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MINACCE AGLI AVVOCATI: UN APPELLO DI SOLIDARIETÀ E DIFESA DELLA GIUSTIZIA

di Valeria Ferrara – COMUNICATO – Il Direttivo e l’Osservatorio Avvocati Minacciati della Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” esprimono la loro solidarietà in riferimento al gravissimo episodio di violenza e intimidazione perpetrato nello studio di un Collega a Taranto e diffuso a mezzo stampa solo qualche giorno fa. Due uomini, padre e figlio, fingendosi operanti delle forze dell’ordine, avrebbero costretto il professionista a rivelare informazioni riservate nell’ambito di una procedura di pignoramento. Minacciato all’interno del proprio studio e costretto a subire una ignobile invasione della propria sfera privata, l’episodio rappresenta plasticamente un pericoloso campanello di allarme in riferimento alla china che, sempre più spesso, sta assumendo il delicato rapporto tra cliente e legale. In disparte l’apprezzamento per il coraggio dimostrato dal Collega, cogliamo l’occasione per ribadire con forza che atti di questo tipo non possono trovare spazio in una società civile. Il ruolo dell’Avvocato, troppo spesso tacciato con disarmante superficialità e a reti unificate di acrobatici quanto disparati pregiudizi, rappresenta l’ultimo e più vicino baluardo a difesa del cittadino dalla pretesa punitiva dello Stato. È con grande preoccupazione che denunciamo l’aumento di minacce e aggressioni contro gli avvocati. Solo negli ultimi due anni, il numero di professionisti vittime di intimidazioni è aumentato in modo esponenziale. Secondo le statistiche raccolte dal Consiglio Nazionale Forense, tra il 2021 e il 2023, oltre 300 avvocati sono stati oggetto di minacce, intimidazioni o aggressioni in Italia, con un picco rilevante nei contesti legati a cause di carattere penale e patrimoniale. Questi numeri, purtroppo, ci raccontano una realtà che non possiamo ignorare: la crescente esposizione degli avvocati a situazioni di pericolo personale. L’episodio di Taranto è solo l’ultimo di una serie di attacchi che non possiamo più tollerare, spesso perpetrati subdolamente attraverso i mass media. Gli avvocati, pilastri del sistema di giustizia, devono poter operare con serenità, senza temere per la propria incolumità, questo sarà possibile anche migliorando la narrazione intorno alla nostra amata professione, da sempre resa come servizio indispensabile e costituzionalmente garantito. La sicurezza degli avvocati deve essere una priorità, così come il rispetto per un lavoro sempre più complesso e privo di tutele, perché ogni minaccia contro un avvocato è una minaccia contro la società tutta e i suoi valori democratici. Catanzaro, 28 settembre 2024 Consiglio Direttivo e Osservatorio Avvocati Minacciati

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ANCHE L’INTERDITTIVA ANTIMAFIA AL VAGLIO DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* –  Anche le interdittive antimafia sono finite al vaglio della CEDU. Nei prossimi mesi, infatti, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sarà chiamata a pronunciarsi sulla rispondenza ai principi convenzionali non solo delle misure di prevenzione personali e patrimoniali ablative, disposte dalla Autorità Giudiziaria, ma anche di quelle amministrative, quale è l’informativa interdettiva antimafia. Un’altra peculiarità della prevenzione, infatti, è di non essere presidiata pienamente dalla riserva di giurisdizione, con conseguenti asimmetrie nella valutazione dei presupposti applicativi delle misure. L’interdittiva, in particolare, viene emessa dal Prefetto quando questi abbia sospetti di “tentativi” di infiltrazioni mafiose nell’impresa, al fine di inibire all’imprenditore ogni contratto ed ogni contatto con la Pubblica amministrazione. Gli effetti sono però più ampi, determinando usualmente la revoca degli affidamenti bancari e, di conseguenza, la cessazione dell’impresa. Limitato è poi il sindacato del TAR, giudice competente a decidere sui ricorsi avverso l’interdittiva, il quale, pur disponendo in questa materia di un sindacato di merito, spesso si arresta a quello di legittimità proprio della valutazione dei vizi dell’atto amministrativo, senza affrontare la congruità logico-ricostruttiva della motivazione dello stesso. Ora, finalmente, i Giudici convenzionali pongono al Governo Italiano dei quesiti ai quali sarà difficile dare una risposta convincente sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione e sulla rispondenza del procedimento  ai canoni del giusto processo. Vogliono sapere, innanzitutto, se i ricorrenti abbiano avuto la possibilità di sottoporre le loro contestazioni a un “tribunale” con “piena giurisdizione” ai sensi della giurisprudenza sviluppata dalla Corte in relazione all’articolo 6§1 della Convenzione e se le norme applicate nel caso di specie, contenute nel decreto legislativo n. 159 del 2011, costituiscano una base giuridica sufficientemente accessibile, chiara e prevedibile, secondo le autorevoli indicazioni contenute nella nota sentenza De Tommaso. Ma, soprattutto, chiedono all’Italia se l’ingerenza nella attività dell’impresa sia proporzionata, alla luce della interpretazione dei giudici nazionali dell’articolo 86 del D.L.vo 159/ 2011, stante la tendenzialmente illimitata durata nel tempo di questa  misura di prevenzione, non a torto definita un “ergastolo imprenditoriale”. La Corte EDU ha colto evidenti profili di contrasto della normativa nazionale con i principi convenzionali, stante la indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere il provvedimento interdittivo, che, incidendo sulla libertà di iniziativa economica (garantita dall’art. 41 della Costituzione), dovrebbe invece essere ancorato a basi legali chiare, precise, predeterminate e prevedibili. La norma nazionale, invece, fa riferimento a “tentativi di infiltrazioni mafiosa”. Espressione del tutto generica ed oscura, idonea a consentire (come difatti avviene) una tale anticipazione della soglia di intervento statale, da consentire l’aggressione non solo degli imprenditori “compiacenti”, ma anche di quello “soggiacenti”, vittime, cioè della pervasività criminale mafiosa. Ma, i giudici di Strasburgo si domandano anche se l’interdetto goda di un diritto di difesa effettivo, che possa essere esplicato avanti ad un giudice dotato di pieni poteri di cognizione. Il riferimento a principi quali “precisione” e “prevedibilità (corollari della legalità formale), “effettività della difesa” e, soprattutto, “proporzionalità” è, nella sostanza, un refrain rispetto alle ordinanze interlocutorie rese nei procedimenti Cavallotti e Macagnino+27, in tema, rispettivamente, di pericolosità sociale qualificata e generica.Si tratta di principi – la proporzionalità, in particolare – che evocano il concetto di sanzione penale. Il sospetto che la CEDU sembra nutrire sull’effettivo carattere delle misure di prevenzione pare essere proprio questo: se esse abbiano davvero natura amministrativa, ovvero possano e debbano essere considerate “pena”. Le domande poste al Governo Italiano sembrano convergere verso una decisione che, a differenza di quanto accaduto in passato, potrebbe riconoscere carattere punitivo alle misure di prevenzione, con conseguente loro assoggettamento a tutte le regole della “materia penale”, sostanziale e processuale. Fino ad oggi, il riconoscimento di un carattere non penale e la affermazione di finalità preventive hanno fatto passare in secondo piano l’enorme grado di afflittività che contraddistingue le misure di prevenzione.I dubbi espressi nelle ordinanze interlocutorie, tuttavia, fanno sperare che la Corte EDU non si accontenti più, come in passato, della “lettura” dello strumento di prevenzione elaborato dalla giurisprudenza nazionale, ma intenda invece studiarne e valorizzarne la sostanza e gli effetti, per denunciarne il versante più marcatamente punitivo, denunciando queste misure nella loro reale dimensione di pene senza condanna.   *Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione dell’Unione Camere Penali Italiane

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ENZO FRAGALÀ E IL DELITTO SENZA MANDANTI

di Antonio Ludovico – Partiamo dalla fine di una storia che – con un po’ di approssimazione e fantasia – potrebbe essere sovrapposta a quella di altri piccoli martiri di una categoria, quella degli avvocati, morti ammazzati sul campo di battaglia della libertà e del coraggio.  Partiamo quindi dal sorriso di Marzia Fragalà, figlia di Enzo, notissimo avvocato siciliano (nacque a Catania il 3 agosto 1940), vittima di un agguato nei pressi del suo studio, in via Turrisi di Palermo, ed ucciso a colpi di bastone da un commando mafioso. Quel sorriso che vuole essere una speranza e una voglia di proseguire la meritoria opera paterna, contrassegnata da un’onestà intellettuale a prova di bomba.  Militante nell’area della destra di Pino Rauti, deputato per due legislature, componente di diverse commissioni d’inchiesta parlamentari, assistente di storia contemporanea presso l’Università di Palermo, Enzo Fragalà non era soltanto un avvocato a tutto tondo, uno di quelli da trincea, ma anche un fine letterato, un uomo pieno d’interessi, un grande appassionato di politica, uno di quegli uomini che certamente non sprecavano il loro tempo. E che svolgeva o meglio, ricopriva il proprio ruolo di difensore con una statura morale e professionale invidiabile.  Fragalà frequentava sovente le aule d’assise, difendeva tanti clienti per mafia in una terra dove ogni piccola indecisione poteva costare cara. E fu proprio quell’inflessibilità, quel suo non piegarsi a logiche perverse che gli costò la vita, in quel maledetto 26 febbraio del 2010, quando morì dopo tre giorni di dura agonia per il pestaggio subito sotto il suo studio da un commando mafioso.  Ma perché fu ucciso Enzo Fragalà, perché fu bersaglio di esponenti mafiosi del clan di Porta Nuova, così come accertarono gli inquirenti dopo diverse piste totalmente sbagliate, come quella – ad esempio – del delitto passionale? In realtà le indagini per l’omicidio di quello che era uno dei più noti penalisti di tutta l’isola non furono per niente facili, nonostante l’agguato avvenne a pochi metri dal tribunale di Palermo. Ma, vuoi la mancanza di immagini nitide, vuoi le tante attività svolte da Fragalà, costituirono degli incagli ad un movente che stentava a materializzarsi.  Senonché, come spesso avviene in casi come questi, furono le parole di un paio di collaboratori che permisero di squarciare il velo su un delitto che appariva senza senso.  Ebbene, si apprese – con sommo stupore – che l’avvocato fu ucciso perché “era uno sbirro e spingeva i suoi clienti a collaborare con la giustizia “, un comportamento che per il rigido codice mafioso non poteva essere tollerato. In pratica, quel gesto vigliacco fu un avvertimento per l’intera avvocatura palermitana, una sorta di monito all’osservanza di regole più confacenti ai loro canoni. Un’assurdità, un’ignominia, tant’è che lo stesso Procuratore Generale della Corte di Cassazione nella sua requisitoria elogiò il comportamento dell’avvocato “morto nell’esercizio della sua missione”.  Per la cronaca, a seguito delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di Antonino Siragusa – “non potevo disobbedire ad un ordine dall’alto” –, furono condannati in via definitiva Antonino Abate a 30 anni (l’esecutore materiale), Francesco Arcuri a 24 anni, Salvatore Ingrassia a 22 anni e lo stesso Siragusa a 14 anni (colui che telefonò in studio per sapere quando l’avvocato sarebbe uscito), mentre furono scagionati Paolo Cocco e Francesco Castronovo. Siragusa disse a più riprese che quel gesto non avrebbe dovuto sfociare in un omicidio, ma doveva trattarsi solo di un pestaggio e, in seguito, chiese anche scusa alla famiglia del penalista.  Sta di fatto che Enzo Fragalà morì, dopo un’agonia di ben tre giorni, in ospedale circondato dall’amore dei suoi cari e da quella inflessibilità che lo hanno reso un martire della toga, la cui memoria oggi è immortalata da una splendida aiuola nei pressi del tribunale di Palermo. E i mandanti, si chiederà qualcuno? Restano nell’ombra, come nella migliore tradizione italica.

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Il sistema penale e i suoi nemici

di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –  L’approccio critico al sistema penale ha lo scopo di valorizzare la “ideologia della libertà, dei diritti individuali e dei limiti alla coercizione che è consustanziale, “necessaria” all’ esercizio effettivo di qualsiasi posizione di potere”[1]. Ciò significa che l’attenzione del giurista deve essere indirizzata a contrastare la deriva autoritaria e la passione punitiva dei poteri pubblici e, al contrario, a valorizzare la costruzione di un sistema di limiti e a preservare e rafforzare il complesso delle libertà e dei diritti fondamentali.   Queste finalità, semplici, ma vitali, sono state purtroppo contraddette dall’indirizzo costantemente adottato dalle istituzioni di procedere nei termini di un rafforzamento dei poteri “di polizia” e di un’accentuazione delle istanze repressive, in accordo con l’attuazione di una legislazione “emergenziale” senza fine. Una prospettiva che, con il tempo, si è posta come un connotato strutturale, quasi qualificante, dell’ordinamento giuridico, alimentato da sempre nuove, e differenti, emergenze, che ha prodotto una moltiplicazione delle fattispecie incriminatrici, invadendo in modo incisivo i più diversi ambiti dell’esistenza. In verità, si è assistito ad un progressivo arretramento dello Stato in tema di aiuto ed intervento in favore dei soggetti più svantaggiati e alla graduale contrazione delle politiche sociali a tutti i livelli, sicché le scelte del potere politico si sono orientate verso un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. A specifico supporto dei programmi nebulosi, spesso improvvisati, di politica criminale, ma in piena aderenza alle pretese emotive sostenute dalla collettività, il più delle volte indotte dalle grida “propagandistiche” di una classe dirigente interessata a mascherare gli autentici problemi economici e sociali dietro il velo immaginario della paura. E con la precisa volontà di precostituirsi sacche di consenso politico, affidandosi alla risposta “irrazionale” della pancia della collettività[2]. Si è prodotto, così, un autentico mutamento di paradigma, che ha maggiormente ridotto lo spazio operativo del mondo dei giuristi e della società libera finalizzato a restringere i confini di manovra della forza dello Stato[3]. E ha fatto esplodere l’idea che alla materia penalistica vada affidato un compito eminentemente repressivo, quasi espressivo di un sentimento vendicativo, capace di svolgere un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica. Si sono andate sviluppando, così, “le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing”[4], in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. Un sistema in cui “l’uso salvifico delle leggi punitive o del controllo dell’ordine pubblico è assunto a religione di massa”[5], sicché l’aspetto rilevante non è dato tanto dalla ricerca della verità o dalla realizzazione della giustizia, quanto dalla sacralizzazione dell’azione punitiva, che ottunde la riflessione e neutralizza i problemi sociali, che permangono, ma vengono celati tra le pieghe delle punizioni. Le forme finiscono in tal modo a prevalere sui contenuti, di modo che si soprassiede sugli effetti perversi di un sistema penale che si sostiene sull’accanimento repressivo, ma finge di ignorare le lungaggini processuali causate da un fenomeno di overload del contenzioso, e i conseguenti e(o)rrori giudiziari, che non appaiono più effetti fisiologici dell’ordinamento, ma ormai patologici, in ragione dei numeri spropositati. Senza dimenticare le questioni spinose collegate all’esecuzione penale e alle condizioni di sovraffollamento delle carceri. Chiaramente, queste scelte politiche, nelle declinazioni sostanzialistiche, processualistiche e di esecuzione, sono la naturale conseguenza del ruolo che si è deciso politicamente di attribuire al sistema penale, che appare sempre più dissonante rispetto alla tavola di valori cristallizzata dalla Costituzione italiana, dove sono fissati i punti fondamentali di un modello garantista di stretta legalità, in cui l’esercizio del potere punitivo è improntato ad un paradigma che ha la finalità di garantire quell’insieme di diritti propri dell’uomo indagato, imputato e eventualmente condannato nelle fasi che via via si possono susseguire. E che mira ad una riduzione delle fattispecie penali, da una parte, e ad una previsione proporzionale ed equilibrata delle pene, dall’altra, in considerazione della loro essenziale finalità rieducativa, secondo quanto disposto dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 313/1990[6]. Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione certamente tardiva, laddove le riforme sono intervenute, mentre per altri aspetti risulta completamente assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354, il nuovo codice di procedura penale è stato varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930, che si è tentato, con scarsi risultati, di rendere costituzionalmente orientato. Inoltre, il legislatore, a partire dagli anni novanta del secolo passato, ha realizzato una legislazione complessivamente repressiva, nella quale la strettoia delle garanzie si è andata progressivamente assottigliando. Uno sguardo rapido, a titolo esemplificativo, agli ultimi interventi riformatori può essere utile per focalizzare il percorso compiuto dal legislatore italiano. Nel 2017 la riforma c.d. Orlando, L. n. 103/2017, ha aumentato le pene per il furto in abitazione e con strappo (art. 624 bis c.p.), per la rapina (art. 628 c.p.) e per l’estorsione (art. 629 c.p.). Il dato che colpisce è che le modifiche realizzate hanno riguardato i minimi edittali delle pene, con ciò enfatizzando la furia repressiva statale e avvalorando l’idea di pubblici ministeri e giudici considerati alla stregua di “magistrati di scopo”, chiamati alla più severa determinazione delle pene in concreto. In seguito, il decreto c.d. Salvini, D.L. n. 113 del 2018 convertito dalla Legge n. 132 del 2018, ha disposto un importante aumento delle pene previste per il reato di cui all’art. 633 c.p. “Invasioni di terreni ed edifici”, fino ad un massimo di sei anni di reclusione. È stata, inoltre, data nuova linfa vitale al reato di mendicità, abrogato con i provvedimenti di depenalizzazione del 1999, e reintrodotto quale “esercizio molesto di accattonaggio”, art. 669 bis c.p. Analoga operazione è stata realizzata con il reato

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Intervista al presidente dell’Ordine dei Giornalisti Calabria, Giuseppe Soluri

di Antonio Strongoli –  Nel convegno del 24 novembre 2023, dal titolo “Cronaca e critica – linee guide per un’informazione corretta e senza rischi”, organizzato dall’Ordine dei giornalisti, dalla Camera Penale di Catanzaro, dal COA di Catanzaro e dal Movimento Forense, si è generato un acceso ed interessante dibattito sul problema che riguarda la cronaca giudiziaria. Con particolare riferimento al bilanciamento tra il diritto di cronaca, e dunque il diritto del cittadino di avere contezza dei provvedimenti emessi dalla magistratura nelle inchieste di maggiore rilevanza sociale e la presunzione di innocenza, da cui consegue il diritto dell’indagato di non essere sottoposto alla gogna mediatica in assenza di una sentenza di condanna, quanto meno, di primo grado. Da qui l’idea di realizzare un’intervista col presidente dell’OdG Calabria, Giuseppe Soluri. Presidente Soluri, in occasione del convegno del 24 novembre, lei aveva puntualmente indicato come l’operato del giornalista dovesse rispettare i tre principi fondamentali: veridicità della notizia, continenza del linguaggio e rilevanza pubblica della stessa. Il giornalista deve, quindi, operare al fine di consentire una corretta diffusione della notizia lasciando comunque comprendere al lettore come l’inchiesta sia in una fase embrionale, quando si tratta, ad esempio, di ordinanze di custodia cautelare emesse dal G.i.p. e dunque come le circostanze riportate siano meri indizi di reità e non fatti accertati. Un appello, mi sento di dire, al senso di responsabilità dei giornalisti, che non deve mancare mai, soprattutto in questo momento storico, in cui anche i social tendono a candidarsi quali nuovi mezzi di informazione. A distanza di un mese circa, poi, è approdato in Parlamento l’emendamento Costa. Cosa ne pensava all’epoca? «Dal mio punto di vista, l’emendamento Costa, in linea di principio, era un emendamento che ci poteva stare. Nel senso che è stato sicuramente concepito con l’obiettivo di salvaguardare quel principio di non colpevolezza, di cui si parlava prima, e quindi per impedire che vengano pubblicati spezzoni di intercettazioni o atti giudiziari in cui siano presenti degli elementi marginali per dell’inchiesta, ma assai rilevanti ai fini dell’immagine esterna delle persone indagate. È chiaro che questo rappresenta in qualche misura un vulnus per i giornalisti che sono impossibilitati, nel momento in cui interviene questo emendamento, a pubblicare stralci di intercettazioni che, invece, per altro verso, possono anche avere una rilevanza informativa notevole. Sebbene comprendiamo che, da un lato, vi sia l’esigenza di salvaguardare il citato principio di non colpevolezza, dall’altro, non bisogna dimenticare però la necessità di tutelare il principio della libertà di informazione e, conseguentemente, la necessità che il giornalista informi e che il cittadino venga informato correttamente». Presidente Soluri, si aspettava che un emendamento proposto da un parlamentare di opposizione – ricordiamo che l’On. Costa appartiene ad Azione – potesse riscontrare una tale condivisione da non soggiacere alle solite dinamiche ostruzionistiche dell’opposta fazione politica? Secondo lei, ciò è sintomatico di un’esigenza condivisa circa la necessità di intervenire onde garantire una maggiore tutela dei soggetti indagati? «Partiamo dal presupposto che l’On. Costa, al di là del partito di appartenenza, si è sempre distinto come uno dei rappresentanti del parlamento maggiormente sensibili alla tematica del garantismo. A mio avviso, quando si affrontano questi argomenti il problema nasce dal fatto che si sono create due tifoserie: una c.d. “garantista” ed una c.d. “giustizialista”. Riportare tutto a queste due categorie di “tifosi” è sbagliato, poiché non consente di cogliere altre (e diverse) posizioni, le quali, sebbene affini alle due principali correnti di pensiero, presentano altre sfumature. Vi sono sensibilità garantiste all’interno sia di partiti che hanno sempre portato avanti battaglie di questo tipo, ma anche in partiti che oggi sono all’opposizione e che sono stati al Governo in passato. Mi riferisco, in particolare, al PD. Nel PD ci sono ampi settori che hanno una visione, diciamo così, garantista e Azione non è altro che una costola fuoriuscita dal Partito Democratico. L’Onorevole Costa, poi, essendo stato militante di Forza Italia si porta dietro anche antiche battaglie del suo ex partito. La sensibilità su tale tematica è in qualche modo abbastanza diffusa nelle forze politiche, in maniera trasversale.Ritengo sia difficile ragionare su questo tema se non si prende coscienza della sua importanza; un tema che riguarda tutti i cittadini, la corretta gestione dell’attività giudiziaria, penale e civile che sia, è fondamentale per la vita di un Paese. Fin quando la giustizia non funzionerà a dovere, riducendo anche il margine di errori, il Paese avrà sempre problematiche di questo tipo, che quasi certamente si trasferiscono nelle aule parlamentari, diventando così strumenti su cui battagliare, perdendo di vista i problemi reali e la necessità di affrontarli in maniera corretta, salvaguardando tutti gli interessi in gioco. È questo uno dei motivi per cui non si riesce mai ad arrivare ad una riforma complessiva della giustizia, che abbia un suo raziocinio e riesca effettivamente a garantire una giustizia, non solo giusta, ma efficiente e rapida».  Nel 2017, quando l’incarico di guardasigilli era ricoperto dall’onorevole Andrea Orlando, vi fu una modifica dell’art. 114 del codice di procedura penale, al fine di consentire alle testate giornalistiche la pubblicazione, finanche integrale, delle ordinanze di custodia cautelare. L’emendamento Costa va, sostanzialmente, ad incidere su questo specifico aspetto, con il dichiarato obiettivo di far venire meno tale facoltà. Siffatta modifica, ad avviso dell’Avvocatura, oltre che essere in linea con il principio di cui all’art. 27 della Carta Costituzionale, potrebbe contribuire a responsabilizzare il giornalista, al quale non sarebbe inibito il diritto di riferire i fatti oggetto di indagine, ma semplicemente la possibilità di riportare interi passaggi del provvedimento cautelare. È di tutta evidenza come l’obbligo per il giornalista di “rielaborare” il contenuto delle ordinanze – non potendo far ricorso al virgolettato – lo esporrebbe a possibili querele da parte dei soggetti coinvolti, laddove i fatti non fossero riportati correttamente. «Si, il senso è proprio questo: fare in modo che il giornalista sia responsabile di quello che scrive. Sebbene i giornalisti quando sbagliano vengono sempre “puniti”, in un modo o nell’altro, mentre gli altri attori delle vicende processuali non sempre vengono sanzionati quando commettono errori. Credo

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ANTIRICICLAGGIO: UN FOCUS SULLA FIGURA DEL PROFESSIONISTA

di Manuel Curcio –   Nell’ordinamento italiano determinate categorie di professionisti sono soggette a particolari condizioni nell’esercizio della propria attività e ciò in quanto gli stessi possono incorrere in situazioni potenzialmente rischiose in termini di legalità, soprattutto in ragione della natura della clientela con la quale si interfacciano. L’Italia, attualmente, rispetto il fenomeno del riciclaggio, ha dunque previsto un sistema basato su un vero e proprio doppio binario corrispondente a due diverse esigenze, sia di carattere sistematico che di tipo sanzionatorio. Infatti, se da un lato il legislatore nazionale ha previsto la rilevanza codicistica delle condotte sostanziatesi negli illeciti di cui agli artt. 648bis (riciclaggio) e 648ter (autoriciclaggio) c.p., riconoscendo in tal senso una punibilità secondo i canoni tipici del diritto criminale, dall’altro versante, invece, soprattutto per via dei numerosi impulsi di matrice sovranazionale[1], l’Italia si è dovuta munire di un sistema a carattere per lo più amministrativo con l’intento non soltanto di reprimere determinati comportamenti ma bensì di prevenirli, anticipando, quindi, la soglia di rilevanza della singola condotta. In particolare, mediante l’introduzione del D.lgs 321/2007, il legislatore ha voluto porre in essere un sistema di protezione dell’integrità dei sistemi economici e finanziari da ingerenze criminose, con una spiccata attenzione al fenomeno del riciclaggio[2], soprattutto per quel che attiene il finanziamento del terrorismo. Volendolo definire genericamente, è stato instaurato un meccanismo di controllo e di verifica ex ante in modo tale che, determinate categorie di soggetti professionali e qualificati, considerati maggiormente a rischio per via dell’intrinseca natura dell’attività in concreto esperita, potessero sottostare ad un regime preventivo differenziato.   I soggetti destinatari del D.lgs 231/2007 sono indicati dal Capo III del decreto e coinvolgono sia le persone fisiche che le persone giuridiche. Soffermandoci maggiormente sulla categoria dei professionisti, l’art. 12 sancisce come debbano intendersi in tal senso: a) ragionieri, commercialisti, consulenti del lavoro e coloro i quali siano iscritti nell’albo dei periti commerciali, b) qualsiasi altro soggetto che renda i servizi forniti da periti, consulenti e altri individui che svolgono in maniera professionale attività in materia di contabilità e tributi(da intendersi compresi anche le associazioni di categoria di imprenditori e commercianti, CAF e patronati) c) i notai e gli avvocati soltanto nel caso in cui, in nome o per conto dei propri clienti, compiono qualsiasi operazione di natura finanziaria o immobiliare ovvero nell’ambito di assistenza nella predisposizione o nella realizzazione di operazioni riguardanti: il trasferimento a qualsiasi titolo di diritti reali su beni immobili o attività economiche; nonché la gestione di denaro, strumenti finanziari o di altri beni; l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli; l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società; la costituzione, la gestione o l’amministrazione   di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi; d) i prestatori di servizi relativi a società e trust ad esclusione dei soggetti rientranti nelle categorie poc’anzi esplicate. Rispetto ai suddetti soggetti, la legge impone una serie di obblighi volti alla verifica della clientela di riferimento. In tal senso il fine preventivo del decreto si manifesta nell’obbligo di esercizio di un’attività prodromica con la quale il legislatore delimita l’ambito di rischio di alcune operazioni economiche maggiormente esposte al pericolo di contaminazione criminosa. Parlando concretamente, si prevedono due macro categorie di adempimenti a carico dei professionisti, in primis, come già anticipato, l’art. 16 del D.lgs 231/2007 richiede l’adeguata verifica della clientela e dell’effettivo titolare del bene ovvero del servizio: qualora la prestazione professionale in questione abbia ad oggetto mezzi di pagamento, beni od utilità di valore pari o superiore a 15.000 euro; quando vengono eseguite prestazioni professionali occasionali consistenti nella trasmissione o la movimentazione di mezzi di pagamento di importo pari o superiore a 15.000 euro, indipendentemente dal fatto che siano effettuate con un’operazione unica o con più operazioni che appaiono collegate o frazionate tra loro; tutte le volte che l’operazione sia di valore indeterminato o non determinabile. A tali fini, la costituzione, gestione o amministrazione di società, enti, trust o soggetti giuridici analoghi integrano, a priori, un’operazione di valore non determinabile. In ogni caso poi, la norma ad esame, come vera e propria clausola di chiusura, sancisce l’obbligo di adeguata verifica ogni qual volta vi sia un sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, indipendentemente da qualsiasi deroga, esenzione o soglia applicabile; ovvero quando sorgano dubbi sulla veridicità o sull’adeguatezza dei dati precedentemente ottenuti ai fini dell’identificazione di un cliente. Il contenuto degli obblighi di adeguata verifica è disciplinato dall’art. 18 del D.lgs 231/2007, il quale dispone come il singolo professionista sia chiamato a svolgere: l’identificazione del cliente secondo parametri oggettivi e riconoscibili e quindi ricavabili sulla base di documenti, dati o informazioni ottenuti da una fonte affidabile e indipendente; l’identificazione dell’eventuale titolare effettivo con annessa verifica circa l’identità del medesimo; l’ottenimento d’informazioni sullo scopo e sulla natura prevista del rapporto continuativo o della prestazione professionale; lo svolgimento di un controllo periodico e costante nel corso del rapporto continuativo o nello svolgimento della prestazione professionale. In questo contesto, l’ulteriore macro insieme di adempimenti relativi alla normativa sull’antiriciclaggio attiene ai profili di registrazione[3] e segnalazione[4] delle varie operazioni effettuate. Nel primo caso si impone al professionista una vera e propria rendicontazione intesa non soltanto con riguardo alle operazioni in quanto tali, ma bensì anche rispetto al proprio sistema di verifica all’epoca esperito rispetto quello specifico cliente; mentre, per quel che attiene le segnalazioni, il legislatore ha previsto l’obbligo di comunicazione all’UIF (Unità di informazione finanziaria Italia) ovvero all’ordine professionale competente ogni qualvolta vi sia il dubbio o il ragionevole motivo di  sospettare che siano in corso o che siano state compiute, o quantomeno tentate, operazioni di riciclaggio ovvero di finanziamento del terrorismo, o che comunque i fondi oggetto delle operazioni, indipendentemente dalla loro entità, provengano da attività criminosa. In merito alle sanzioni, si sottolinea come l’art. 55 del D.lgs 231/2007 ha introdotto una serie di illeciti, sia di natura penale che meramente amministrativa, relazionati alla violazione delle disposizioni contenute nel decreto in questione. Sul fronte del diritto penale, si segnala l’instaurazione di una

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Informazioni antimafia e distorsioni nel sistema amministrativo

Silia Gardini* e Crescenzio Santuori** – La lotta alla criminalità organizzata di stampo mafioso ha conquistato negli ultimi decenni una rilevanza sempre più ampia per il diritto amministrativo. In questo contesto, il pericolo di inquinamento criminoso è fronteggiato dal legislatore attraverso la predisposizione di un sistema di accertamento preventivo volto ad arrestare “all’origine” i contatti della Pubblica amministrazione con soggetti ritenuti potenzialmente sensibili a infiltrazioni mafiose, anche indirette. L’articolo 84, comma 1, del Codice Antimafia, D. lgs. n. 159/2011 – con l’intento di realizzare la massima anticipazione della soglia di tutela – attribuisce al Prefetto competenza al rilascio di provvedimenti amministrativi di natura cautelare e preventiva, che determinano in capo al soggetto destinatario una particolare forma di incapacità giuridica nei rapporti con la p.a. (e non solo): la comunicazione antimafia e l’informazione (o informativa) antimafia. Entrambi i provvedimenti hanno l’obiettivo di evidenziare alla Pubblica Amministrazione situazioni ostative al rilascio di atti o alla stipula contratti; il loro contenuto è, invece, significativamente differente. Se la comunicazione ha contenuto vincolato e funzione accertativa di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto indicate dall’art. 67 dello stesso Codice antimafia (applicazione di una misura di prevenzione personale, di una condanna con sentenza definiva o confermata in grado di appello, per uno dei delitti di criminalità organizzata di cui all’art. 51, comma 3-bis c.p.p.), l’informativa presenta un contenuto più complesso, poiché è volta a certificare – oltre a quanto già previsto in tema di comunicazione – anche la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, capaci di condizionare le scelte e gli indirizzi di società o imprese interessate. Quel che caratterizza spiccatamente le informative – e rende problematico il contesto applicativo dell’istituto – è il fatto che esse si fondano su un giudizio di mera eventualità, che si traduce nell’amplissima discrezionalità riconosciuta alle Prefetture in merito a questioni fisiologicamente opinabili, attinenti all’apprezzamento, attraverso elementi sintomatici e indiziari, di un rischio di ingerenza mafiosa e non all’accertamento di una effettiva sussistenza di eventi o responsabilità. La valutazione amministrativa, in questi casi, è condotta attraverso un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede un livello di certezza oltre “ogni ragionevole dubbio” (tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale), ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza (sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti: il Codice antimafia ne tipizza alcuni, ma non vincola l’amministrazione nella valutazione), sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa. In altre parole, l’informativa antimafia non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste. Il quadro risulta ancor più problematico se si considera che i procedimenti amministrativi in materia – in quanto preordinati all’emanazione di “atti necessitati”, per i quali l’urgenza di agire giustifica modificazioni strutturali derivate ai fini della tutela dell’interesse pubblico – risultano slegati dal puntuale rispetto delle garanzie procedimentali, partecipative e motivazionali previste in via generale dall’ordinamento. A fronte di un fondamento essenzialmente probabilistico, gli effetti prodotti dall’istituto in capo agli operatori economici possono essere molto invasivi, al punto da indurre qualcuno a parlare a più riprese di “ergastolo imprenditoriale”. Al di là dell’espressione che si intenda utilizzare, è innegabile che la tendenza del sistema, nel difficile e complesso bilanciamento tra l’interesse pubblico e i diritti privati su cui il potere interdittivo incide, sia quella di massimizzare oltremodo la “ragion pubblica” a discapito delle imprese e delle loro prerogative costituzionalmente garantite. Tale impostazione, al netto delle nobili intenzioni del legislatore, finisce spesso per determinare effetti gravemente distorsivi, anche sul mercato e anche in capo a operatori economici (successivamente riconosciuti) virtuosi. L’informazione interdittiva antimafia, infatti, malgrado la sua formale natura provvisoria, produce sempre effetti irreparabili e definitivi sull’impresa che ne è destinataria, salvo che si riesca ad ottenere in sede giudiziaria un provvedimento sospensivo ovvero il “passaggio” allo strumento del controllo giudiziario. Ciò perché l’operatore interdetto non ha “soltanto” preclusa la possibilità di partecipare alle procedure di gara e di sottoscrivere contratti pubblici, ma si vede di fatto negato l’avvio di qualsivoglia attività economica. Il che lo espone facilmente a dissesto o fallimento, anche laddove all’esito di giudizi amministrativi e penali eventualmente avviati a propria difesa, il contestato rischio di infiltrazione mafiosa dovesse poi rivelarsi insussistente o, quantomeno, evitabile attraverso la sottoposizione a misure meno radicali e meno invasive.  Appare, dunque, evidente che – ferme restando le primarie e imprescindibili esigenze di tutela sottese alla lotta alla criminalità organizzata – l’istituto dell’informativa antimafia necessiti di essere circondato da maggiori cautele. Le distorsioni che emergono dalla prassi applicativa andrebbero corrette dal legislatore, soprattutto nell’ottica del necessario “recupero” dell’impresa, che dovrebbe essere connaturata a misure – quali sono quelle antimafia – di natura preventiva e non sanzionatoria. In questa direzione, sia pure a fronte di alcune recenti e apprezzabili aperture da parte della giurisprudenza amministrativa (in particolare in tema di istruttoria e contraddittorio procedimentale), la strada da percorrere appare ancora lunga e tortuosa. E, nelle more, le imprese muoiono.   * Avvocato amministrativista e Ricercatrice di Diritto amministrativo ** Avvocato amministrativista

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Interdittive e controllo di azienda l’arretramento schiacciante della linea di tutela

di Francesco Iacopino e Giuseppe Belcastro –  Nel 2019 i penalisti italiani e buona parte dell’accademia, preso atto del “lungo processo degenerativo dei fondamentali dello Stato di diritto e (del)la conseguente crisi del garantismo penale”, accentuata dalla inarrestabile deriva giustizialista, hanno inteso lanciare un “grido di allarme” licenziando il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. In quel pamphlet, i punti 34 e 35 sono stati specificamente dedicati alle misure di prevenzione. Misure “nate come strumento eccezionale di controllo sociale di categorie particolari di soggetti” – si legge al punto 34 – (poveri, oziosi, vagabondi) e diventate, col tempo, “un sottosistema parallelo al diritto penale, destinato a colpire dove quest’ultimo non potrebbe mai giungere”. Chi conosce i meccanismi di funzionamento di queste misure del sospetto, fondate su fattispecie di pericolosità dai contorni indefiniti, destinati a sbiadirsi ancor di più nelle fasi di accertamento giudiziale, sa bene che esse, seppur notoriamente estranee ai principii e al corredo assiologico sul quale è edificato il nostro patto sociale, sono storicamente basate su un presupposto indefettibile: la pericolosità concreta del proposto, non più necessariamente attuale, ma quantomeno manifestatasi in una determinata forbice temporale, sì da giustificare “in differita” l’ablazione patrimoniale dell’accumulo illecito di ricchezza.  In altri termini, nel bilanciamento degli interessi in campo, la tutela dei diritti individuali cede significativamente il passo alle esigenze di sicurezza sociale, stimandosi prevalente il controllo sociale ed economico del soggetto (ritenuto) pericoloso rispetto al livello di garanzie proprie di un sistema liberale di cui lo stesso è (rectius: dovrebbe essere) portatore. In questo quadro generale, si inserisce il “sotto-sistema” normativo che ruota intorno alle c.d. interdittive antimafia e al controllo giudiziario delle aziende. Il legislatore ha esteso le maglie della prevenzione, rivolgendo l’attenzione anche agli imprenditori sani con lo scopo di proteggerli – questo nelle intenzioni – dai tentativi di infiltrazione mafiosa e di sostenerli, in ipotesi di contaminazione occasionale, nel processo di disinquinamento. Nella prassi applicativa, però, questo complesso sistema, pur ispirato in astratto a una logica aziendalistica, continua a presentare forti criticità, traducendosi troppo spesso in uno strumento di isolamento delle aziende lecite e di desertificazione dell’economia legale. L’imprenditore sano può essere destinatario di una informazione interdittiva, con tutto ciò che essa comporta in termini di incapacitazione a contrarre con la Pubblica amministrazione, per il solo “rischio” (letteralmente “eventuali tentativi”) di infiltrazione mafiosa, seppur non ancora concretizzatosi. A ciò si aggiunga che la valutazione del rischio e il potere di interdire sono affidati al Prefetto, al quale il Codice antimafia accorda margini di discrezionalità così ampi da determinare una sostanziale inutilità delle impugnazioni davanti al Giudice amministrativo, complice anche un criterio probabilistico di valutazione – quello del “più probabile che non” – che nei fatti sterilizza ogni tentativo di difesa. All’imprenditore interdetto, per sospendere gli effetti dell’interdittiva, non resta che “consegnarsi” al giudice della prevenzione e presentare domanda di controllo giudiziario. Ma è qui che si realizza il paradosso. Interdittive antimafia e controllo giudiziario operano su piani diversi e si nutrono di presupposti differenti. Per applicare la prima è sufficiente il solo rischio di infiltrazione mafiosa, per ottenere il secondo è necessario, almeno seguendo la lettera della legge, una agevolazione occasionale dell’associazione mafiosa. Nella prassi si è formato un orientamento giurisprudenziale che, adagiandosi rigidamente su un criterio letterale, non concede all’imprenditore interdetto il controllo giudiziario se non è accertata previamente l’agevolazione occasionale, difettando altrimenti il formale presupposto normativo. Ecco l’assurdo: all’imprenditore contagiato che abbia occasionalmente agevolato la criminalità organizzata (si pensi all’assunzione di un lavoratore controindicato o a una fornitura equivoca) si concede il controllo nominato dal Tribunale e di rimanere sul mercato, seppur vigilato dal controllore giudiziario. All’imprenditore che, invece, sia solo a “rischio” (magari perché riuscito a resistere al) contagio, si nega il controllo giudiziario per mancanza del presupposto dell’agevolazione occasionale. Insomma: chi è più sano rimane interdetto dallo Stato ed è destinato a morire, chi è contagiato entra nel circuito terapeutico della prevenzione e può salvarsi. Una autentica eterogenesi dei fini, frutto del profondo “divario” – per dirla con Norberto Bobbio – “tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto deve essere”, tra “effettività” e “normatività”, law in the book e law in action. Un sistema così, non solo si rivela incapace di generare alleanza tra lo Stato e il mondo sano dell’imprenditoria, nella lotta al crimine, ma genera la desertificazione dell’economia legale finendo paradossalmente per aprire spazi di mercato proprio a quelle realtà criminali che pretende di combattere. Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.

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LA PRESCRIZIONE. TRA LA RIFORMA ORLANDO E LA NUOVA RIFORMA CARTABIA

Redatto da Sara Spanò Ernesto Ruggiero e Mariada Megna –   LA NORMA L’articolo 157 c.p. prevede: “La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell’aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto per l’aggravante. Non si applicano le disposizioni dell’articolo 69 c.p. e il tempo necessario a prescrivere è determinato a norma del secondo comma. Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva. Quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di tre anni. I termini di cui ai commi che precedono sono raddoppiati per i reati di cui agli articoli 375 terzo comma, 449 e 589, secondo e terzo comma, e 589 bis, nonché per i reati di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale. I termini di cui ai commi che precedono sono altresì raddoppiati per i delitti di cui al titolo VI-bis del libro secondo, per il reato di cui all’articolo 572 e per i reati di cui alla sezione I del capo III del titolo XII del libro II e di cui agli articoli 609 bis,609 quater, 609 quinquies e 609 octies salvo che risulti la sussistenza delle circostanze attenuanti contemplate dal terzo comma dell’articolo 609 bis ovvero dal quarto comma dell’articolo 609 quater. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato. La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti”. RATIO LEGIS L’istituto della prescrizione trova la propria ratio nel cosiddetto principio di economia dei sistemi giudiziari, nonché nell’esigenza di garantire un effettivo diritto di difesa all’imputato. Infatti, la prescrizione è considerata la più importante causa di estinzione del reato, in quanto strettamente correlata al decorso del tempo atto ad affievolire la necessità e l’interesse in capo allo Stato di punire penalmente un fatto previsto dalla legge come reato. Al contempo poi, in linea con quanto previsto in materia di equo processo dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, viene considerata rilevante la durata non troppo eccessiva del processo, così che la prescrizione rappresenta lo strumento per evitare abusi da parte del sistema giudiziario. Ne discende, quindi, che maggiore è il tempo impiegato per reprimere le condotte antigiuridiche, minore sarà l’esigenza di una tutela penale, nel pieno rispetto della concezione rieducativa della pena. COME SI CALCOLA LA PRESCRIZIONE? Per calcolare il tempo necessario ai fini della prescrizione di un dato reato si deve fare riferimento al massimo della pena edittale prevista a norma del Codice Penale. In relazione a quanto detto, è opportuno fare una distinzione: per i delitti il termine minimo di prescrizione è di sei anni, invece, per le contravvenzioni il termine minimo è di quattro anni. I reati puniti con l’ergastolo non sono suscettibili di prescrizione e inoltre, il termine massimo di sei anni viene raddoppiato nel caso di alcuni delitti considerati gravi dall’ordinamento ed elencati nel comma 6 dell’art 157 c.p. Come ad esempio, il reato di violenza sessuale o di maltrattamenti in famiglia il termine massimo di prescrizione viene raddoppiato. Ad ogni modo, per comprendere al meglio tale calcolo, a titolo esemplificativo, si può fare riferimento al reato di furto, previsto ai sensi dell’art. 624 c.p. In tal caso, al primo comma, viene previsto “Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 154 euro a 516 euro”. Ebbene, innanzitutto, si parla di un delitto, ove è prevista una reclusione da sei mesi a tre anni. A mente di ciò, come precedentemente accennato, in caso di delitti, il termine minimo di prescrizione – nonostante il massimo della pena edittale prevista a norma dell’art. 624 c.p. è di tre anni – deve essere considerato nella misura di sei anni e pertanto la prescrizione massima per il reato di furto sarà sei anni e non tre anni. Tuttavia, possono verificarsi degli atti interruttivi suscettibili di far ripartire la decorrenza del termine di prescrizione che, in ogni caso, non può superare la soglia massima pari ad un ¼ del periodo prescrizionale. Chiaro è che non vi possono essere infiniti atti interruttivi, altrimenti il reato non andrebbe mai in prescrizione. Nel caso in cui, invece, siano presenti delle circostanze attenuanti ovvero circostanze aggravanti, di queste non si deve tenere assolutamente conto, a meno che non vi siano delle circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale. TABELLA ESEMPLIFICATIVA DEI TEMPI NECESSARI AL CALCOLO DELLA PRESCRIZIONE RELATIVAMENTE AL DELITTO DI FURTO ED ALLE SUE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI E ATTENUANTI. REATO PRESCRIZIONE ORDINARIA PRESCRIZIONE MASSIMA PRESCRIZIONE MASSIMA IN CASO DI RECIDIVA AGGRAVATA PRESCRIZIONE MASSIMA IN CASO DI RECIDIVA REITERATA PRESCRIZIONE MASSIMA PER DELIQUENTI ABITUALI E PROFESSIONALI Art.624 c.p. (furto) 6 anni 7 anni e 6 mesi 9 anni 10 anni 12 anni Art.624-bis c.p. (furto in abitazione e furto con strappo) 7 anni 8 anni e 9 mesi 15 anni e 9 mesi 17 anni e 6 mesi 14 anni Art.625 c.p. (circostanze aggravanti) 6 anni 7 anni e 6 mesi 13 anni e 6 mesi 15 anni 12 anni Art.625-bis c.p.(Circostanze attenuanti) La norma non prevede un fatto reato La norma non prevede

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NEL PENSIERO DEL NOSTRO TEMPO: DANILO DOLCI E IL DIRITTO

di Domenico Bilotti – Il 28 giugno Danilo Dolci avrebbe potuto compiere cento anni. Sociologo, attivista e poeta, amante della Sicilia borghigiana, interna, sofferente, si sarebbe mal volentieri sottoposto a quel rito dei compleanni per centenari, con foto e taglio della torta. Avrebbe accettato solo per la sua gente: lui interiormente cosmopolita si era affezionato alla dignità della causa popolare. Ne era stato adottato, più che averla adottata lui stesso – o, almeno, così soleva dire. Danilo Dolci (1924-1997) è stato una delle voci più interessanti della lirica italiana nel secondo Novecento, ma è stato anche un formidabile analista nel metodo sociale: all’inizio degli anni Sessanta era in fondo l’unica contronarrazione possibile all’immagine in vespa e televisione del boom. Analizzava la depressione economica associandola soprattutto a sistemi di sperpero pubblico; riteneva le procedure al tempo vigenti incapaci di incontrare i nuovi bisogni individuali e collettivi; metteva in questione il rapporto tra cittadino e amministrazione non solo in un attento discorso teorico antiautoritario, ma anche nel concreto del welfare e nelle asimmetrie tipiche del contenzioso tra sottoposti e potere dello Stato. Forse, dovrebbe bastarci già questo per ricordarlo nella sua rettitudine, nella sua freschezza creativa, nella sua attenzione al giuridico da non giurista. Per ben altre cose, invece, la sua memoria meriterebbe il lustro di massa che al momento non ha ancora conseguito. Innanzitutto, Danilo Dolci fu uno dei più esposti teorici e pratici della nonviolenza. Non mancavano le figure che approdarono alla nonviolenza, sia pure da tutt’altro percorso: c’era il libertario Pannella, che vi giungeva dalla estrema sinistra liberale; c’era Lanza Del Vasto, che univa antropologia, ricerca storica, buddhismo e cristianesimo. C’era soprattutto Aldo Capitini, che tentava in modo originale di mescolare socialismo democratico, cooperazione internazionale e critica al diritto – in modo più generoso persino del grande teologo tedesco Karl Rahner, cui si ispira soprattutto nei primi anni Sessanta. Danilo Dolci ha forse in più, rispetto a questi grandi personaggi, una brillantezza di intuito che si potrebbe definire “geniale”. Innanzitutto, il Sud Italia, soprattutto Calabria e Sicilia, era davvero negli anni Cinquanta l’Africa in casa: analfabetismo ancora elevato, mortalità infantile a livelli che nella vicina Francia erano stati abbattuti da circa un secolo, decessi per malnutrizione! Nel Palermitano, organizza così uno sciopero della fame a staffetta nel letto di Benedetto Barretta, un bambino, appunto, morto di fame. Vista poi la legislazione in materia di scioperi e sindacati, arretratissima e punitiva, incapace di attuare la costituzione, negli stessi anni utilizza il metodo dello “sciopero al rovescio”. Se nell’Italia dei Cinquanta e Sessanta lo sciopero è ostracizzato, represso, sanzionato, vietato, se le norme ancora non ci sono e i rapporti sociali stanno cambiando in direzione delle libertà, è pur sempre vero che lo sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori consiste nell’astensione dalle prestazioni. E lui organizza lo sciopero dei disoccupati: ottocento disoccupati si mettono a sistemare una strada pubblica. Vogliono il diritto al reddito, alla retribuzione, al lavoro, alla sopravvivenza. Magno scandalo: Danilo Dolci è arrestato per resistenza e oltraggio. Lo ricordiamo con l’appassionata difesa di Piero Calamandrei, scritta forse più col cuore che col codice, ma non priva (come al solito!) di cristallini momenti di dogmatica giuridica applicata alla sede giudiziaria. Primo tra tutti: la denuncia del finto formalismo dei proibizionisti e dei giustizialisti, che non conoscono le norme e i principi e non sanno farli valere nel tempo in cui essi vanno attuati. La forma esiste se è garanzia, l’equità occorre se è trasformazione. Lo “sloveno nato italiano” (nacque in terra di confine, in anni in cui la questione era tema sociale e politico forte) si scelse infine un ultimo e primo nemico: la mafia. La mafia dell’abbrutimento, del sacco edilizio, della mancanza di scolarizzazione. Vedeva approssimarsi un ottimo alleato di quella mafia: l’antimafia professionale, l’antimafia della decisione politica urlata, l’antimafia che sottobanco pronuncia il famigerato: “così fan tutti”. Aveva ragione. Come con lui, Calamandrei. Buon compleanno Danilo Dolci, spirito antico di un tempo nuovo, ancora mai arrivato.   

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