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La giustizia del governo e il governo della giustizia. Riflessioni a margine dell’Inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei penalisti italiani.

di Francesco Iacopino –  Si è conclusa sabato scorso l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani, dedicata al “processo come ostacolo” e al “carcere come destino”. Abbiamo affrontato il tema della ‘fabbrica dei reati’ e della dimensione “carcerocentrica della pena”, confrontandoci anche con il Ministro della Giustizia e la classe politica, in una sessione specificamente dedicata al “governo della giustizia” e alla “giustizia del governo”. Il “governo della giustizia” dovrebbe trovare fonte di ispirazione e alimentare la “giustizia sociale” e non delegare la soluzione delle disuguaglianze e delle povertà del nostro tempo alla “giustizia penale”. E, invece, il fallimento o, meglio, la bancarotta fraudolenta della politica sociale è “coperta” sempre di più dalla truffa continuata dell’espansione penale. In una democrazia emotiva, qual è quella nella quale viviamo, alla domanda di sicurezza collettiva si risponde bulimicamente con l’aumento “dei delitti e delle pene”. Si ignorano ostinatamente le conseguenze tossiche prodotte dal sovradosaggio del diritto penale (oramai “totale”) e si insiste demagogicamente nella folle corsa alla produzione dei reati, all’inasprimento delle sanzioni, alla somministrazione sempre maggiore di sofferenza carceraria. Una risposta illusoria, inadatta, una mal practice che alimenta il disagio individuale e l’insicurezza collettiva. Un circolo vizioso e disumano produttivo di sovraffollamento, disperazione, suicidi (negli ultimi 30 anni la popolazione carceraria è raddoppiata e, nel 2024, si sono tolti la vita ben 17 detenuti: uno ogni due giorni). Ad aggravare il carico di dolore, i centri di permanenza per il rimpatrio: carceri mascherate, fatiscenti, scandalose, che certificano l’esistenza di esseri umani di “serie b”, portatori di “diritti di scarto”, di “libertà (non) fondamentali”, “violabili”. Se rimuoviamo il velo dell’ipocrisia ci affacciamo su luoghi di “detenzione amministrativa”, vere e proprie galere per extracomunitari irregolari che (non hanno commesso reati, ma) pagano con la libertà il prezzo di un titolo di soggiorno mai avuto. Discariche per rifiuti non pericolosi, centri di raccolta dei moderni disperati della storia. A inchiodarci al muro delle nostre responsabilità ancora una volta una morte tragica, quella di Ousmane Sylla, il 22enne della nuova Guinea impiccatosi – lasciando un biglietto straziante – nel CPR di Ponte Galeria! Dovremmo fermarci e sostare davanti a tanto dolore. Arrestare la folle corsa ossessivo-punitiva. Trovare il coraggio di ribellarci a un sistema pan-penalistico che ha alterato gli equilibri del rapporto tra autorità e libertà. Smascherare le pubblicità ingannevoli che hanno anestetizzato quotidianamente il nostro senso di umanità. Perché è disumano, oltre che illusorio, pensare che le tossicodipendenze, le malattie psichiatriche, i soggiorni irregolari dei migranti economici che fuggono dalla miseria, le povertà materiali e la solitudine esistenziale possano trovare soluzioni e garantire sicurezza alle nostre vite comode e borghesi, scaricandone il peso sull’istituzione penitenziaria o, peggio, buttando via le chiavi! Non è questa la civiltà del diritto che vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli. Non è questo – un diritto penale onnivoro, vendicativo, spietato – quello che hanno immaginato i nostri padri costituenti quando ne hanno disegnato l’architettura nella nostra costituzione. E, allora, dopo due giorni intensi, ritorniamo alla quotidianità del ministero difensivo con la rinnovata consapevolezza di essere, gli Avvocati, l’ultimo baluardo, l’ultimo argine possibile alla deriva punitiva che ha dato l’abbrivio a un sistema che pretende di regolare le disuguaglianze e gli scarti sociali con la leva penale e di utilizzare il carcere come centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali. Dopo momenti alti di confronto e di formazione, che hanno irrobustito l’orgoglio di essere Avvocati, e Avvocati penalisti in particolare, ritorniamo nelle nostre trincee ancora più motivati e consapevoli del significato profondo, autentico della nostra missione e della nostra funzione, chiamati come siamo a assumere la difesa dell’uomo e delle sue libertà e, al contempo, a essere sentinelle e custodi del corredo assiologico che ha dato vita al moderno diritto penale liberale e al giusto processo.   Rassegna stampa: https://shorturl.at/bfRV6 https://shorturl.at/wxL08 https://shorturl.at/eBISV http://tinyurl.com/ymn4232e https://t.ly/8O86K  

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Uno Stato minimo nei contenuti sociali e massimo nell’esercizio del potere punitivo

di Alberto Scerbo e Orlando Sapia –   Nonostante tutti gli esecutivi e le rispettive maggioranze degli ultimi trent’anni si siano sempre professate assolutamente liberali, hanno in vero realizzato delle politiche in materia di sicurezza in direzione opposta al paradigma garantista di matrice liberale che vorrebbe l’esercizio del potere punitivo da parte dello Stato, ovverossia il potere penale, da considerarsi quale extrema ratio di governo. In compenso, la medesima classe politica, nelle sue poliedriche declinazioni, al netto delle eccezioni imposte da una realtà non facilmente imbrigliabile, si è distinta nel sostenere e realizzare i più spinti propositi di ristrutturazione statale all’insegna del laisser faire, laisser passer. Nel corso degli ultimi decenni, il martellante battere della grancassa sull’interesse primario dell’impresa e sull’idea dello Stato considerato alla stregua di un’azienda, se ha condotto ad un’iniziale presa di coscienza della necessità di un’amministrazione della cosa pubblica secondo criteri anche di economicità, per superare decenni di sperperi, per altro verso ha instaurato un regime di governo improntato sulla prevalenza assoluta dei parametri economici. Dimenticando, però, che il perseguimento del bene comune non si misura semplicemente in termini numerici, perché comprende anche la tutela dei ceti più deboli, l’eliminazione delle sacche di emarginazione, la solidarietà sociale e in modo prevalente l’accesso di tutti ai diritti fondamentali. Con l’effetto per nulla inatteso di un processo di selvaggia privatizzazione di enti e servizi, di un’azione amministrativa rispondente alla logica aziendalistica, di una configurazione dei rapporti di lavoro improntati sulla flessibilità e lo scardinamento delle difese giuridiche, della compressione delle tutele e di un’erosione graduale dello stato sociale. In un contesto così delineato si sono profilati in maniera costante ripetuti tagli in settori evidentemente ritenuti non produttivi almeno nell’immediato. Una visione sicuramente miope degli interessi collettivi, accompagnata dalla mancanza di proiezione verso l’avvenire, ha indotto, così, a mortificare campi nevralgici come la ricerca e la sanità, ma soprattutto ad operare un graduale, ma continuo, taglio della spesa sociale. A questo progressivo arretramento dello Stato sulle politiche sociali a tutti i livelli ha fatto riscontro un incremento delle soluzioni di tipo penalistico, quale rimedio giuridico dei problemi e dei mali sociali. Con l’idea ben precisa di affidare alla materia penalistica un ruolo catartico nei riguardi dell’opinione pubblica. Si sono andate sviluppando, così, le dinamiche tipiche del «populismo penale» che ha ridotto la scelta di criminalizzazione ad una operazione di marketing, in ragione della quale si è avuto un aumento delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, la creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata. L’esempio più recente è quello annunciato qualche settimana addietro con il comunicato n. 59 del Consiglio dei Ministri, per ora cristallizzato in un disegno di legge approvato dall’esecutivo, in attesa di passare dal vaglio parlamentare, che assai probabilmente lo approverà senza intaccarne la struttura e il finalismo. Tra le novità risaltano la norma che renderà da obbligatorio a facoltativo il differimento pena per le donne incinte e le madri con prole fino a un anno, così aprendo le porte degli istituti penitenziari ai bambini, di certo incolpevoli, al seguito delle madri. Trattasi di una normativa che è stata pensata con particolare riguardo alle donne di etnia rom, così rispolverando vecchie logiche parrebbe ispirate al diritto penale del nemico. Queste innovazioni sono nel solco di quanto già fatto dai precedenti esecutivi, al di là del colore politico. Difatti negli ultimi anni, oltre l’allargamento delle misure di prevenzione con l’introduzione del Daspo Urbano (Decreto c.d. Minniti 2017), sempre suscettibili di nuove applicazioni, come disposto dal Decreto c.d. Caivano, addirittura nei confronti dei minori. Si assiste alla continua creazione di nuove fattispecie punitive, del tutto superflue ad esempio la norma contro i rave party (art. 633 bis), oppure all’aumento delle pene, molto spesso incidendo proprio sul minimo. In questo senso la L. n. 107/2023, c.d. Riforma Orlando, che ha innalzato i minimi delle pene per le fattispecie di rapina, estorsione e furto in abitazione. Reati quest’ultimi contro il patrimonio che sono commessi, molto probabilmente, da soggetti che sono stati risucchiati in quella fascia di povertà assoluta che sempre più si allarga, causata delle crisi cicliche economiche e sociali che hanno investito il paese negli ultimi anni. La risposta dello Stato a questi nuovi poveri, emarginati o espulsi dal ciclo produttivo o che giungono sulle barche della disperazione sulle nostre coste, in fuga da fame, guerra e regime violenti irrispettosi dei diritti umani, al netto di qualche provvedimento ottriato di volta in volta così da calmierare gli animi, è il diritto penale, probabilmente perché, tra gli altri vantaggi, è anche a costo zero, almeno nell’immediato. In modo sistematico si è andato profilando, in tal modo, un vero e proprio diritto penale massimo, che, silenziosamente, ha sfruttato le ansie derivanti dai pericoli avvertiti dalla collettività, per attuare una espansione del potere punitivo, con il coinvolgimento di un numero sempre più ampio di soggetti inseriti nel circuito della penalità. Sotto questo aspetto la pena torna, però, ad essere crudele o forse non ha mai smesso di esserlo e il re è nudo. Il garantismo, nella politica legislativa dell’Italia repubblicana, è durato lo spazio di un mattino, dall’approvazione della prima riforma dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 alla riforma del Codice di Procedura Penale del 1989, per poi cedere il passo al mantra della Zero Tolerance. (Pubblicato 8/02/24 in “Studi sulla questione criminale”, Nuova serie dei delitti e delle pene)

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“Liberi” di amare? – Breve nota alla pronuncia della Corte Costituzionale, n.10/2024, in tema di affettività in carcere.

Osservatorio Carcere – Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” – In data 26 gennaio 2024 la Corte Costituzionale con Sentenza n. 10/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354 per la mancata previsione di modalità per l’esercizio dell’affettività tra il detenuto ed il coniuge o il convivente. La questione sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale ha abbrivio dall’ordinanza di rimessione n. 2023/23 del Tribunale di Sorveglianza di Spoleto emessa a seguito del reclamo presentato da un detenuto presso la Casa Circondariale di Terni. Costui ha evidenziato di essere ristretto in esecuzione di ordine di carcerazione dal 11.07.2019 con fine pena previsto per il 10.04.2026, di non poter beneficiare, a causa di alcune infrazioni, di permessi premio di un programma di trattamento in suo favore e per tali ragioni lamentava le difficoltà nel mantenere, migliorare e ristabilire le relazioni familiari, potendo svolgere unicamente colloqui visivi con la propria compagna e con la figlia minore di anni tre. Il detenuto, invero, rappresentava che in occasione di tali colloqui non aveva modo di esercitare il proprio diritto all’affettività, non potendo usufruire di spazi adeguati ed essendovi un controllo a vista da parte del personale della Polizia Penitenziaria. Ciò determinava un serio pregiudizio per il sereno sviluppo della relazione di coppia e per la tutela del diritto alla genitorialità a cui il reclamante attribuiva particolare rilievo in funzione del futuro reinserimento sociale. Effettivamente il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto nella propria ordinanza di rimessione ha accertato che la condizione detentiva  si traduceva in un vero e proprio divieto all’esercizio dell’affettività in una dimensione riservata ed in particolare della sessualità con il partner anche perché i colloqui visivi con i familiari sono svolti con il controllo a vista del personale dell’istituto di detenzione, così come previsto dall’art. 18 comma 3 dell’ordinamento penitenziario. Previsione, quella del controllo visivo, del tutto inidonea ad assicurare l’esercizio dell’affettività, compresa la sessualità, nel rispetto della riservatezza da riconoscere anche nel contesto della detenzione carceraria. Peraltro, il Tribunale di sorveglianza di Spoleto, nel sollevare la questione di illegittimità Costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3, 13, 4, 27 comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117 comma 1 della Costituzione, ha evidenziato che già in passato la Corte Costituzionale si era occupata di analoga doglianza avanzata dal Tribunale di Sorveglianza di Firenze ed in tale occasione si era pronunciata dichiarandone l’inammissibilità (sentenza n. 301 del 2012) ritenendo che il diritto alla sessualità poteva essere garantito attraverso la concessione di permessi premio, ravvisando che l’esigenza prospettata era da considerare “reale e fortemente avvertita”, tanto da  invitare il Legislatore, rimasto inerte, ad intervenire, anche alla luce di indirizzi giurisprudenziali derivati dalle fonti sovranazionali. In realtà il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto nell’ordinanza di rimessione ha precisato che la circostanza di poter usufruire di permessi premio in realtà non affronta la problematica sottesa, quanto piuttosto determina uno spostamento dell’esercizio di un diritto fondamentale della persona verso l’orizzonte della premialità, che rappresenta carattere di eccezionalità rispetto al diritto alla sessualità, il cui effettivo esercizio non può essere neppure garantito con l’istituto del permesso per gravi motivi di cui all’art. 30 dell’ordinamento penitenziario, concedibile soltanto in casi stringenti ed eccezionali che non prevedono l’esercizio della sessualità. Ha rappresentato, dunque, il Tribunale di Sorveglianza che nel caso specifico l’interessato era un soggetto ristretto in media sicurezza, che non ha commesso reati che lo descrivano come collegato ad organizzazioni criminali, non era sottoposto a controllo visivo e auditivo, la sua corrispondenza non era controllata e, dunque, si è ravvisato che inibizione dei contatti intimi con la compagna non poteva incidere, aumentandolo, sul livello di sicurezza per la collettività. Alquanto diverso dall’ipotesi del detenuto sottoposto al 41-bis O.P.  per il quale le limitazioni all’esercizio del diritto all’affettività sono rese necessarie proprio per scongiurare il pericolo della veicolazione di messaggi illeciti o direttive verso l’esterno, tanto da richiedere la video registrazione dei colloqui con evidente compressione nell’esercizio della sfera di riservatezza. Consegue che l’indifferenziato divieto di svolgere colloqui intimi è da intendere in contrasto sia con la protezione della famiglia pregiudicando i rapporti di coppia, perché compromette il diritto alla genitorialità, vanifica l’attuazione effettiva del principio di rieducazione prescritto dall’art. 27 della Costituzione e contrasta con la tutela dei diritti fondamentali della persona per come riconosciuti dall’art. 8 del CEDU, secondo il quale ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare attuato in molti paesi europei, anche, attraverso le visite coniugali ai detenuti. D’altra parte il Tribunale di Sorveglianza  nella sua ordinanza ha denotato lo stringente contrasto con la normativa prevista dall’ordinamento penitenziario minorile che favorisce le relazioni affettive, garantendo visite prolungate in unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti, in grado di riprodurre, per quanto possibile un ambiente familiare, tanto da ravvisare una irragionevole disparità di trattamento tra quanto attuato negli istituti penitenziari minorili ed in quelli per gli adulti.   La valenza dell’articolato tessuto normativo, giurisprudenziale e argomentativo  espresso dal Tribunale di Sorveglianza di Spoleto è stato riconosciuto totalmente fondato, tanto da indurre la Corte Costituzionale, con una sentenza storica per il nostro Ordinamento,  a dichiarare   “l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354 nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie”. Motiva al riguardo la Consulta che lo stato di detenzione non può annullare l’esercizio della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto e che la prescrizione del controllo visivo durante lo svolgimento dei colloqui con le persone legate al detenuto da stabile relazione affettiva, si risolve in una compressione sproporzionata ed in un sacrificio irragionevole della dignità della persona in violazione dell’art. 3 della Costituzione che si ripercuote, anche, sui familiari non

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Nino D’Uva, l’avvocato dei maxi processi

di Antonio Ludovico – Nell’immaginario collettivo dei siciliani, la provincia di Messina viene definita da sempre come la “provincia babba“, ossia quel territorio lontano anni luce da dinamiche e strategie di tipo mafioso, quasi una zona franca e libera da appetiti criminali. Nulla di più sbagliato, esattamente come una lettura distorta di un libro di storia. E la vicenda dell’avvocato Nino D’Uva sta qui a dimostrarlo, purtroppo, nella sua drammatica interezza. Infatti, a metà degli anni ottanta, l’Italia giudiziaria era travolta dai cosiddetti maxi processi, una sequela spasmodica di inchieste fiume – scaturite per lo più dalle dichiarazioni dei primi pentiti di mafia – che generavano maxi retate e, conseguentemente, dibattimenti elefantiaci con centinaia e centinaia di imputati alla sbarra. Contrariamente alla vulgata ricorrente, anche Messina – così come Palermo- ebbe in quegli anni turbolenti il suo maxi processo (a dire il vero fu il secondo, dopo quello “ai 69” qualche anno prima). Ed infatti, alla sbarra finirono ben 283 imputati, tutti gravitanti nell’area peloritana, accusati di associazione mafiosa e traffico di droga. E tutti assiepati nell’aula bunker di Gazzi, dove – raccontano le cronache di allora – poteva succedere di tutto: urla, schiamazzi, insulti, minacce e cose di questo genere. L’avvocato Nino D’Uva – un uomo raffinatissimo, colto, intelligente, spigliato come pochi, rappresentava ben 13 imputati ed era considerato da tutti un professionista dalla schiena dritta, un punto di riferimento, tant’è che assunse un ruolo che potremmo definire di raccordo tra la Corte e gli imputati. Nativo di Livorno, si trasferì con la famiglia a soli dieci anni in Sicilia dove si laureò a soli 21 anni con il massimo dei voti e scelse da subito la nobile professione forense, non disdegnando però di curare l’amore per la letteratura, il teatro, la pittura e l’arte in generale. Insomma, un uomo che non perdeva il suo tempo soltanto dietro i codici e gli atti processuali, ma che arricchiva il suo sapere spaziando i campi d’interesse nelle nobili arti. Tornando al maxi processo, c’è da precisare che quello che iniziò il 14 aprile del 1986, scaturiva dal famoso blitz della notte di San Paolino, dove furono arrestati personaggi famigerati come Gaetano Costa, detto “Facc’i sola”, amico di Raffaele Cutolo (protagonista in negativo di questa triste storia), Placido Cariolo, Carmelo Milone, boss di Barcellona, Lorenzino Ingemi e, in un clima letteralmente infuocato, il presidente Domenico Cucchiara riusciva a stento a mantenere l’ordine in aula. Basti pensare che qualcuno paragonò quel luogo ad un campo di calcio di periferia, visti i fischi, gli strepiti e le invettive che gli imputati rivolgevano al pentito Giuseppe Insolito, ma anche agli avvocati difensori, rei (a loro dire) di una strategia troppo morbida ed accomodante. Ed in questo clima di tensione, nel corso di un’udienza affollatissima, un imputato scagliò una scarpa proprio all’avvocato Nino D’Uva, colpendolo in pieno. Neanche a dirsi, quella era non una plateale rimostranza, ma il segnale che il killer attendeva tra le fila del pubblico per mettere a segno il suo terribile omicidio. Cosa che avverrà, tra le 19 e le 20, del 6 maggio 1986, nello studio del prestigioso avvocato messinese, in via San Giacomo, quando qualcuno bussò alla porta, entrò, prese un cuscino che utilizzò come silenziatore e, mentre D’Uva, era voltato di spalle, intento a fare una telefonata, gli esplose un colpo di pistola alla nuca stramazzandolo a terra. Poi, uscì dallo studio dove all’esterno c’era il complice ad aspettarlo a bordo di una Mini verde per fuggire via. Un’ora più tardi, di quel corpo riverso a terra in una pozza di sangue se ne accorse la colf che avvisò subito la Questura. Le indagini furono particolarmente complesse e, solo grazie all’ausilio di un pentito (Umberto Santacaterina), portarono all’arresto di un giovanissimo di soli 19 anni, Placido Dino Calogero, ma il mandante fu il terribile boss Gaetano Costa, l’ultimo vero padrino della mafia messinese, che da dietro le sbarre del carcere dell’Asinara (insieme ai suoi accoliti, in particolare il fidato Mario Marchese), ordinò altri sette omicidi riguardanti presunti sodali di una cosca agguerritissima e sanguinaria. Ma non finisce qui, poiché – 14 anni dopo – a seguito delle dichiarazioni di un altro pentito, Pasquale Barreca, si scoprì un’altra pista investigativa, quella che portava direttamente in Calabria, per la precisione a Melito Porto Salvo, regno incontrastato del boss Natale Lamonte, condannato a sette anni di reclusione dal genero di Nino D’Uva, il giudice del tribunale di Palmi Melchiorre Briguglio (marito di Giuseppina D’Uva, anch’essa magistrato presso lo stesso tribunale) in un processo nel quale l’avvocato messinese non accettò il mandato difensivo per evidenti ragioni d’incompatibilità. Storie che sembrano provenire da un passato remoto, ma che invece somigliano tanto a schegge e frammenti di una realtà che a volte riusciva nell’impresa di superare la fantasia. L’esempio di avvocati come Nino D’Uva ci rende comunque fieri di sentirsi parte della più nobile delle professioni, così come la sua straordinaria capacità di restare fedele ai valori del principio di legalità; princìpi che andavano oltre la tracotanza di taluni soggetti che pensavano di poter mettere a tacere quei capisaldi con l’uso della violenza. Nino D’Uva morì a soli 61 anni, un’età che si può tranquillamente considerare “giovane” per chi – come il professionista messinese – svolgeva il suo lavoro con grande passione, un’abnegazione assoluta ed una competenza riconosciuta da tutti. “Ricordare è fondamentale “sottolinea da sempre il figlio Gerardo ed è per questo che è nata – nel 2006 – un’associazione culturale forense che porta il nome del grande penalista e l’aula del Tribunale di sorveglianza di Messina è stata giustamente intitolata alla sua memoria. Per la cronaca: dei 283 imputati, ben 180 furono assolti con le formule più svariate, in un clima da autentica corrida, tra striscioni di protesta e tentativi palesi di ritardare la sentenza per arrivare alla scadenza termini; ma l’anima gentile dell’avvocato Nino D’Uva non riuscì mai ad ascoltare quel verdetto.

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Il giornalista Paolo Orofino spiato col trojan. Attacco degli apparati investigativi e silenzio stampa, (quasi) totale. Chi imbavaglia, per davvero, la libertà di informazione?

Si levano scudi ogni qualvolta si denunzia l’abuso delle intercettazioni e si invoca la necessaria “separazione delle carriere” tra Uffici di Procura e mezzi di informazione. Un munitissimo blocco di potere dispone di tanta forza da essere capace anche di manipolare il dibattito pubblico sull’argomento, demonizzando l’opinione critica e anche addirittura attribuendo ad una maggioranza di governo – della cui ispirazione autoritaria nessuno in buona fede potrebbe dubitare – l’intento di smantellare la lotta al crimine. Certa stampa che campa di veline, ça va sans dire, si presta a sostenere simili incredibili paradossi. Non è sorprendente, allora, che passino (quasi) inosservati gli abusi dell’autorità inquirente contro la libertà di informazione. Sembra non interessare agli agiografi della democratura giudiziaria il fatto che un giornalista, nella specie Paolo Orofino de Il Quotidiano del Sud, nell’esercizio della sua professione e a motivo del suo lavoro, venga intercettato con il più potente, invasivo, indiscriminato strumento di spionaggio che la tecnologia militare ha messo a disposizione della lotta contro il Male della società. Non interessa scoprire che “la bomba atomica dell’investigazione” possa attivarsi nei confronti di soggetto estraneo all’indagine (Orofino non è mai stato mai indagato nel procedimento in questione, che riguardava un Magistrato, ma è stato “spiato” solo per aver “dialogato” con lui) e sulla base di ipotesi di reato tanto evanescente da essere considerata manifestamente infondata all’esito dell’indagine esplorativa. Nemmeno interessa la rilevanza dei diritti fondamentali soppressi da tale uso esplorativo/preventivo dell’intercettazione: la libertà e segretezza delle comunicazioni, la riservatezza della vita privata e la libertà dell’informazione che non tollerano controlli preventivi o censure. Nemmeno quando siano in gioco tali valori fondativi della democrazia liberale preoccupa l’uso di uno strumento che non risparmia alcun aspetto della vita dello spiato, relazioni personali, lavoro, opinioni, affetti, sentimenti, emozioni. Un patrimonio di dati sensibilissimi di cui il bersaglio dell’indagine viene espropriato e del quale nemmeno potrà controllare l’uso che l’autorità vorrà a farne. Perché l’apparato sarà libero di attingervi e impedire l’accesso allo stesso titolare del diritto violato. Di fronte a uno strappo così forte con la libertà e le stesse fondamenta della democrazia, ci si sarebbe attesi una reazione immediata, istintiva, corale, un’insurrezione dei colleghi giornalisti e della stampa in difesa della libertà di tutti, messa in discussione dalle modalità insidiose e invasive con le quali è stata schiacciata e compressa quella del singolo, in questo caso di Orofino. E, invece, questa reazione (caratteristica di ogni paese civile) non è arrivata. Anzi. È accaduto il contrario. Il silenzio è stato (quasi) assordante. Abbiamo così compreso che ci sono bavagli finti, sui quali si strilla, per non modificare il comodo status quo (sul cui altare un collega può ben essere sacrificato), e bavagli veri, che invece funzionano bene, e fanno paura. Eccome. E allora occorre uno scatto di orgoglio, un richiamo alla verità del nostro tempo e alla serietà delle nostre funzioni. Se all’Avvocatura compete il ruolo di “sentinella dei diritti”, ai Giornalisti è assegnato il compito di essere il “cane da guardia della democrazia”. Avremmo dovuto (e voluto) sentire ringhiare. Speriamo, ancora, in un colpo di reni e che ciò accada. Altrimenti avremo consentito un ulteriore stato di avanzamento nel percorso di “tolleranza autoritaria” che la nostra società civile (?) sta indifferentemente consentendo. Non è ancora persa l’occasione per confrontarsi su questi temi. Anche i più ostinati alfieri dell’autoritarismo repressivo, quelli che proprio non riescono a volgere lo sguardo verso le macerie prodotte dalla visione massimalista della giustizia penale di lotta, potrebbero cogliere l’occasione, e lo speriamo davvero, per una pausa di riflessione. Rassegna stampa:  https://shorturl.at/FJL49 https://shorturl.at/afgyU   Camera Penale di Castrovillari Il Presidente – Avv. Michele Donadio Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” Il Presidente – Avv. Francesco Iacopino Camera Penale di Cosenza “Avvocato Fausto Gullo” Il Presidente – Avv. Roberto Le Pera Camera Penale di Crotone “G. Scola” Il Presidente – Avv. Romualdo Truncè Camera Penale di Lamezia Terme “Avvocato Felice Manfredi” Il Presidente – Avv. Renzo Andricciola Camera Penale di Locri “G. Simonetti” Il Presidente – Avv. Antonio Alvaro Camera Penale di Palmi “V. Silipigni” Il Presidente – Avv. Giuseppe Milicia Camera Penale di Paola “E. Lo Giudice” Il Presidente – Avv. Massimo Zicarelli Camera Penale di Reggio Calabria “G. Sardiello” Il Presidente – Avv. Pasquale Foti Camera Penale di Rossano Il Presidente – Avv. Giovanni Zagarese Camera Penale di Vibo Valentia “F. Casuscelli” Il Presidente – Avv. Giuseppe Mario Aloi Il Coordinatore delle Camere Penali Calabresi Avv. Giuseppe Milicia

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Ascolto e dialogo, filo e ago per intrecciare un incontro

Nell’aula Magna del liceo classico P. Galluppi di Catanzaro – luogo che testimonia e racconta una cultura dell’incontro e dell’amicizia – si sono dati appuntamento tantissimi giovani studenti per ascoltare e per essere ascoltati. I protagonisti di questa conversazione, Rossella Loprete, assistente sociale, Sergio Caruso, criminologo, Gennaro Del Prete, assistente sociale, Antonella Canino, consigliera del direttivo della Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora”. I temi trattati – devianza minorile e criminalità organizzata, disfunzione genitoriale e impegno sociale – hanno evidenziato come la famiglia e il contesto socio-culturale incidono nel processo evolutivo del minore, nei contesti di criminalità organizzata. Questa incisività è devastante perché i modelli educativi sono autoritari e orientano il minore all’obbedienza. Le conseguenze si possono dedurre: un minore educato all’omertà e alla vendetta. Suggestivo, l’incappo con il dott. Gennaro Del Prete. Il suo libro “ Dal Dolore L’Impegno Sociale”, testimonianza che si è sagomata su frammenti di vita vissuta, è un racconto con caratura sociologica. La morte del padre, Federico Del Prete, sindacalista ucciso perché si era ribellato ai tanti soprusi della camorra, diventa dolore che si trasforma in passione e che diventa impegno di aiuto per i giovani in difficoltà. Una giornata straordinaria nell’aula magna del liceo classico P. Galluppi, una giornata di studio proposta e voluta dal Prof. Gianluca Scalise, referente per la legalità dello stesso liceo e organizzata dalla Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora” e dall’osservatorio Miur rappresentato dall’Avv. Amedeo Bianco, in collaborazione con la dottoressa Rossella Loprete. Moderatore del convegno l’avv. Leo Pallone, direttore della rivista “Ante Litteram” della Camera Penale di Catanzaro.

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Brevi note in tema di giustizia riparativa

  Osservatorio Giustizia Riparativa, Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro –  La giustizia riparativa, intesa come forma di mediazione tra l’autore di un reato, la vittima/persona offesa e la società, ha radici risalenti nel tempo, in Italia ed in Europa.Il d.Lgs. 150/2022 ha introdotto una disciplina organica concernente l’applicazione sistematica dell’istituto nelle nostre aule di giustizia. In effetti, buona parte della Riforma Cartabia è stata dedicata alla predisposizione di norme con il fine di regolare la materia in esame. Da qui lo sviluppo di aspettative considerevoli sull’applicazione delle stesse. Ad ormai più di un anno dall’entrata in vigore del decreto, l’attuazione pratica delle disposizioni in questione non ha ancora convinto del tutto, per così dire, gli addetti ai lavori. Sono di tutta evidenza le difficoltà concernenti la materia, sotto ogni punto di vista: organizzativo, pratico e, non ultimo, sostanziale. Tralasciando, per quel che riguarda il presente contributo, le problematiche emerse in ordine alla organizzazione delle strutture (centri per la G.R.), alla formazione di mediatori esperti e alla istituzione delle Conferenze locali per la Giustizia riparativa (era lecito aspettarsi delle difficoltà iniziali in tal senso) – che pure sono ostacoli di non poco conto – quel che preoccupa è l’uniformità di giudizio dei giudicanti ai quali perviene un’istanza di accesso ai programmi di G.R. In tema di organizzazione e sviluppo delle strutture, nonché delle figure che saranno protagoniste nel campo della giustizia riparativa, ci si aspetta celeri risposte da parte dei soggetti preposti. Analizzando, nel mentre, il profilo sostanziale, l’incertezza aumenta e si aggiunge alle criticità di cui sopra. È innegabile, sul punto, quale fosse l’intento del legislatore.         La Giustizia Riparativa non nasce come uno strumento attraverso il quale “sottrarsi” ai procedimenti penali. Non rappresenta assolutamente una forma di giustizia alternativa a quella ordinaria. Trattasi piuttosto di un percorso incidentale a quello del procedimento penale vero e proprio che consente, il più delle volte, di ridimensionare il trattamento sanzionatorio del soggetto di cui sia stata (o sarà) accertata la responsabilità penale. Ciò che si sostiene è palese essendo previsto che l’accesso ai programmi di giustizia riparativa può avvenire in ogni stato e grado del procedimento, nella fase di esecuzione della pena e della misura di sicurezza e dopo l’esecuzione delle stesse. La riforma intendeva, ed intende, a ben vedere, offrire la massima potenzialità operativa allo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, permettendone lo sviluppo addirittura in fase esecutiva della pena. La sensazione, allo stato, è che non sia stata del tutto recepita la ratio e la finalità dei programmi di G.R., in quanto stiamo assistendo a provvedimenti diametralmente opposti relativi alle richieste di accesso proposte nelle diverse aule di giustizia. A titolo di esemplificativo è sufficiente confrontare le decisioni assunte in questo primo arco temporale di operatività della nuova disciplina. È opportuno evidenziare il caso di Davide Fontana, imputato e condannato in primo grado per il delitto di omicidio. La Corte di Assise di Busto Arsizio – con ordinanza emessa in data 19.9.2023 – ha disposto, su istanza di parte, l’invio degli atti al Centro per la Giustizia Riparativa di Milano per la predisposizione di un programma di G.R.La decisione della Corte è avvenuta nonostante la richiesta di rigetto della Procura e del difensore delle costituite Parti civili, le quali rappresentavano di non consentire rapporto di alcun tipo, neanche tramite mediazione, con il Fontana. La Corte di Assise di Busto Arsizio ha sottolineato, attraverso l’ordinanza,  i concetti che esprimono proprio quella ratio di cui si accennava prima l’esistenza, per disporre l’invio del caso al Centro per la Giustizia Riparativa: “ritenuto, esaminati gli atti, che nel caso concreto lo svolgimento di un programma di giustizia riparativa – laddove ritenuto esperibile anche con “vittima aspecifica” – possa comunque essere utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede, giacché la ratio dell’istituto è quella di ricomporre la frattura che il fatto illecito crea non solo tra autore e vittima del reato, ma anche all’interno del contesto sociale di riferimento e che l’istituto di cui è stata chiesta l’applicazione ha anche, se non soprattutto, natura pubblicistica ed ha lo scopo ulteriore di far maturare un clima di sicurezza sociale (cfr relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione, pag 297), sicché la volontà del legislatore è indubbiamente di incentivare il ricorso a detto strumento, come emerge dall’art. 43, comma 4, d.Lgs. 150/2022, secondo cui l’accesso ai programmi di giustizia riparativa è sempre favorito (…)” Proprio l’art. 43, comma 4, della “Riforma Cartabia” evidenzia la volontà del legislatore: l’unica circostanza che limita il ricorso alla G.R. consiste in un pericolo concreto per i partecipanti che sia direttamente dipendente dallo svolgimento del programma. È, in particolare, questa norma che rende di difficile comprensione gli svariati provvedimenti di rigetto di cui tutti noi siamo ad oggi testimoni. Quasi come se la G.R. rappresenti un peso o addirittura un “escamotage” del richiedente. Un esempio, del tutto contrario a quello poc’anzi citato, lo si rinviene in un’ordinanza emessa quasi contestualmente al provvedimento della Corte d’Assise di Busto Arsizio. La Corte d’Appello di Milano, in data 12 luglio 2023, rigettava così – nonostante il parere positivo espresso dalla Procura Generale – l’istanza di accesso ad un programma riparativo: “rilevato che i programmi di giustizia riparativa, per come configurati dal d. Lgs 150/2022 (..) si rivolgono agli autori di reati che contemplino l’esistenza di una vittima; rilevato, infatti, che l’art. 53 d. Lgs. 150/2022 individua come possibili programmi di giustizia riparativa la mediazione, il dialogo riparativo e ogni altro programma dialogico; ritenuto che in un reato privo di vittima – quale è l’art. 73 DPR 309/90 – non è ontologicamente ipotizzabile un dialogo di alcun tipo, mancando la parte con cui intrattenere un dialogo; rilevato, dunque, che l’istanza non possa essere accolta per le ragioni suddette; p.q.m. rigetta l’istanza”. Il risultato che consegue dal confronto dei due provvedimenti riportati, i quali sembrano emessi sulla scorta di norme contrastanti, può essere solo uno: confusione. Risulta singolare come, in entrambi i casi, non vi sia uniformità, non solo tra

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Inaccettabile ogni indebita compressione del diritto di difesa

Un PM milanese apre un’indagine a carico del difensore di una imputata mentre il processo per un grave fatto di omicidio è in corso. Abbiamo appreso con sconcerto la notizia dell’indagine aperta da un PM milanese a carico del difensore di una imputata mentre il processo per un grave fatto di omicidio era in corso davanti alla Corte di Assise. Si è successivamente appreso che uno dei due PM, che sostenevano l’accusa nel processo a carico di Alessia Pifferi, tenendo il collega all’oscuro della sua iniziativa, ha ritenuto di indagare l’avvocata Pontenani, difensore dell’imputata, per il solo fatto di aver utilizzato le relazioni redatte da due psicologhe del carcere nel quale la Pifferi si trova ristretta, indagate a loro volta per il reato di falso, al fine di sostenere l’esistenza di un deficit di sviluppo intellettivo a carico della propria assistita e chiederne la sottoposizione a perizia psichiatrica. Perizia che è stata successivamente disposta dalla Corte d’Assise e che è attualmente in corso. Secondo l’ipotesi accusatoria, le relazioni delle psicologhe conterrebbero infatti false attestazioni sulle condizioni mentali della detenuta strumentalmente volte ad ottenere una perizia psichiatrica ed è per tale ragione che nel corso delle indagini sarebbero state disposte, nei loro confronti, intercettazioni telefoniche ed ambientali, nonché la perquisizione delle abitazioni delle stesse. È notizia della stampa di oggi che, mentre una dei due PM titolare dell’accusa, in quanto tenuta all’oscuro della iniziativa in questione, ha deciso di rinunciare all’assegnazione del fascicolo, nell’ambito del processo pendente davanti alla Corte d’Assise il difensore dell’imputata ha dichiarato di non voler rinunciare alla difesa sebbene oggetto di iscrizione su iniziativa della stessa PM a lei contrapposta in quel processo. Non possiamo non considerare che questa indagine, inserita clamorosamente all’interno di un dibattimento in corso, finisca con l’alterare gli ordinari equilibri del processo e con il compromettere la serenità di chi, giudici e perito, dovranno esprimere le proprie valutazioni, facendo emergere come, ancora una volta, la funzione difensiva e chi la esercita appaiano delegittimati dalla stessa unilaterale iniziativa del PM, volta ad affermare l’esistenza di un concorso del difensore nelle ipotizzate condotte illecite di terzi, il che evidenzia, se ancora ve ne fosse bisogno, non solo la disparità processuale tra accusa e difesa, ma anche la sostanziale confusione fra la posizione e il ruolo del difensore e la figura dell’assistito. Per queste ragioni, pur senza voler entrare nel merito della vicenda processuale, dobbiamo stigmatizzare quanto accaduto e sottolineare come sia inaccettabile ogni indebita compressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito comunque essa sia perseguita, dentro e fuori il processo. Sorveglieremo per comprendere cosa ha in particolare giustificato l’iscrizione della collega nel registro degli indagati e infine in che contesto tali iniziative sono maturate, perché, se questo è ciò che attende il processo del futuro con una parte, il PM, che indaga l’altra parte a dibattimento aperto, sulla sola base di una incontrollata ipotesi investigativa, possiamo celebrare il requiem non solo del rito accusatorio, ma della giustizia in quanto tale. Unione delle Camere Penali Italiane Il documento della Giunta https://shorturl.at/oxAEM

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Solidarietà al Prof. Avv. Giovanni Caruso, legale di Filippo Turetta – Senza difesa non c’è giustizia

  Osservatorio Avvocati Minacciati –  Qualche giorno fa, in coincidenza della giornata internazionale dedicata agli avvocati minacciati, è stata pubblicata la notizia che il 16 novembre scorso, sulla piattaforma online Chang.org, un dipendente del Ministero della Cultura ha lanciato una petizione per chiedere al Prof. Avv. Giovanni Caruso, legale di Filippo Turetta e Ordinario di Diritto Penale presso l’Università di Padova, di rinunciare al mandato difensivo, chiedendo altresì all’Ateneo di esprimersi pubblicamente, in ordine al mandato assunto dal docente, dissociandosi dalla scelta “inopportuna” dello stesso. Per i promotori dell’iniziativa e per i circa 200 sottoscrittori, accettare l’incarico di difesa o non dissociarsi pubblicamente dall’accettazione di tale mandato, significa in qualche modo non condannare la violenza sulle donne, non essere loro vicine. Sono state raccolte 200 firme, con l’obiettivo di raggiungere quota 500. Cinquecento firme per confermare che, nell’epoca del dilagante populismo penale, ci sono categorie di imputati per le quali è disonorevole assicurare il diritto di difesa, imputati che non “meritano” un giusto processo, di fatto anche inutile, avendo peraltro la “giuria popolare” già emesso la relativa sentenza. La difesa di un ragazzo, scrivono, che “ha commesso un omicidio efferato e la cui colpevolezza è indubitabile” rappresenta, nella coscienza di queste persone, un complesso di limiti e vincoli all’esercizio del potere punitivo nei confronti del colpevole e, pertanto, l’accusato andrebbe abbandonato a sé stesso, senza alcuna tutela, e chiuso nelle patrie galere fino alla fine dei suoi giorni, buttando via la chiave. La petizione lanciata in rete è il chiaro segno di una deriva culturale che si esprime con una sempre più pressante richiesta di giustizia “vendicativa”, parossistica, e di una delegittimazione della figura dell’avvocato, espressione di un giustizialismo spicciolo non degno di un Paese civile che vanta un’alta tradizione giuridica. L’Avvocatura non può tollerare una condotta di tale gravità, non può non stigmatizzare il chiaro invito rivolto al Prof. Caruso di fare un passo indietro. Si sta pericolosamente diffondendo nell’opinione pubblica l’idea che assumere la difesa di un soggetto imputato di un reato di sangue voglia dire, in qualche modo, ritenere giustificabile il reato o fiancheggiare il suo (possibile) autore e che ciò sia disonorevole, vieppiù, come nel caso di specie, se il professionista in questione sia anche un accademico. Orbene, nel quadro dei valori liberali di derivazione illuministica, a cui si ispira il nostro processo penale, nessun uomo accusato di un reato, qualunque esso sia, può essere privato del diritto di difesa. Ogni imputato ha diritto all’assistenza legale e un giusto processo, nel contraddittorio tra le parti e davanti a un Giudice terzo e imparziale. Questa è la base della nostra civiltà e la garanzia della nostra libertà. Di tutti. Senza difesa (effettiva) non può esserci sentenza “giusta”. E difatti, la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento ed a sancirlo è l’art. 24 della nostra Carta fondamentale. In questo quadro valoriale, il difensore assume il ruolo di sentinella nel processo, a tutela dei diritti fondamentali della persona, di ogni persona, e del rispetto delle garanzie processuali. Dunque, la scelta se accettare o meno la difesa di un imputato deve riguardare solo ed unicamente il professionista e tale decisione non può tollerare condizionamenti o critiche che possano interferire con l’esercizio in piena autonomia del mandato difensivo. A fronte di ciò, le pressioni finalizzate a convincere il difensore di Filippo Turetta a rinunciare al mandato conferitogli – giudicando disonorevole l’esercizio del suo ministero – appaiono del tutto insensate e pretestuose, atte solo ad alimentare la gogna mediatica e ad imbarbarire il dibattito pubblico sui temi della giustizia. L’iniziativa che si sta portando avanti è inaccettabile, in uno stato liberale, ecco perché la Camera penale di Catanzaro esprime ferma e incondizionata solidarietà al Prof. Avv. Giovanni Caruso, convinta che l’incarico difensivo dallo stesso assunto, senza arretramenti, sia espressione di una battaglia di civiltà giuridica e, ancor prima, culturale, invero necessaria per salvaguardare l’identità democratica del nostro Paese.

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QUEI RICORDI CONDIZIONATI DALLA RICERCA DI UNA “VERITÀ” A OGNI COSTO SONO IL VERO MALE

  di Glauco Giostra   Era innocente. Beniamino Zuncheddu ha scontato più di 32 anni di dura detenzione perché ritenuto colpevole dell’uccisione di tre pastori e del ferimento di un quarto. All’epoca, il pastore superstite, dopo aver inizialmente negato la possibilità di individuare l’aggressore in quanto questi aveva il volto coperto da una calza, sollecitato più volte a riconoscere in Beniamino Zuncheddu l’omicida, sia mostrandogli una sua foto, sia precisando che aveva un movente e nessun alibi, se ne convinse («io mi convinsi») e puntò l’indice accusatore contro di lui in ogni grado del processo, che si concluse con la condanna all’ergastolo dell’imputato. Nell’odierno giudizio di revisione il testimone d’accusa, ritrattando la sua deposizione alla luce delle nuove emergenze, ha pronunciato una frase che dovrebbe far riflettere: «per tutto il processo ero convinto che a sparare fosse stato Zuncheddu (…). Se dovessi tornare indietro probabilmente farei lo stesso errore». Per quanto dolorosamente clamorosa, non si richiama questa notizia per gridare allo scandalo di un grave errore giudiziario: dobbiamo rassegnarci alla fallibilità della giustizia amministrata da uomini. E neppure si intende dedurre da questa angosciante vicenda che sarebbe bene diffidare sempre delle sentenze dei tribunali: ogni altro modo di rendere giustizia è meno credibile. Prendendo doverosamente atto che non è nelle nostre possibilità conoscere la verità, o meglio avere la certezza di averla conseguita, quello che possiamo, e che quindi dobbiamo fare, è predisporre l’itinerario cognitivo ritenuto più affidabile, nelle condizioni e conoscenze date, per approssimarci alla verità e pretendere che un soggetto terzo, il giudice, si attenga ad esso per rendere giustizia. La sentenza emessa al termine della procedura prescritta, dice un brocardo latino pro veritate habetur, deve, cioè, essere recepita come verità dal popolo nel cui nome è stata emessa (salvo che il sopravvenire di prove non dimostri, come in questo caso, che è stato condannato un innocente). Questo significa dover accettare che vi può essere una sentenza pienamente valida e corretta, ma orfana di verità. Dobbiamo sapere che non possiamo evitarlo; è la dolorosa conseguenza della nostra necessità di giudicare senza avere strumenti in grado di assicurarci la verità. Quello che però possiamo, e quindi dobbiamo garantire è di aver dato fondo a tutte le nostre modeste risorse per apprestare un metodo in grado di ridurre al minimo il rischio dell’errore. E invece dolorosissime vicende giudiziarie come queste stanno a ricordarci che ancora possiamo e, quindi, dobbiamo, migliorare. Il vigente codice di procedura penale aveva ovviato ad una ingenuità del codice Rocco: si riteneva che fosse irrilevante la tecnica di acquisizione dei “reperti cognitivi” che il fatto storico, come un mosaico frantumato, lascia nella realtà fisica e nella percezione sensoriale umana. Si pensava che più tessere del mosaico venivano comunque recuperate, più attendibile sarebbe stato il compito del giudice che doveva ricomporlo. Convinzione che sarebbe senz’altro da sottoscrivere se la persona informata sui fatti fosse una res loquens e il suo prodotto narrativo non fosse destinato a cambiare a seconda di chi, come, dove, quando la compulsa. Le scienze della mente, invece, avevano dimostrato che la rievocazione del ricordo viene sensibilmente influenzata dalla tecnica maieutica con cui lo si “estrae”: con il mutare del forcipe muta, talvolta anche in modo radicale, la conformazione del feto della memoria. Si convenne allora – e ancor oggi nessuna evidenza scientifica induce a riconsiderare quella scelta – che la migliore levatrice del ricordo fosse la formazione dialettica della prova testimoniale: ciò che viene unilateralmente raccolto dall’inquirente pubblico o privato per mettere a punto la linea accusatoria o difensiva è materiale conoscitivo inaffidabile. Ad avere pieno valore probatorio, di regola, è soltanto ciò che il teste, incalzato dalle domande delle parti, riferisce al giudice. Se il Codice vigente ha rimosso l’ingenuità epistemologica su cui poggiava quello precedente, temo che esso stesso poggi su un presupposto non meno fallace: l’inossidabilità del ricordo; cioè l’inalterabilità del patrimonio mnestico. L’attuale sistema è implicitamente costruito intorno all’idea che sia irrilevante ciò che càpita al testimone tra la sua percezione e quando sarà chiamato a rievocarla nel contraddittorio delle parti dinanzi al giudice della decisione. Ciò presuppone che il ricordo costituisca una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato della memoria; che il problema per il testimone sia soltanto quello di ritrovarlo alla luce della potente “torcia” del contraddittorio e di consegnarlo al giudice. Il ricordo, invece, è materia viva, deteriorabile e plasmabile. «La memoria, che è suscettibile e a cui non piace essere colta in fallo – scriveva Josè Saramagotende a riempire le dimenticanze con creazioni di realtà spurie». Un falso ricordo viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche o – come nella vicenda Zuncheddu – dalle incalzanti suggestioni di chi è deputato a cercare la verità, ma spesso è sopraffatto dall’urgenza di trovare un colpevole. Ci sono infatti domande che tendono a condizionare la risposta, quando non a suggerirla. Questa subdola suggestione risulterà tanto più condizionante quanto più autorevole sarà la figura dell’interrogante agli occhi dell’interrogato, che successivamente opererà in modo inconsapevole ogni possibile rielaborazione mnestica per cercare di non discostarsi da quanto l’interrogante aveva lasciato intendere fosse la “sua” verità. «Tornando indietro probabilmente farei lo stesso errore», ammette convinto il decisivo teste d’accusa. E ciò spiega come mai anche il miglior metodo di formazione della prova sia risultato imbelle: il contraddittorio è in grado di garantire la sincerità, non la veridicità delle risposte. Nessun esame incrociato sarà in grado di far riferire quanto originariamente percepito a un dichiarante che crede nella verità del suo falso ricordo. Ora che la tecnologia lo consente, bisognerebbe allora almeno prevedere come obbligatoria la videoregistrazione delle dichiarazioni assunte nel corso dell’indagine. È probabile che se ai giudici che hanno emesso la sentenza contro Zuncheddu la difesa avesse potuto mostrare come era stato più volte “interrogato” il principale teste d’accusa, avrebbero usato la dovuta diffidenza verso quella memoria insufflata dall’inquirente e probabilmente avremmo evitato ad un innocente questa dolorosissima, ingiusta esperienza, e a noi l’ascolto di una vicenda che strazia i timpani della nostra coscienza. (Copyright (c)2024 Il

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