interesse della società. Orbene, il MOG è affatto coincidente con il modello di gestione della sicurezza sul lavoro che è incentrato sul DVR (Documento Valutazione dei Rischi) e sul POS (Piano Operativo di Sicurezza): a differenza del primo, il modello di gestione della sicurezza sul lavoro individua i rischi connessi a quella specifica attività lavorativa e determina i mezzi e le misure idonee ad eliminarli o ridurli; al contrario il MOG, ha una portata molto più ampia, non limitata ad una specifica attività o settore di attività ed  è volto a prevenire il rischio di commissione di reati da parte di soggetti interni all’ente. Ciò attraverso la previsione di specifiche procedure aziendali di compliance, sottoposte al vaglio ed al controllo dell’Organismo di Vigilanza e caratterizzate da flussi informativi costanti che permettano di verificarne, non solo l’adozione ma anche e, forse, soprattutto, l’efficace attuazione. È vero che sotto il profilo della colpa dell’Ente, tanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione del MOG, quanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione modello di gestione della sicurezza sul lavoro, forniscono la prova della colpa in organizzazione da parte della società. Ma è altrettanto vero che ciò non significhi che i due piani siano coincidenti o, peggio, sovrapponibili, in quanto, come detto, i due modelli sono proiettati e normativamente destinati a finalità completamente differenti; né, tantomeno, bisogna ritenere che il verificarsi del reato implichi, ex sé, che il MOG adottato dall’Ente fosse inefficace o inidoneo a prevenire illeciti della stessa indole di quello in concreto verificatosi. Il D.lgs.231/01, infatti, all’art. 6, nel momento in cui “impone” l’adozione di un modello organizzativo valido ed efficace, non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma prevede, al contrario la c.d. colpa di organizzazione dell’Ente, intesa come mancata predisposizione di una serie di accorgimenti preventivi, idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quelli realizzati: è necessario cioè, al fine di sancire una responsabilità della persona giuridica, il riscontro, al suo interno, di un deficit organizzativo. L’addebito di responsabilità all’Ente, in altri termini – e come chiarito dalla giurisprudenza – non si fonda su un’estensione più o meno automatica della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente a fronte dell’obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato (cfr. Cass. Pen. sez. IV n. 570 del 2023), tanto è vero che, come detto, la responsabilità è esclusa se la società, prima della commissione del fatto, abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi (sul punto cfr. Cass. Pen. Sez. 6 n. 23401 dell’11/11/2021 cd. Impregilo – Cass pen. N. 21640 del 19 maggio 2023). È evidente, quindi, l’errore di fondo in cui sono incorsi i Giudici toscani, i quali hanno confuso i due piani di responsabilità e che deve essere ora sanato da una nuova sezione della Corte d’appello di Firenze, alla luce dei principi di diritto sanciti dalla Corte

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Serafino Famà, l’avvocato perfetto

  di Antonio Ludovico Sono le storie come quella dell’Avvocato Serafino Famà che ci danno la forza e l’orgoglio di essere avvocati. Una storia fatta di regole o, meglio, di ossequioso rispetto per le regole, una storia di rigore, di puntigliosità, di valori veri. Nato a Misterbianco, provincia di Catania, nel 1938, l’avvocato Serafino Famà rappresentò plasticamente e idealmente la figura di colui che difendeva ma non concedeva favori, che si spendeva ma senza violare norme e regolamenti. E, soprattutto, Famà era un avvocato consapevole del ruolo che occupava, per di più in una terra che “vanta” una galassia criminale e sanguinaria con nomi che al solo pronunciarli vengono i brividi. Stiamo parlando della terra dei Santapaola, dei Pulvirenti, dei Laudani, delle consorterie da loro capeggiate che impongono le loro assurde regole a tutti i consociati e che avrebbero volute imporle anche ad un avvocato come Serafino Famà. Dimenticando che Famà era una persona di un rigore e di un’inflessibilità che andavano oltre “il dedotto e il deducibile”. In parole povere, Famà era ligio al dovere e al codice deontologico, anche a costo di perdere il bene più sacro, ossia la vita. Cosa che avvenne la sera del 9 novembre del 1995, alle ore 21 allorquando, all’angolo tra via Raffaello Sanzio e via Oliveto Scammacca di Catania, un commando composto da quattro persone (Salvatore Catti e Salvatore Torrisi nella veste di esecutori materiali, mentre Alfio Giuffrida e Fulvio Amante erano i complici) gli esplose sei colpi di pistola cal. 7,65. Una esecuzione in puro stile mafioso, una esecuzione senza remissione di peccato, che non diede scampo al povero penalista. Alla base dell’omicidio dell’avvocato catanese, così come acclarato dalla sentenza della Corte di Assise del capoluogo etneo – che condannò i responsabili all’ergastolo – ci fu il gesto, giuridicamente ineccepibile, dell’avvocato Famà di non far deporre la coniuge – Stella Corrado – del suo allora assistito Matteo Di Mauro in favore di un pericoloso mafioso, Giuseppe Di Giacomo, ma di farle scegliere il silenzio, evitando alla donna una possibile imputazione per falsa testimonianza. Una storia talmente brutta che s’innesta tra il romanzesco e la tragedia, poiché si venne poi a sapere che il noto mafioso aveva una relazione proprio con Stella Corrado, moglie di suo cognato, nonché assistito dell’Avvocato Famà, Matteo Di Mauro. Il boss Di Giacomo non riuscì ad essere scarcerato proprio per il consiglio corretto che l’avvocato Famà diede alla donna. Da qui, l’ordine di fare fuori il penalista, diramato direttamente dal carcere di Firenze, dove il Di Giacomo era detenuto. Anni dopo, furono i giudici della Corte di Assise di Catania che fugarono il campo da ogni dubbio circa l’esemplare condotta del legale siciliano, condannando i responsabili di quell’orribile omicidio all’ergastolo e rimarcando il movente di quell’agguato in puro stile mafioso: “il corretto esercizio dell’attività professionale da parte dell’avvocato Famà”. Sarà forse pleonastico ricordare che quelli erano anni particolarmente complessi, dove anche gli avvocati avevano la consapevolezza che la mafia poteva colpire a più livelli, non soltanto tra loro e che anche un consiglio dato in piena regola poteva condurre alla morte, esattamente come una progressiva disintegrazione della normalità. Da aggiungere ancora che, dal dicembre di quello stesso anno, la Camera Penale di Catania prende il nome di Serafino Famà e che – nel 2011 – un bene confiscato alla mafia in provincia di Latina, venne intestato alla memoria del penalista siciliano, ma – particolare amarissimo – lo stesso fu fatto oggetto di atti intimidatori. Esiste, poi, ma è di difficile reperibilità un filmato – a cura di Flavia Famà e Simone Mercurio, che s’intitola “Tra due fuochi. Serafino Famà, storia di un avvocato” che ripercorre la vita di un uomo libero, che era orgoglioso di essere un avvocato vero, custode dei diritti affidatigli dalla Costituzione, fedele verso il cliente e altresì fedele nei confronti della legge. In buona sostanza, la sintesi dell’avvocato perfetto.

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Giorgio Ambrosoli, storia di un romanzo criminale

  di Antonio Ludovico   Esattamente come il più raffinato e imprevedibile romanzo criminale, la storia dell’Avvocato Giorgio Ambrosoli si staglia alta nel firmamento di quei servitori dello stato che non si piegarono mai alle logiche perverse e, purtroppo, pagarono con la vita la loro innata coerenza. Nato a Milano nel 1933, figlio di avvocato, Giorgio Ambrosoli era un uomo di una linearità e una rettitudine proverbiali; specializzato in diritto commerciale, si occupò sin da subito di reati fallimentari e di lui se ne accorse finanche la Banca d’Italia, con l’allora Governatore Guido Carli, che gli affidò l’incarico più delicato e spinoso, una di quelle gatte da pelare che, ahimè, gli costò la vita: quello di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Ma per comprendere bene gli scenari in cui si dimenava il giovane (all’epoca aveva solo 42 anni) avvocato milanese. Conviene avvolgere il nastro e raccontarla per bene questa storia che ha appassionato giallisti, criminologi, registi e perfino qualche pubblico ministero. Per intanto: chi era Michele Sindona? Che ruolo aveva con la finanza italiana e, soprattutto, con la politica nostrana? Siciliano di Patti, Messina, Michele Sindona era anch’egli un avvocato – ovviamente di tutt’altra pasta – che dopo la seconda guerra mondiale si specializzò in una materia poco conosciuta dalle sue parti, quella fiscale e, per tale ragione, si dovette trasferire a Milano. Nella capitale lombarda, il giovane fiscalista cominciò ad accattivarsi quella parte rilevante di borghesia meneghina facendo investimenti che ebbero successo immediato poiché riusciva a far risparmiare soldi pesanti ai suoi clienti. Non solo, ma lo scaltro siciliano era un perfetto conoscitore dei paradisi fiscali, come quello ubicato nella piccola regione del Lichtestein e da lì iniziò a rilevare società elettriche in cambio di pochi spiccioli, per poi passare al colosso della Bastogi (la più antica società italiana quotata in Borsa) ed infine a quote rilevanti di banche tedesche e americane. Insomma, un’escalation degna di un autentico mago della finanza, tant’è che di lui se ne accorse persino il governo italiano – nella persona del Presidente Andreotti – che, ben lungi dal considerarlo uno spregiudicato uomo d’affari ben inserito in ambienti malavitosi, lo definì addirittura “il salvatore della lira”. Naturalmente le cose non stavano come profetizzava il vecchio Presidente del Consiglio, ma dietro quell’apparente aura di imperturbabilità, si celava un’anima nera che riusciva a fare patti con chiunque gli assicurasse una stabilità economica. Che poi, a farci le spese fossero i poveri contribuenti italiani, poco importava all’uomo venuto dall’estremo sud. Ma, come spesso avviene, anche nelle favole più benevole, arriva sempre il momento in cui c’è da fare i conti con una realtà che prende le forme di un investimento sballato, quello sul dollaro, il quale – ad inizio degli anni settanta – ebbe un tracollo imprevisto e imprevedibile. Da qui, lo sgretolamento di un impero che aveva visto Sindona veleggiare alto anche lungo le coste americane e che costrinse lo stesso banchiere a chiedere prestiti a destra e a manca, al punto tale che dovette intervenire la Banca d’Italia per nominare un commissario liquidatore con pieni poteri per mettere ordine alla Banca Privata di proprietà dello stesso Sindona. Giorgio Ambrosoli – sia detto per inciso – prese quell’incarico con il massimo della responsabilità possibile e consapevole dei rischi cui andava incontro. Visse per cinque anni in una situazione di totale isolamento e rischio, tant’è che scrisse alla moglie una lettera nella quale manifestò tutte le sue drammatiche convinzioni: “pagherò a caro prezzo l’incarico. Lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto, anche perché per me è un’occasione unica per fare qualcosa per il Paese”. Parole che lette oggi, dove ideali di coerenza, libertà e responsabilità sembrano degli optional, risuonano strane e fuori contesto. Ma la corteccia di quel giovane avvocato era forte e resistente e – ad essere particolarmente precisi – non era completamente solo poiché al suo fianco aveva un altro grande servitore dello Stato, il maresciallo della Guardia di Finanza, Silvio Novembre, che lo aiutò a smascherare questa tela del ragno, una sorta di archivio segreto nel quale erano annotati i trucchi contabili, le operazioni speculative, le manovre poco chiare su cui si reggeva la Banca Privata Italiana. E Ambrosoli, intelligente e capace com’era, smascherò da subito il gioco sporco di Sindona, abile manipolatore che utilizzava i risparmiatori per accrescere soltanto la sua rete di rapporti, anche oltreoceano; non solo, ma quel Commissario Liquidatore si dimostrò un osso durissimo, spedendo al mittente vari tentativi di corruzione che si trasformarono poi in minacce di morte. “Se l’andava cercando” commenterà inopportunamente il solito Andreotti nel 2010, dando plasticamente l’idea di quanto rigore morale avesse quell’avvocato milanese. Avvertimenti e minacce che l’11 luglio del 1979 si concretizzarono in un agguato in piena regola, proprio sotto casa, quando un sicario americano mandato da Sindona gli esplose quattro colpi di pistola. Per la cronaca il killer di Giorgio Ambrosoli fu l’italo-americano William Joseph Aricò, noto come “Bill The Terminator” (con una paga di 50.000 dollari), perché da giovane vendeva, porta a porta, pillole al cianuro per la derattizzazione degli appartamenti, su espresso mandato di Michele Sindona. Tre giorni dopo, nella chiesa di San Vittore, a Milano naturalmente, non si vide incredibilmente nessuna personalità dello stato, nessun rappresentante del governo; le cronache ricordano solo lo sguardo attonito di Paolo Baffi, successore di Guido Carli alla Direzione della Banca d’Italia, travolto da un’inchiesta giudiziaria dalla quale uscirà completamente prosciolto, ma in odore di dimissioni, cosa che fece il mese successivo. E solo più tardi gli italiani scoprirono il letamaio che stava dietro quelle losche vicende, una sigla che i benpensanti cominciarono a conoscere come le loro tasche: la famigerata Loggia P2 di Roberto Calvi e Licio Gelli, oltre che pezzi significativi dello IOR dell’arcivescovo Paul Marcinkus e naturalmente la mafia siciliana, corleonese per la precisione. Per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli vennero poi condannati all’ergastolo Robert Venetucci (colui che chiamò Aricò per l’esecuzione) e Michele Sindona nella veste di mandante. Il banchiere siciliano fu rinchiuso

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Un avvocato, un martire

di Antonio Ludovico – Ci sono storie come quella dell’Avvocato Fulvio Croce che dovrebbero essere raccontate nelle scuole, lette e rilette alle giovani generazioni, ricordate a chi ha scarsa memoria. Perché quella dell’Avvocato Fulvio Croce è una storia che si stenta a credere, ricca com’è di fatti e circostanze che ci fanno calare mani e piedi in uno dei periodi più bui della nostra traballante democrazia. Siamo negli anni settanta, nelle maggiori città italiane imperversavano le Brigate Rosse, gli attentati alle personalità più disparate avevano cadenza quotidiana, le cronache impazzavano per la conta dei morti che insanguinavano un paese che sembrava sull’orlo di una capitolazione. Nel mezzo c’erano – particolare di non poco momento- processi da celebrare, imputati da sentire, sentenze da emettere. Così come quello che si aprì il 17 maggio del 1976 contro il nucleo storico delle Brigate Rosse presso la Corte di Assise di Torino. Imputati alla sbarra erano i componenti più celebri, nomi tristemente famigerati come Prospero Gallinari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Paolo Maurizio Ferrari e tanti altri, mentre il Presidente della Corte di Assise era il dott. Guido Barbaro. Roba per palati forti. Ebbene, alla prima udienza del processo- il 17 maggio 1976 – l’imputato Paolo Maurizio Ferrari, a nome di tutti i militanti, lesse un comunicato che stava a metà strada tra l’agghiacciante e il surreale: “ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e rifiutiamo ogni collaborazione con il potere”. Logica conseguenza di questa assurda presa di posizione fu la revoca di tutti i mandati difensivi agli avvocati con “l’invito” rivolto ai giudici di non essere disposti ad essere difesi da nessuno e “i difensori che accettavano la nomina erano ritenuti collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potevano derivare”. Una matassa complicatissima, un rebus indecifrabile per il solerte Presidente di una Corte che – udite, udite – aveva avuto enormi difficoltà a reperire sei giudici popolari (erano tutti affetti da “sindrome depressiva”), figuriamoci degli avvocati d’ufficio disposti a difendere sotto una evidente minaccia di morte. Fu necessario, a quel punto, ricorrere all’art 130 del codice di procedura penale che prevedeva la nomina, in casi analoghi, del Presidente del Consiglio dell’Ordine in sostituzione dei colleghi ricusati. E così si arrivò alla figura di Fulvio Croce, Presidente degli avvocati di Torino, ma poco avvezzo alle cause penali, poiché illustre civilista. Il quale, tuttavia, munito com’era di quella corazza inflessibile che solo il rispetto per la toga ti concede, accettò l’incarico, ben sapendo a cosa andava incontro. Della serie: il diritto prima della vita. Ma il commando delle Brigate Rosse non si fece attendere, poiché la sera del 28/6/1977 l’anziano Avvocato Fulvio Croce , mentre usciva dal suo studio di via Perrone, fu crivellato con cinque colpi di pistola alla nuca da un commando di quattro persone; tre uomini (Rocco Micaletto, il killer, Lorenzo Betassa, il palo, colui che gridò “Avvocato “, Raffaele Fiore colui che aspettava a bordo di una 500) ed una donna, Angela Vai, che si preoccupò di allontanare i collaboratori di Croce per non essere raggiunti dai colpi di pistola. Un’esecuzione terribile, un colpo al cuore dell’intera avvocatura italiana, una risposta secca e risoluta da parte di chi rifiutava pervicacemente di essere processato. La cronaca racconta che il processo comunque andò avanti, non in tribunale, ma presso una caserma e – dopo la rivendicazione da parte dello stesso Ferrari, il compagno Mao, del terribile omicidio, si concluse con delle pene neanche troppo alte (tra i dieci e i quindici anni e con ben quindici assoluzioni), mentre anni dopo gli esecutori materiali dell’omicidio, Rocco Micaletto e Angela Vai furono condannati all’ergastolo e Betassi morì in un conflitto a fuoco con la Polizia. Questa la storia, sia pure raccontata per sommi capi, di un autentico martire della toga, una figura che si staglia altissima nel panorama giudiziario italiano, un uomo che ha combattuto con le sole armi che possedeva, il rigore e l’amore per la toga, una battaglia difficilissima, in tempi difficilissimi, dove per fare onestamente il proprio lavoro non era affatto sufficiente essere preparati a dovere. Fulvio Croce, a mio avviso, dovrebbe essere ricordato come il Principe dell’Avvocatura italiana, quell’avvocatura che riesce a spezzarsi ma non si piega a logiche perverse, che ha come stella cometa solo il codice deontologico, che difende i diritti anche degli indifendibili, che non ha paura del pericolo derivante da una causa complessa. Una toga illibata come quella dell’Avvocato Fulvio Croce dovrebbe servire da monito per i più giovani, da esempio per chi si dibatte, lamentandosi continuamente, per i meandri di una professione difficile ma affascinante, dura ma appagante. E, mi si consenta, dovrebbe servire anche per quella parte della Magistratura che crede che il compito di un avvocato sia quello di essere “al servizio” del cliente, anche sconfinando in terreni troppo accidentati. È vero che – così come avviene in ogni categoria- ci sono avvocati che non recano dignità alla toga che indossano, ma è pur vero che ce ne sono migliaia e migliaia che silenziosamente e, con diversi ostacoli quotidiani da superare, svolgono onestamente il proprio lavoro, anche accontentandosi di ricevere delle briciole dai propri clienti. Avvocati che soffrono, che perdono e si rialzano, che sono costretti a fare inutili anticamere, avvocati cui addirittura viene tolto il diritto di parola. L’esempio di Croce, a mio avviso, deve spingere i più giovani ad essere orgogliosi e rispettosi per quel manto nero che li distingue e li innalza al di là di sciocchi pregiudizi, tipici di questi tempi troppo tristi. E che ci fa sentire fieri al grido “Avvocato”, ultima parola che udì il povero legale torinese prima di stramazzare al suolo. Per la cronaca, quello di Croce non fu il solo delitto connesso a quel maledetto processo, ma furono colpiti a morte anche il vice direttore della Stampa, Carlo Casalegno e gli investigatori Rosario Berardi, Antonio Esposito e Giuseppe Ciotta. In parole povere, un’autentica mattanza.

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Cui prodest? Di fronte alla tragedia della morte dobbiamo fermarci e recuperare il senso del limite

A chi giova? È quello che ci chiediamo, trascorsi pochi giorni dal tragico pomeriggio dell’Epifania, innanzitutto come semplici lettori. Come lettori, è vero, che si nutrono di informazione, ma non certo “affamati” di quella cronaca (non tutta, per fortuna) che trascende, che cede alla tentazione di alimentare l’opinione pubblica somministrando notizie ‘inopportune’, che nulla hanno a che fare con la notizia in sé, in questo caso, un’autentica tragedia consumatasi ancora una volta sulla SS 106, sì la famigerata “strada della morte”. A chi giova, a chi può interessare, a poche ore da un dramma che ha distrutto quattro famiglie, se i ragazzi che viaggiavano nella Panda, in direzione Catanzaro-Soverato, erano o meno reduci da una visita in carcere? A chi giova la dovizia di particolari sulla genealogia di famiglia? Quattro giovani hanno perso la vita su una strada maledetta, una tragedia che testimonia la forza dell’indifferenza anche di fronte al valore della vita. L’ennesimo tributo di sangue che non troverà consolazione alcuna. È forse utile alla giusta causa (quella di rendere più sicura questa strada) documentare i rapporti di parentela, i dati biografici? È veramente importante, al cospetto della morte, il richiamo ai legami familiari che ciascuno di noi porta in dote? Questi dettagli debbono ritenersi necessari per l’esercizio del diritto di cronaca su un episodio così tragico? Conoscere i nomi e le parentele delle vite spezzate può cambiare la prospettiva sull’accaduto o, piuttosto, si riduce in un eccesso di informazione ‘inopportuno’, decentrato, proprio perché orientato semplicemente a soddisfare eventuali curiosità morbose di chi legge e, quindi, ad alimentare la soglia degli utenti? Non è in discussione, sia chiaro, il piano deontologico, che non compete a noi. Del pari, ben conosciamo il fondamentale ruolo dell’Informazione ed il delicato e difficile compito dei giornalisti chiamati a divulgare le notizie di cronaca. Eppure abbiamo avvertito (non solo noi), in queste ore, un richiamo della coscienza, che ci impone di sollevare un doveroso problema di opportunità. Di fronte alla morte così tragica e dolorosa, a giovani vite spezzate in modo violento e drammatico, dovremmo avvertire il bisogno di fermarci e recuperare il senso del limite, un’ecologia dell’informazione che renda consapevoli dei diritti fondamentali della persona, di ogni persona, tutti meritevoli di essere salvaguardati. Ispirarci a criteri di correttezza, continenza e pertinenza delle notizie date, senza trascendere in eccessi bulimici che si scontrano con il buon senso, prima ancora che con altri diritti parimenti meritevoli di tutela. Sono considerazioni, punti di vista, che desiriamo offrire alla ragione pubblica e alla riflessione collettiva. Il dato certo da portare in emersione nella triste vicenda consumatasi nel giorno dell’Epifania era uno solo: questi quattro giovani, figli della nostra terra e della nostra storia, non dovevano lasciare su quel manto stradale le loro speranze e i loro sogni. Camera penale “Alfredo Cantàfora” Il Consiglio Direttivo Rassegna stampa: https://shorturl.at/ijrIT https://shorturl.at/BEV56

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