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L’IRREVERSIBILE SQUILIBRIO TRA I POTERI DELLO STATO

di Gian Domenico Caiazza* «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti (…) Perché non si possa abusare del potere occorre che il potere arresti il potere». Così Montesquieu ragionava, nel 1748, nel porre a fondamento della idea moderna di Stato democratico il principio della separazione dei poteri. Ecco allora che il potere legislativo «fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti»; il potere esecutivo «fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni»; il potere giudiziario, infine, “bouche de la lois”, «punisce i delitti o giudica le liti dei privati». Naturalmente le idee evolvono, si adeguano alle mutazioni sociali e politiche, ma il principio della separazione dei poteri, della limitazione reciproca tra di essi, resta il caposaldo, direi la precondizione di sopravvivenza del sistema democratico. Regolarmente, dove esso è messo in discussione, si teme per la sorte stessa della democrazia. Le cronache statunitensi di queste prime settimane di Presidenza Trump, ad esempio, ne sono la dimostrazione lampante ed allarmante, con un potere esecutivo (il Presidente) che forza e scavalca sia il potere legislativo (con la adozione di centinaia di “ordini esecutivi”), sia quello giudiziario (addirittura ignorando statuizioni non gradite e non condivise della Suprema Corte). In casa nostra, sebbene con forme del tutto diverse, l’equilibrio è saltato nei primi anni ’90, e non c’è più verso di recuperarlo. È bastata una indagine giudiziaria sulla certamente assai diffusa corruzione del potere politico, accompagnata da un formidabile consenso popolare e da una irresponsabile, acritica copertura mediatica, per attribuire all’ordine giudiziario magistratuale un potere di condizionamento e di interdizione verso gli altri due poteri che non ha equivalenti in nessun altro sistema democratico. L’immagine simbolo, lo ricordiamo tutti, fu quella dei magistrati del pool milanese in TV che affermano la necessità che un legittimo provvedimento di un governo democraticamente eletto, giusto o sbagliato che fosse non importa, venisse ritirato perché da essi non condiviso, ottenendone la revoca a furor di popolo. Un atto – a prescindere dalle intenzioni di chi lo realizzò – tecnicamente eversivo, che ha segnato in modo irreversibile l’equilibrio tra poteri dello Stato nel nostro Paese. Perfino in questi mesi, nei quali una solida maggioranza parlamentare sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) determinata a portare a termine la più avversata (dalla magistratura) riforma dell’ordinamento giudiziario nella storia Repubblicana, i segni della debolezza del potere politico, intimorito e condizionato dal potere giudiziario, ci giungono copiosi. È di pochi giorni fa la sorprendente iniziativa, assunta direttamente dalla presidente Giorgia Meloni, di fermare l’iter della proposta di legge di istituzione della giornata in onore delle vittime degli errori giudiziari, individuata nella simbolica data del 17 giugno, quella nella quale fu arrestato Enzo Tortora nell’ormai lontano 1983. Le cronache riferiscono la testualità della motivazione addotta dalla Presidente del Consiglio: «Non diamo altri pretesti ai giudici fino alla approvazione della riforma sulla separazione delle carriere». Dietro le apparenze di una decisione dettata da realismo strategico, di chi intenda in questo modo rendere più agevole la strada di quella fondamentale riforma costituzionale, si affaccia in realtà, nitidissima, la impressionante fotografia del patologico rapporto tra potere politico e potere giudiziario in Italia. Da un lato, infatti, non esiste alcun nesso logicamente plausibile tra questa riforma costituzionale e quella proposta di legge sulle vittime degli errori giudiziari; dall’altro, non si comprende esattamente quale pretesto potrebbe mai cogliere un soggetto – la magistratura associata – che non ha (non dovrebbe avere!) né titoli né ragioni per interloquire su una simile iniziativa politica. Il fatto che l’ANM abbia subito manifestato a proposito di essa le proprie obiezioni critiche, con motivazioni peraltro assai discutibili, non si comprende in qual modo potrebbe incidere sul percorso della riforma ordinamentale, anche nella prospettiva della quasi certa campagna referendaria successiva alla sua auspicabile approvazione. Nelle intenzioni, la Presidente Meloni vuole prevenire argomenti polemici, intesi a rafforzare, da parte delle toghe, l’idea di una maggioranza politica ispirata da sentimenti di ostilità nei confronti della Magistratura. Ma è proprio questo il punto. Le vittime di un errore giudiziario sono tali in forza di una valutazione operata dalla stessa magistratura, che riconosce l’errore giudiziario, o la ingiusta detenzione, all’esito di un procedimento che essa stessa gestisce in modo sovrano, ed in assoluta autonomia e indipendenza. Errori giudiziari ed ingiuste detenzioni sono definiti tali non dalla politica, con arbitrarie valutazioni polemiche, ma dai giudici della Repubblica, con sentenze definitive pronunziate in nome del popolo italiano. La scelta dello Stato di esprimere, con una giornata celebrativa annuale, la propria rammaricata vicinanza a chi ha subito una così grave ingiustizia, è una scelta schiettamente politica, sulla quale la magistratura, in un normale e non alterato sistema di divisione dei poteri, non avrebbe titolo alcuno per manifestare riserve o, peggio ancora, risentimento. D’altronde, la speciosa critica avanzata da ANM, secondo la quale si dovrebbe allora celebrare anche la giornata per le vittime -fu fatto questo esempio- della malasanità (le quali però, diversamente che per gli errori giudiziari, ne vedono puniti i responsabili!) dà proprio il segno di quanto sia deteriorato quel delicato equilibrio costituzionale. Da un lato il potere giudiziario pretende, come se fosse la cosa più normale del mondo, di svolgere una funzione di interdizione critica e quasi sindacale su qualsiasi iniziativa legislativa che possa anche solo richiamare l’attenzione sugli esiti e sulla qualità dell’esercizio della giurisdizione, assumendo alla stregua di una indebita aggressione qualsiasi  valutazione ad essa non gradita; dall’altro, la politica riconosce, nei fatti, pieno fondamento a questa assurda pretesa, mostrando anzi di temerne le conseguenze, e confessando così, nel modo più clamoroso e sorprendente, la propria soggezione verso il potere giudiziario, ed in definitiva la sua disarmata debolezza. Che non scopriamo certo adesso, ma che francamente mai avremmo immaginato potesse spingersi a tanto. *Past President UCPI – Direttore PQM (Editoriale pubblicato in Ante Litteram 1-aprile 2025)

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CERTEZZA STATALPUNITIVA DEL GIUDICE. LA CULTURA DEL DUBBIO FARMACO PER RISANARE IL PROCESSO ACCUSATORIO

di Roberto Capra* – Il confronto sulla riforma comunemente chiamata “separazione delle carriere” vede, ormai da tempo, radicalizzarsi due fazioni, ognuna convinta della bontà delle proprie argomentazioni. Una riforma di natura costituzionale, destinata per ciò solo a incidere sugli assetti ordinamentali dello Stato e sull’equilibrio dei Poteri può essere osservata, giustificata o avversata, da più di un punto di vista. Il piano del confronto, dell’equilibrio o, meglio, del riequilibrio tra i Poteri dello Stato è quello che sembra agitare ANM e Politica ed è, ovviamente, da tenere nella massima considerazione. Ve ne è però un altro, a mio avviso parimenti necessario, che dimostra come l’esigenza di questa riforma provenga dal “basso”, così come ha efficacemente sintetizzato, in un recente intervento, il professor Ennio Amodio[1]. Dal “basso” non in una scala di valori, ma esclusivamente in una distinzione tra piano “alto” e, dunque, relativo all’architettura costituzionale dei Poteri dello Stato e un piano diverso, e quindi, solo per alternativa, definibile “basso”, in tal modo indicando la sfera di applicazione diretta per il cittadino coinvolto in un processo penale. Ed è il piano “basso” sul quale provare a proporre alcune considerazioni, per offrire spunti di riflessione sul tema, evidenziando come l’appartenenza di giudice e pubblico ministero al medesimo Ordine abbia determinato, progressivamente, lo stravolgimento di alcuni istituti processuali, mettendo seriamente a repentaglio la tenuta del processo accusatorio. Il nostro Legislatore, come noto, con un gestazione durata alcuni decenni, ha individuato nel rito accusatorio lo strumento processuale migliore per arrivare alla migliore verità possibile, attraverso, in estrema sintesi, il contraddittorio nella formazione della prova. Si è ritenuto, dunque, che il prodotto di un confronto tra le parti sia migliore del prodotto dell’accertamento lasciato ad una parte soltanto. L’esame incrociato nelle prove dichiarative, ma non solo, assicura a chi deve giudicare un risultato più attendibile. L’art. 111 della nostra Carta dà copertura costituzionale a tutto questo. Pur non essendo unanimemente condiviso, occorrerebbe mettersi il cuore in pace e accettarlo. Le critiche, come sappiamo, non sono mancate e non mancano, dalle sentenze della Corte Costituzionale del 1992 sino a quanto si ha modo di assistere nei processi di tutti i giorni. Le resistenze maggiori arrivano da parte della magistratura e la ragione, credendo di non sbagliare, deve individuarsi nella permeabilità degli orientamenti culturali tra pubblico ministero e giudice. L’anomala vicinanza tra le due figure processuali ha determinato, infatti, la conservazione nel giudice, sebbene non più inquisitore, di una cultura che possiamo definire “statalpunitiva”, la medesima che appartiene al pubblico ministero, ma che ne condiziona le categorie di pensiero e, dunque, le correlate decisioni. Anche a sua insaputa, anche in buona fede. È così che si è assistito e si assiste all’orientamento di gran parte dei giudicanti che vedono il processo come un percorso, nei fatti troppo lungo e troppo complicato, per porre il sigillo dell’infallibilità alle scelte operate dal “collega di pensiero” pubblico ministero e comunque per poter esercitare la funzione punitiva che lo Stato assegna loro. Non sono queste osservazioni solo dalla portata generale ovvero astratta, anche se gli orientamenti culturali recano in sé profili di condizionamento generale delle umane condotte che poi ritroviamo, ad esempio, nelle scelte di appiattimento decisionale che siamo soliti vedere in sede cautelare. Non sono osservazioni vaghe o teoriche, perché, come avremo modo di osservare a breve, la trasmigrazione e la permeabilità della cultura accusatoria dal pubblico ministero al giudice si è manifestata e si manifesta nell’interpretazione sia di alcuni dei principi cardine del rito sia di alcuni istituti processuali. La convinzione che sta alla base di questo orientamento, radicato a tutti i livelli della giurisdizione e, soprattutto, in sede di legittimità, è determinata dall’idea che, in fondo, gli istituti processuali siano un limite spesso inaccettabile per l’accertamento della vera verità e che, dunque, in ragione di un obiettivo più importante, possano essere stravolti o quantomeno interpretati in modo difforme rispetto alla volontà del Legislatore del 1989. Il principio, frutto della cultura statalpunitiva, che ammanta l’interpretazione di diversi istituti processuali è, come messo in evidenza di recente in un interessante articolo, quello della non dispersione della prova[2]. È un principio che parte della magistratura ritiene dover informare il processo penale, ma che, invece, non si ritrova né nella Carta costituzionale né nelle regole fondanti il rito accusatorio. Non è che non ci si possa confrontare sul punto essendo comprensibile perché la magistratura giudicante, in larga parte, lo ponga come principio orientatore della propria azione, ma tale profilo nasce, a nostro avviso, dalla convinzione che il processo accusatorio e il suo cuore pulsante, vale a dire il contraddittorio nella formazione della prova, non siano effettivamente lo strumento migliore per l’accertamento di un fatto e delle correlate responsabilità, il tutto ammantato, come detto, dal condizionamento delle categorie del pensiero che la cultura statalpunitiva determina in chi è chiamato a giudicare. Le regole del rito accusatorio puro, con il principio dispositivo in testa, possono, talora, portare a pronunce che comunemente potrebbero definirsi “ingiuste”, perché viene lasciata alle parti la gestione della prova e l’errore sul punto, sia dell’accusa che della difesa, può anche determinare una sentenza non convincente rispetto al fatto storico avvenuto. Certo che, se poste a confronto con le regole del rito inquisitorio, laddove sostanzialmente la difesa è pretermessa dalla formazione della prova, il rischio di errore è davvero contenuto. In ogni caso, in qualunque sistema processuale, è fisiologico che vi siano pronunce non corrette rispetto al fatto storico, ma si tratta di ridurre il più possibile tali, inevitabili, situazioni critiche e, in ogni caso, i ragionamenti di sistema devono operare sui grandi numeri e non sul singolo caso. Si deve allora tornare al confronto tra rito accusatorio e rito inquisitorio ed alla scelta, mai digerita realmente da gran parte della magistratura, che il Legislatore, anche costituzionale, ha scientemente operato. La magistratura, soprattutto quella giudicante, si deve arrendere al Legislatore, perché ne va dell’equilibrio tra i Poteri dello Stato da un lato e, dall’altro, della tenuta del rito accusatorio. Nel gioco dei numeri delle decisioni corrette a confronto con

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2-3-1… FALSA PARTENZA E INCERTO ARRIVO

Vittore D’Acquarone* – Azione penale Molto si è detto e scritto sulla natura della responsabilità degli enti, molto meno sulla obbligatorietà o meno dell’azione penale, rispetto alla quale converge, pur nell’eterogenesi dei fini, un generale riserbo: la magistratura per conveniente governo dei procedimenti e la dottrina per evitare di intestarsi soluzioni impopolari. L’esperienza giudiziaria, ormai prossima ad un quarto di secolo, ha peraltro attestato che l’applicazione del d.lgs. 231/2001 è affidata alle private preferenze di ciascun organo inquirente. Ammettiamo di essere convinti che la responsabilità sia penale e l’azione, purtroppo, obbligatoria, ma in questa sede accenneremo ad altre considerazioni. In un ordinamento che si vanta dell’idolo della obbligatorietà, benché noncurante della collaudata ipocrisia, era evidente che la clamorosa e simbolica attrazione della persona giuridica nell’orbita del diritto penale avrebbe imposto una esplicita previsione e sorprende, o dovrebbe, che il legislatore abbia affidato il tema all’interprete, ornando inoltre il testo normativo, probabilmente per irrisolti pudori costituzionali, del riferimento letterale alla “responsabilità amministrativa”, che ne accresce e non dissolve l’ambiguità. Il dilemma era, quindi, originario, e si è progressivamente amplificato, se non altro per la inarrestabile moltiplicazione dei reati presupposto, e tuttavia nell’insistente silenzio del legislatore e, appunto, anche nella tollerata indifferenza della magistratura. Circostanze entrambi preoccupanti, se si considera che la sollecitazione europea per l’allineamento dell’ordinamento italiano a quelli internazionali, in particolare di common law, rispondeva soprattutto ad esigenze di regolamentazione concorrenziale e a contenere migrazioni e vantaggi imprenditoriali orientati dall’impunità. Non meno problemi si spostano dal piano generale a quello specifico. L’impianto normativo poggia, più in teoria che in pratica, sulla prospettiva premiale dell’ente che adotta e attua un modello idoneo prima del fatto o, comunque, prima dell’apertura del dibattimento. Il premio promesso ha l’apice nell’esimente e digrada nella dosimetria delle sanzioni, ma sottintende, qui più in concreto che in astratto, la tutela reputazionale: prima si esce dalla gogna dell’indagine e meglio è. Non già solo per i costumi giustizialsensazionalistici della cronaca giudiziaria, bensì anche e soprattutto per le misure di compliance che tendono alla prematura emarginazione dell’ente sospettato di irregolarità. La certezza su tempi e modi dello sviluppo cronologico della incolpazione all’ente scandisce, quindi, le principali opportunità difensive e rappresenta la premessa ontologicamente fondamentale per l’efficienza dell’intero sistema. All’estremo opposto si colloca invece la consuetudine prevalente: la contestazione del reato presupposto alla persona fisica apre per l’ente la fase dell’incertezza per i più avveduti e della inconsapevolezza per gli altri. Rispetto ai secondi il senso della norma è di fatto abrogato, mentre per i primi s’avvia una scommessa sulle abitudini dell’inquirente, il cui esito spesso si rivela con la conclusione delle indagini preliminari e in termini che non giustificano se non formalisticamente le ragioni della scelta. E qui ad essere abrogato è il diritto di difesa. Sono, infatti, piuttosto frequenti gli avvisi ex art. 415-bis c.p.p. che inaugurano l’avvio del procedimento all’ente e che laconicamente rimproverano l’inidoneità del modello. Inquadramento del sistema Il d.lgs. 231/2001 ha introdotto – e in ciò era ed è la epocale innovazione – la responsabilità penale per le persone giuridiche, il cui protagonismo è stato tuttavia sopraffatto dalla previsione, invece strumentale e subordinata, di un paradigma esimente per l’ipotesi in cui, e solo per l’ipotesi in cui, il reato presupposto fosse il prodotto, occasionale e non endemico, di una difettosa gestione dei rischi per fini di profitto e non già di una scelta consapevole e deliberata dell’ente stesso. L’ente meritevole di esonerarsi dalle sanzioni è, infatti, esclusivamente quello che dimostra di aver riconosciuto e adeguatamente mitigato i rischi caratteristici, ancorché rimanendo fisiologicamente esposto a condotte delittuose, in particolare dei suoi vertici, che devono però connotarsi in termini di misurabile ed individuale antagonismo rispetto alla verificabile volontà collettiva virtuosa. In gergo laico, si potrebbe riassumere che l’ente non risponde se prova di essere stato vittima di un tradimento qualificato. Il congegno normativo, invero, dato l’accertamento dei requisiti oggettivi, coniuga una presunzione di colpevolezza sul piano soggettivo, superabile con l’inversione dell’onere probatorio e l’imposta concorrenza di predefiniti requisiti organizzativi (cfr. Relazione governativa, par. 3.4 e art. 6 d.lgs. 231/2001). L’operatività difensiva del modello organizzativo si rivolge, già in premessa e sul piano fenomenico, ad una specifica categoria di illeciti, che rappresenta una frazione del panorama complessivo della criminalità d’impresa. Se ne ha prova nell’art. 16 comma 3, piuttosto trascurato dai commentatori e dalla prassi: “Se l’ente o una sua unità organizzativa viene stabilmente utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di reati in relazione ai quali è prevista la sua responsabilità è sempre disposta l’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attività e non si applicano le disposizioni previste dall’articolo 17”. Il modello, quindi, non può difendere l’ente davanti alla dimostrazione del reato eletto a mezzo abituale di profitto, bensì resistere solo quando la sua accidentale verificazione attenga l’inadeguato governo del rischio come sviluppo prevedibile dell’attività di impresa. Il confine è assai sofisticato sul versante empirico e criminologico, nonché complesso su quello investigativo e probatorio, ma solido concettualmente e in linea di principio, sicché le difficoltà applicative non dovrebbero torcere le coordinate costitutive del sistema punitivo sino a deformarle. La previsione normativa stigmatizza il prototipo più pericoloso d’impresa e, in termini coerenti con lo spirito della legge, le promette una sanzione definitiva e inevitabile. Ma, soprattutto, per conferirle effettività, induce a ritenere che, dati il reato presupposto e i requisiti oggettivi, all’organo dell’accusa competa, già in fase di indagini e al codificato fine di precludere perfino la prospettiva premiale dell’art. 17, l’accertamento supplettivo sulla abitualità, come tema ulteriore e specifico e che pretende un contributo positivo d’incolpazione, non certamente surrogabile per mezzo della sola censura alle prospettazioni difensive sulla idoneità del modello. Si può, dunque, affermare che, almeno in termini circoscritti alla fattispecie più grave di responsabilità dell’ente, la valutazione sulle caratteristiche organizzative e le presunte debolezze teleologicamente orientate alla indulgenza delittuosa fosse immancabilmente nel perimetro investigativo dell’accusa. E, se così è, come si crede, anche obbligatorio individuare gli addebiti con chiarezza e precisione nella contestazione dedicata alla persona giuridica. Magari attraverso l’ampliamento del

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LA RICETTAZIONE E IL FALSO IN SCRITTURA PRIVATA: GLI EFFETTI ESPANSIVI DELL’ABOLITIO CRIMINIS

di Danila Scicchitano* – La depenalizzazione operata dal d.lgs. n. 7 del 15 gennaio 2016 ha inciso profondamente sull’assetto dogmatico e sistematico della tutela penale della fede pubblica. In particolare, l’abrogazione dell’art. 485 c.p. ha comportato l’esclusione della rilevanza penale della falsificazione di assegni bancari recanti la clausola di non trasferibilità. Il presente contributo analizza le implicazioni dell’abolitio criminis sulla configurabilità del reato di ricettazione alla luce dell’orientamento consolidato dalla giurisprudenza di legittimità e dei principi generali in tema di successione delle leggi penali nel tempo. 1.La riforma del 2016 e la riscrittura della tutela penale della fede pubblica Con l’emanazione dei decreti legislativi n. 7 e n. 8 del 15 gennaio 2016, è stata data attuazione alla delega conferita dall’art. 2 della legge n.67 del 28 aprile 2014. Gli interventi nomativi si inseriscono in un ampio disegno di razionalizzazione del sistema sanzionatorio e di complessiva deflazione dell’area del penalmente rilevante. I lavori hanno interessato da un lato l’abrogazione di talune fattispecie incriminatrici che perdono il carattere di illecito penale per conservare quello di illecito civile, come l’ingiuria, sanzionata oltre che con il risarcimento del danno (sanzione privatistica), con una sanzione pecuniaria civile (apparentata con i punitive damages dei sistemi di common law); dall’altro, la depenalizzazione di alcuni reati, trasformati in illeciti amministrativi sanzionati con pene pecuniarie. L’obiettivo perseguito è quello di riservare l’intervento penale alle condotte connotate da effettiva e significativa offensività. In particolare, l’art. 1, comma 1 del D.lgs. n. 7/16, ha previsto l’abrogazione dei reati di ingiuria (art. 594 c.p.), sottrazione di cose comuni (art. 627 c.p.), appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o caso fortuito (647 c.p.), falsità in foglio firmato in bianco o atto privato (art. 486 c.p.), falsità in scrittura privata (art. 485 c.p.). Contestualmente, l’art. 2, comma 1, lett. d), ha novellato l’art. 491 c.p. ridefinendone l’ambito applicativo. La riformulazione della norma ha riservato la tutela penale alle sole ipotesi di falsificazione di titoli muniti di particolare attitudine alla circolazione, quali le cambiali e altri titoli di credito trasferibili mediante girata o al portatore. Con le modifiche normative apportate agli artt. 485 – 491 c.p. il legislatore ha inteso operare un riassetto della disciplina sanzionatoria in materia di tutela penale della fede pubblica, intervenendo in particolare sul trattamento delle condotte di falsificazione relative agli assegni recanti la clausola di non trasferibilità. L’ambito di applicazione della sanzione penale è stato circoscritto alle sole ipotesi in cui la natura circolatoria del titolo giustifichi una protezione rafforzata dell’affidamento collettivo. 2.La natura giuridica del titolo non trasferibile e la ratio dell’intervento Ai sensi dell’art. 43 del R.D. n. 1736 del 21 dicembre 1933,  un assegno bancario recante la clausola di non trasferibilità non può circolare come strumento di pagamento tra soggetti diversi dal prenditore originario. Tale limitazione è stata rafforzata dal d.lgs. 231/2007, art. 49, comma 5 e 7 cd. “normativa antiriciclaggio” che, nel prevedere l’obbligatorietà della clausola per importi superiori a mille euro e per tutti gli assegni circolari, neutralizza la trasferibilità del titolo, cristallizzando la titolarità in capo al beneficiario nominato. La clausola, dunque, incide radicalmente sulla natura del titolo in quanto, limitandone la libera circolazione, neutralizza il pericolo di lesione al bene giuridico tutelato dalla norma, rappresentato dalla fede pubblica riposta nella veridicità degli elementi che lo compongono. Ne deriva l’esclusione, in punto di tipicità, della falsificazione di assegni non trasferibili dall’ambito applicativo dell’art. 491 c.p., con conseguente regressione della condotta nell’alveo dell’illecito civile. 3.L’arresto delle Sezioni Unite del 2018: la perdita della rilevanza penale Con la sentenza n. 40256 del 19 luglio 2018 la Corte di Cassazione a Sezioni Unite Penali è intervenuta a dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto a seguito della novella introdotta dal d.lgs. 7/2016 in relazione  alla perdurante rilevanza penale della falsificazione di assegni bancari recanti la clausola di non trasferibilità. Il Supremo Collegio, nel suo massimo consesso, ha affermato che tale condotta, in ragione dell’assenza di pericolo di lesione al bene giuridico tutelato e della contestuale abrogazione dell’art. 485 c.p., non rientra nella sfera di applicazione dell’art. 491 c.p., né di alcuna altra norma incriminatrice residua, essendo ormai degradata ad illecito civilistico. 4.Le implicazioni dell’abolitio criminis sulla configurabilità del reato di cui all’art. 648 c.p.: La (ir)rilevanza penale del reato presupposto La riforma ha inciso in via mediata su ulteriori ipotesi incriminatrici escluse dall’oggetto d’intervento normativo. Tra queste, in particolare, l’abrogazione dell’art. 485 c.p. ha determinato la non configurabilità del reato di ricettazione nell’ipotesi di falsificazione e messa in circolazione di assegni non trasferibili. È noto che la ricettazione postula la derivazione delittuosa del bene. Secondo l’indirizzo interpretativo consolidato della Suprema Corte, la verifica di tale condizione deve essere effettuata alla luce del quadro normativo vigente al momento della condotta tipica di acquisto, ricezione o intermediazione. Ne consegue che le condotte di falsificazione o di messa in circolazione di assegni muniti di clausola di non trasferibilità, qualora commesse successivamente all’entrata in vigore dell’abolitio criminis  prevista dal d.lgs. n. 7/2016 (06 febbraio 2016), non potranno integrare il reato di ricettazione per difetto di uno degli elementi strutturali della fattispecie. Tale impostazione ermeneutica è stata recepita anche in recenti sentenze del Tribunale di Catanzaro[1]. In particolare, valorizzando il principio di legalità in senso sostanziale e la necessaria offensività della condotta punita, i giudici di merito hanno assolto gli imputati dal delitto di ricettazione di assegni bancari falsi o clonati “non trasferibili” ritendo che, la cessazione della rilevanza penale del reato presupposto determina il venir meno dell’elemento oggettivo tipico della fattispecie incriminatrice. Tuttavia, secondo la giurisprudenza di legittimità, trattandosi di elemento normativo “esterno” alla fattispecie incriminatrice, la sua sopravvenuta abrogazione non assume rilievo ai fini dell’applicazione dell’art. 2 c.p.[2] Conformemente, autorevole dottrina ritiene che la modifica di fattispecie incriminatrici richiamate da elementi normativi del reato (il termine «delitto», nell’art. 648 c.p.), realizza una successione di norme non integratrici, non modificando la fisionomia del delitto di ricettazione (acquistare, ricevere o occultare cose provenienti da un delitto) che resta immutata, così come d’altra parte rimangono irreversibili le offese ormai recate al bene giuridico tutelato quale l’interesse patrimoniale

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LA NON DISPERSIONE DELLA PROVA NEL PROCESSO PENALE: LA VACUITÀ DI UN “PRINCIPIO” INCOSTITUZIONALE

di Alberto de Sanctis* e Roberto Impeduglia** –  Desta più di una preoccupazione la constatazione che nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione continui a serpeggiare indisturbato il richiamo al principio di non dispersione dei mezzi di prova. Secondo alcuni arresti di legittimità, che vi fanno espresso riferimento, un simile principio assumerebbe portata “generale” e si modulerebbe in concreto in specifiche disposizioni della disciplina sulle prove, quali ad esempio l’art. 238 c.p.p. in materia di acquisizione dei verbali di prove di altri procedimenti o l’art. 270 c.p.p. in materia di intercettazioni[1]. Addirittura, a ben vedere, in altre pronunce di Cassazione sembra quasi che il ritenuto principio sia il cardine che informa l’acquisizione delle prove nel procedimento penale, rispetto al quale la sanzione processuale dell’inutilizzabilità, che discende dall’art. 191 c.p.p., sarebbe semmai da ritenersi l’eccezione insuscettibile di applicazione estensiva[2]. È ben noto che l’enucleazione di un simile principio debba larga parte della sua “fortuna” alle pronunce della Corte Costituzionale della c.d. “svolta inquisitoria”[3] del 1992, allorchè il Giudice delle Leggi si espresse con una sequenza di sentenze convergenti che diedero corpo al tentativo di demolire il neonato processo accusatorio e restaurare il vecchio rito misto appena abbandonato dal Legislatore[4]. In tali arresti – in particolare nella sentenza n. 255/1992[5] – la Corte Costituzionale collegò espressamente il teorizzato “principio di non dispersione dei mezzi di prova” al fine supremo della “ricerca della verità”, istituendolo quasi a contraltare correttivo del principio del contraddittorio nella formazione della prova che contraddistingue il modello accusatorio. Secondo l’assunto in allora fatto trasparire dalla Corte, il processo accusatorio porterebbe alla costruzione di una verità formale, se si vuole una fictio frutto dell’attenta selezione del materiale probatorio utilizzabile secondo le regole tipiche del contraddittorio nella formazione della prova. Secondo tale ordine di argomentazioni, siccome tendenzialmente la verità “costruita” del processo accusatorio si avvicina alla “verità Vera”, il processo accusatorio è un modello processuale tollerabile, ma occorre mettere in conto che esistano casi in cui la “verità Vera” irrompe nel processo e smentisce la verità formale del processo accusatorio: ebbene, in tali ipotesi, poiché il “fine primario ed ineludibile del processo penale”[6] è la ricerca della verità – e non di un suo simulacro – non vi sarebbe da esitare un istante ad abbandonare le regole formali di selezione del materiale probatorio utilizzabile secondo il modello accusatorio per prediligere – sia pur in deroga – le regole del metodo inquisitorio che riconoscono dignità di prova utilizzabile anche alle prove raccolte unilateralmente nella fase delle indagini. V’è chi ha fatto autorevolmente osservare, già commentando le richiamate sentenze della Corte Costituzionale, che nel ragionamento sviluppato nel 1992 dal Giudice delle Leggi non viene contrapposto alle regole del processo accusatorio alcun principio costituzionale di diretta rilevanza processuale; anzi la Corte conia un principio non costituzionalizzato che ha la pretesa di ribaltare il corretto rapporto tra “regola” ed “eccezione”: “degno di nota è il fatto che la Corte si guardi bene dall’indicare un principio a diretta rilevanza processuale con cui quelle regole contrasterebbero; o, meglio, l’unico che esibisce è un sedicente «principio di non dispersione della prova» di cui non v’è traccia nella Costituzione, ma che la Corte stessa ricava per amplificazione dalle deroghe all’oralità e al contraddittorio previste dal codice di rito (col singolare risultato di convertire in regola le eccezioni)”[7]. È stato anche illustrato con meridiana chiarezza che la sfiducia nel modello accusatorio sottesa all’associazione tra il ritenuto principio di non dispersione della prova ed il modello inquisitorio sconta un limite assai profondo, che origina da un’accezione di “verità” non accettabile sul piano euristico. Che il processo abbia per scopo l’accertamento della verità e che di verità ne esista una sola sono postulati fuori discussione. Il punto è semmai riconoscere che la verità che viene cercata nel processo penale è, per forza di cose, una verità storica, la verità di fatti occorsi nel passato, che non si manifestano concretamente davanti agli occhi del giudice[8]. Da ciò discende necessariamente che l’attività di ricerca del giudice non trova riscontri materiali del fatto-reato che si vuole accertare, come accadrebbe in relazione alla ricerca di un bene materiale e tangibile da “scoprire”; tale ricerca è semmai da configurarsi nei termini di una “ricostruzione” e di una “elaborazione” attraverso un “metodo”: allora sì, in questi sensi, “ogni verità prodotta da un giudice è «formale» in quanto non «trovata», ma «elaborata» attraverso una metodologia”[9]. Ciò posto, in dottrina si è poi ampiamente dimostrato che il “metodo” migliore sul piano euristico per la “ricostruzione” della verità è quello del contraddittorio, giacchè la validazione della tesi accusatoria sulla sussistenza del fatto-reato – che non può trovare riscontro nella realtà materiale in quanto fatto appartenente alla sfera del passato – non può che discendere dallo schema dialogico del contraddittorio, secondo il quale una tesi è vera oltre ogni ragionevole dubbio e con alto grado di credibilità razionale se ogni tentativo di falsificazione argomentativa fallisce. Com’è noto, queste ed altre vicissitudini dottrinali e storiche hanno poi portato alla costituzionalizzazione del nuovo art. 111 Cost., alla luce del quale ci si sarebbe potuti illudere che il ritenuto “principio” di non dispersione della prova e di pretesa superiorità euristica del metodo inquisitorio si fossero definitivamente estinti dopo la novella costituzionale. In questo senso si sono espressamente pronunciate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, allorché hanno affermato che “nel nuovo quadro costituzionale, […] non è più invocabile, nemmeno ai fini di un bilanciamento, il principio di non dispersione dei mezzi di prova, non più compatibile con il nuovo principio costituzionale del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio. Nemmeno sembra più invocabile un principio di accertamento della verità reale perchè le regole vigenti costituiscono esse stesse espressione di un principio assunto a regola costituzionale e costituiscono una garanzia per la stessa affidabilità della conoscenza acquisita” (Cass., S.U., 25 novembre 2010, n. 27918)[10]. Come si è visto in apertura, tuttavia, a distanza di oltre un quarto di secolo dalla revisione costituzionale e nonostante la pregnanza della costituzionalizzazione del principio del

LA NON DISPERSIONE DELLA PROVA NEL PROCESSO PENALE: LA VACUITÀ DI UN “PRINCIPIO” INCOSTITUZIONALE Leggi tutto »

ETTORE RANDAZZO, AVVOCATO E SCRITTORE

di Lucia Randazzo* – Martedì 24 giugno 2025, presso la suggestiva cornice del The Siracusa International Institute of Criminal Justice and Human Rights a Siracusa, si è tenuto un sentito evento in memoria di mio padre Ettore, difensore appassionato e scrittore raffinato, protagonista della cultura giuridica siciliana e nazionale. L’incontro è stato organizzato dal Rotary Club Monti Climiti di Siracusa, insieme all’associazione La.P.E.C.[1] e Giusto Processo “Ettore Randazzo”, con l’intento di ricordare non solo l’avvocato ma anche la sua produzione letteraria. A dare avvio all’incontro sono stati i saluti istituzionali del Segretario del The Siracusa Institute, Dott. Filippo Musca, che ha brevemente tratteggiato le principali cariche ricoperte da mio padre nel corso della sua carriera, sottolineandone il ruolo di guida morale e culturale all’interno della comunità forense e soprattutto all’interno del The Siracusa Institute (già Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali) di cui è stato anche Presidente del Consiglio Regionale Scientifico. A seguire, è intervenuto il Presidente del Rotary, Dott. Aurelio Alicata, che ha ribadito l’impegno del Club nel valorizzare figure che hanno saputo coniugare l’eccellenza professionale con l’impegno sociale e umano sottolineando la sua personale ammirazione per le sue idee su carcerazione preventiva, ragionevole durata del processo e soprattutto sulla separazione delle carriere.  L’incontro, articolato e ricco di contributi, è stato condotto con competenza e sensibilità dalla giornalista Dott.ssa Laura Valvo che, dopo aver tratteggiato la carriera di mio padre con sensibilità e intensità, ha saputo guidare gli interventi con equilibrio e partecipazione, creando un clima di profondo ascolto e condivisione. Ad aprire la serie degli interventi è stata mia madre, Elisabetta Guidi, anch’ella avvocato e compagna di una vita, che ha condiviso un ricordo intenso e affettuoso, rievocando la gioia che mio padre provava nello scrivere. Elisabetta ha spiegato che il suo intento era quello di celebrare mio padre anche come scrittore. La volontà di Ettore era quella di avvicinare anche gli appartenenti al mondo non giuridico alla giustizia. Per ricordare a tutti che la Giustizia è la nostra base, ha rammentato che siamo un paese meraviglioso con una cultura giuridica antica di cui dobbiamo essere fieri. Se siamo in un paese democratico, è grazie alla Giustizia e al Giusto Processo, tanto amato da Ettore. “Un Giusto Processo che deve essere applicato secondo le regole, con un Giudice terzo e al di sopra delle parti, con un Pubblico Ministero che ricerca la verità e con un Difensore. Questo diritto meraviglioso di Difesa del cittadino. Un ruolo sociale che i media non riconoscono perché gli avvocati sono talvolta ritratti, in modo ingiusto, come “intrighini, pasticcioncelli”. No! L’avvocato è il tutore del diritto di difesa, colui che deve accompagnare chi incorre nelle maglie della giustizia ed è normale che sia giudicato secondo le regole”.  Ettore si divertiva scrivendo. Era un po’ un modo di staccare la tensione emotiva dall’intenso mestiere del Difensore. Con tono partecipe e vivace, Elisabetta ha offerto al pubblico una descrizione pittoresca del romanzo Doppio inganno[2], a lei dedicato “Ad Elisabetta con i perché di una vita”, ambientato nella magica Ortigia, dove il confine tra realtà e finzione si fa sottile e letterario incuriosendo gli intervenuti sulla trama del romanzo. “Doppio inganno è un libro particolarmente bello, non solo perché traspare un amore per la Giustizia, ma traspare un amore per Siracusa, la bella Ortigia, qui chiamata Pantalica Marina, che è idealizzata. Si parla di un isolotto, che è separato da un ponte dal resto della città, con una bellissima porta spagnola, che purtroppo è stata abbattuta. Si entra in carrozza e, chi entra, apprezza la bellezza, i silenzi, il profumo di zagara, di gelsomino. Questi vicoletti ti riportano lontano.  La storia è un giallo: si parla di una famiglia siracusana, in cui i personaggi si vogliono molto bene, con un senso forte della famiglia. C’è un peso su questa famiglia, una vicenda non risolta, che non vi dico… perché dovete leggerlo”. Ettore è riuscito a fare capire l’atmosfera che si vive a Siracusa e soprattutto l’incanto di Ortigia. Questo isolotto magico senza tempo.   Mio zio Marcello Randazzo, anche lui avvocato, ha introdotto il libro Il pieghevole dei sogni[3]: “Una storia di famiglia che è soprattutto una storia di scelte, di sogni sacrificati, di tensioni tra il dovere verso gli altri e la fedeltà a sé stessi. Attraverso le vicende di tre generazioni — il primo Enea, il figlio Ernesto, e il secondo Enea — Ettore ci racconta un conflitto universale: quello tra gli obblighi familiari e le aspirazioni più intime… E in tutto questo, ci sono altri due protagonisti che accompagnano la vita della famiglia Latomia: lo stabilimento tipografico e l’incantevole Ortigia. Lo stabilimento, posto al pian terreno del palazzo di famiglia, con le sue macchine che lavorano instancabilmente — Tu-tu tu-tum, tu-tu Tu-tum… — quasi un respiro meccanico, costante e ipnotico. Un “mostro ammaliatore”, così lo percepiscono i suoi eredi: fonte di orgoglio e di sostentamento, ma anche di vincoli, di obblighi, di rinunce. È quel battito delle macchine che scandisce i giorni e le notti di tre generazioni di Latomia, accompagnando la vita familiare come un sottofondo inevitabile, familiare, e talvolta ingombrante. E poi Ortigia: un’isola abitata sin dalla preistoria, ideale e idealizzata nelle sue strade millenarie, nei suoi profumi, nella luce limpida che si riflette sul mare, nei canti degli uccellini del mattino. Ortigia diventa nel romanzo un personaggio essa stessa, un teatro della memoria e della vita, un luogo dove passato e presente si intrecciano in modo indissolubile. In ogni vicolo, in ogni scorcio di mare, in ogni angolo di questa terra antica, il lettore può avvertire quella sottile malinconia che solo i luoghi intrisi di storia sanno trasmettere.  I temi trattati da Ettore sono temi universali che spesso tutti noi, in prima persona, o nel momento in cui sono i nostri figli a dover scegliere il proprio percorso di vita, ci troviamo ad affrontare” (…)“Ecco: nelle pieghe di questo romanzo non c’è solo la storia di una famiglia, non c’è solo una riflessione sulla giustizia.  C’è, soprattutto, l’Uomo che

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LA TENTAZIONE AUTORITARIA: COLPIRE L’AUTONOMIA E L’INDIPENDENZA DEGLI AVVOCATI

di Ezio Menzione* – Colpisce e induce a riflettere il fatto che due paesi così diversi si stiano scagliando contro l’indipendenza degli avvocati: Turchia e USA. Certo la differenza è grande: diversi i presupposti, diversi alcuni degli scopi perseguiti (mentre altri sono comuni), diversi i metodi e gli strumenti di intervento. Vediamo da vicino le due realtà, poi passiamo a confrontarle e a richiamare quanto accade anche in altri paesi ed infine traiamo alcune conclusioni per quanto riguarda l’Italia, anche alla luce di alcuni richiami storici. *   *   * Ci eravamo “abituati”, ammesso che a certe violazioni si possa fare l’abitudine, a constatare che in certi paesi gli avvocati venivano attaccati dal governo perché difendevano gli oppositori del governo stesso. È così in maniera massiccia in Turchia, ma anche nelle Filippine e in alcuni paesi dell’America Latina e altrove. Si tratta, in genere, di paesi dalle democrazie deboli perché non ancora compiute (perennemente incompiute) o in crisi (perennemente in crisi). Prendiamo il caso della Turchia. Dall’ascesa al potere di Erdogan, cioè da quando divenne primo ministro  e dunque ben prima di diventare Presidente della Repubblica e quindi della trasformazione del paese in una repubblica presidenziale, l’esecutivo da lui presieduto colpì con l’accusa di terrorismo gli avvocati che difendevano persone accusate di terrorismo e specificamente di essere terroristi del PKK, il partito curdo dei lavoratori, considerato terrorista dalla Turchia e dall’Europa e dagli USA, ma non dall’ONU: insomma nella lista nera stesa dagli USA dopo l’11 settembre 2001 e recepita dall’Europa. Gli avvocati dei terroristi venivano e vengono perseguiti secondo un paradigma molto comune in queste situazioni: non per avere compiuto atti di terrorismo, ma perché difendevano i terroristi e le accuse erano e sono appartenenza a vario titolo e con varie responsabilità ad associazione terroristica ed eversiva. Al reato associativo di solito si abbinava anche il reato (o più reati) di propaganda sovversiva e siccome il codice penale turco non prevede la continuazione fra reati, ogni singolo episodio di propaganda vale circa un anno di reclusione che, al momento della condanna, va a sommarsi al reato associativo. E la propaganda consiste in dichiarazioni rilasciate alla stampa a commento dell’andamento di un processo oppure interventi in convegni giuridici e occasioni simili. Insomma, il ben noto paradigma secondo cui il difensore deve rispondere dello stesso reato dell’accusato che sta difendendo ha cominciato a colpire in maniera massiccia dall’inizio degli anni 2000 e non accenna ad affievolirsi. Talora il target di questa vera e propria persecuzione erano e sono avvocati appartenenti o vicini ad associazioni – per esempio il CHD o lo OHD – che della difesa degli oppositori al regime avevano fatto la propria “specializzazione”, per cui difendevano anche le vittime di sciagure sul lavoro, o le vittime dei femminicidi o le vittime di sfratti di occupanti o residenti in aree destinate alla gentrificazione e così via. Ma non sempre gli avvocati perseguitati facevano parte o riferimento a strutture di difesa o a studi professionali o associazioni, molto spesso si trattava e si tratta di avvocati singoli, impegnati magari in un solo processo per terrorismo o associazione sovversiva. Lo schema descritto viene comunemente e massicciamente utilizzato anche contro i giornalisti (ed anche contro le testate, chiudendole in via amministrativa) con la differenza che mentre i giornalisti talora vengono assolti, gli avvocati assolti non lo sono stati mai: e le pene comminate non stanno nella condizionale, ma sommano a tre, cinque, dieci anni e su su fino a 13, 18, 20 e più. Avvocati e giornalisti che osano schierarsi o almeno prendere in considerazione le ragioni degli oppositori: è chiaro l’intento di colpire i singoli, ma altrettanto chiara è l’intenzione di intimidire le due categorie, dissuadendo i possibili interessati dallo schierarsi. Durante i tre anni di stato di emergenza che seguirono il tentativo di colpo di stato del luglio 2016, tramite apposito decreto, si sancì che l’avvocato sotto processo con accusa di terrorismo non potesse difendere in nessun processo della stessa natura. Da un anno, però, Erdogan ha posto in essere un nuovo schema di attacco per minare l’indipendenza degli avvocati, prendendo di mira l’autonomia della avvocatura stessa. Circa un anno fa si tennero le elezioni del nuovi consigli dell’ordine (il termine non è appropriato, sarebbe meglio bar association, dato il carattere semiprivatistico della compagine, ma uso consiglio dell’ordine o COA per farmi capire meglio) e a Istanbul, dove sono iscritti 65.000 avvocati (il più grande ordine al mondo) fu eletto un presidente, Ibrahim  Kaboglu, anziano costituzionalista, che proviene dalle fila del maggior partito di opposizione, il CHP, che nelle ultime politiche e  presidenziali – era il 2023 –  per un soffio non ebbe la maggioranza. L’intero consiglio si colloca in area d’opposizione, anche se è sempre difficile capire lo schieramento di appartenenza dei singoli consiglieri. Dopo pochi mesi dall’insediamento il consiglio uscì con un comunicato in cui, a fronte dell’uccisione con un drone turco di due giornalisti siriani che stavano per oltrepassare la frontiera Siria-Turchia, si chiedeva una indagine “accurata e imparziale”. È partita immediatamente dalla Procura di Istanbul una incriminazione contro il Presidente del COA e dieci consiglieri, per aver “attentato alla nazione” e per diffusione di notizie atte a sovvertire l’ordine pubblico”; “propaganda per un’organizzazione terroristica” e “diffusione pubblica di informazioni ingannevoli”. Reati, perlopiù,  di opinione di cui è costellato il codice penale turco. Il codice di procedura, in questi casi, prevede due ordini di procedimenti: uno civile, in cui la Procura richiede che il COA decada e l’altro in sede penale per i reati contestati. Il procedimento dinnanzi ad un giudice monocratico civile si è tenuto nel marzo scorso e con un’unica sbrigativa udienza è stata accolta la richiesta della procura. Fortunatamente la sentenza è appellabile ed è stata appellata e non è esecutiva fino alla definitività. In sede penale, dove si procede contro il Presidente e 10 consiglieri, si è già tenuta la prima udienza, ma ha subìto un rinvio a settembre prossimo perché uno dei dieci, arrestato al suo arrivo all’aeroporto da Strasburgo dove era andato

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IL MUSABA: LA VISIONE DI NIK SPATARI

di Nicola Tavano* – Il MUSABA è un’isola. Il MUSABA è una macchia di colore che si fa largo in un territorio brullo. Il MUSABA ricorda da vicino il disegno utopistico della Città del Sole di Tommaso Campanella, a cui il suo (co)creatore, Nik Spatari, ha dedicato diverse opere. E il MUSABA è un luogo eccezionale, proprio come Nik Spatari. Spatari nasce a Mammola nel 1929. Sin da giovanissimo, manifesta una spiccata propensione per le arti, tanto da vincere, a soli nove anni, il suo primo premio internazionale. Ancora bambino, perde l’udito ma ciò non gli impedisce di perfezionare, da assoluto autodidatta, le sue capacità artistiche. Poco più che ventenne, comincia ad allargare i suoi orizzonti valicando i confini italiani, stabilendosi, sul finire degli anni ‘50, a Losanna. In quel periodo, conosce Hiske Maas, sua compagna di vita e artefice, insieme allo stesso Spatari, negli anni successivi, del MUseo di SAnta BArbara. Si trasferiscono a Parigi, dove Spatari frequenta e collabora con personaggi del calibro di Le Corbusier, Jean Cocteau, Max Ernst e Pablo Picasso. Nel 1966 decidono di tornare in Italia. Dapprima a Milano, dove fondano una galleria d’arte e, poco dopo, in Calabria. Dopo un breve soggiorno a Chiaravalle Centrale, dove Spatari realizza alcune opere per il convento dei Frati Minori Cappuccini, decidono di stabilirsi nel suo paese natio, Mammola, in località Santa Barbara, dove sostanzialmente Spatari è rimasto fino alla fine dei suoi giorni, continuando incessantemente a lavorare alla sua creatura. La coppia, infatti, ottiene in concessione dalla curia il complesso monastico di Santa Barbara, ormai in rovina e sommerso dai rovi. Negli anni, la loro pervicacia consente al neonato Parco museale di raggiungere le dimensioni attuali, con diverse e successive annessioni di territori limitrofi. Il loro percorso è stato, però, tutto fuorché sereno. Oltre alle comprensibili difficoltà insite nella creazione di un’impresa di tal fatta, le traversie giudiziarie che hanno dovuto superare sono state moltissime e, a tratti, inspiegabili. Il MUSABA ha dovuto subire, nel corso della sua vita, plurimi sequestri e ordini di demolizione da parte dell’autorità amministrativa e della magistratura, anche penale. Anche Nik Spatari e Hiske Maas sono stati sottoposti a misure personali coercitive in relazione ad accuse rivelatesi sempre infondate. Emblematica appare la promulgazione di una Legge regionale dei primi anni ‘90 con la quale si definiva il complesso “Santa Barbara” come “monumento bizantino”. Da qui le accuse, nei confronti della coppia, di danneggiamento del patrimonio archeologico ma anche, in un secondo momento, di truffa e corruzione che hanno comportato, a loro carico, anche quaranta giorni di arresti domiciliari. Basta dare un’occhiata a qualche foto di repertorio per accorgersi dell’inverosimiglianza delle accuse: “Santa Barbara” non era altro che un’accozzaglia di pietre che nulla, ormai, avevano di artistico o culturale. Ciononostante, il processo è andato avanti e solo a metà degli anni 2000 è arrivata l’assoluzione. Incomprensibile appare, tutt’oggi, l’ostracismo della classe dirigente a un progetto che, pur sbocciato splendidamente, avrebbe potuto assumere una dimensione certamente più ampia di quella raggiunta. Dalla prima mostra realizzata appendendo alcune tele di Spatari alle mura ancora diroccate del convento, numerosissime sono, oggi, le opere che animano il parco ed il territorio circostante, alcune delle quali visibili anche da grande distanza. Certamente la più iconica è il “sogno di Giacobbe”, da molti definito – pur con le dovute differenze – la “Cappella Sistina Calabrese”. Realizzata nel primo lustro degli anni ‘90, la tecnica pittorica è singolare, forse unica nel suo genere. Sagome di legno dipinte e appese, attaccate sulla volta e sull’abside della Chiesa interamente ristrutturata (o, meglio, ricostruita) per volontà dello Spatari. L’effetto, enfatizzato dai contrasti  cromatici, è unico, dinamico. Sembra quasi che i personaggi si avvicinino all’osservatore. L’opera è quasi autobiografica. É lo stesso autore ad affermare: “Giacobbe è l’uomo a me simile. Per sognare, vagare negli spazi dell’imprevedibile, alla ricerca del sé e del mondo che ci circonda; l’amore, la lotta, il domani, l’infinito immaginario”.  Ancora, ma non solo, a tema biblico è il mosaico monumentale, iniziato nel 2006 e mai portato a compimento a causa della morte dello Spatari nel 2020. Trentasette pannelli, alcuni dei quali rimasti allo stato di bozza, che si estendono su circa 1400 metri quadri. Dieci di essi sono dedicati a una rivisitazione dello “Stendardo di UR”, opera sumerica risalente a quasi cinquemila anni fa, conservata presso il British Museum di Londra, raffigurante scene, di pace e di guerra, della città che, secondo la tradizione biblica, avrebbe dato i natali al patriarca Abramo. Gli altri pannelli sono dedicati ad altri episodi biblici, fino ad arrivare alla nascita ed alla morte in croce di Gesù. La geometria è alla base dei mosaici. Un’intricata rete di linee, insieme a una mirabile armonia di colori, viene utilizzata per dare profondità e direzionalità nel percorso visivo. Lo scopo dell’autore è di visualizzare una simbologia capace di catturare l’attenzione di chi osserva. Il mosaico monumentale adorna le mura della foresteria del parco, capace di dare alloggio a 22 persone. L’idea di fondo del parco museale, infatti, è quella di ospitare artisti di varia provenienza ed estrazione le cui opere sono visibili tuttora all’interno del MUSABA. L’accoglienza era ed è alla base della visione di Nik Spatari e di Hiske Maas. Non era infrequente, fino a pochissimo tempo prima della sua morte, incontrare Spatari e osservarlo all’opera. Accadeva che, immerso nel suo lavoro, non si accorgesse che una piccola folla si radunasse alle sue spalle. Una volta resosi conto della presenza di altre persone, la reazione consisteva in un largo sorriso. Dal canto suo, Hiske accoglieva ed accoglie gli ospiti del MUSABA con una familiarità disarmante, non disdegnando di intrattenerli con aneddoti della loro vita. La loro apertura e generosità erano evidenti a chiunque visitasse il MUSABA: accadeva spesso che Spatari si spendesse personalmente con le persone che gli si avvicinavano, sempre pronto a realizzare e donare un loro ritratto stilizzato. L’architetto Paolo Portoghesi, convinto sostenitore di Spatari, ha avuto modo di affermare che “il lavoro svolto dalla fondazione restituisce alla natura tutto il

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LA CONDITIO INHUMANA NEI CENTRI DI DETENZIONE AMMINISTRATIVA

di Donatella Loprieno* 1. Qualche fatto – In una coraggiosa, quanto isolata, sentenza del Tribunale di Crotone del 20121, il giudice dell’epoca si interrogava sulla legittimità delle condizioni di trattenimento dei cittadini stranieri alla stregua del divieto di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’art. 3 della CEDU, per come interpretato dalla giurisprudenza della relativa Corte. Dopo aver richiamato le principali sentenze in cui il Giudice di Strasburgo aveva proceduto ad affinare la giurisprudenza sulla violazione del divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti2, il giudice crotonese rilevava, senza mezzi termini, che «dall’esame del fascicolo fotografico (in atti), nonché dall’ispezione diretta dei luoghi, è risultato che gli imputati sono stati trattenuti nel Centro di Identificazione e di Espulsione di Isola Capo Rizzuto in strutture che – nel loro complesso – sono al limite della decenza, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere esseri umani. E si badi, esseri umani in quanto tali, e non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale; per cui lo standard qualitativo delle condizioni di alloggio non deve essere rapportato al cittadino straniero medio (magari abituato a condizioni abitative precarie), ma al cittadino medio, senza distinzione di condizione o di nazionalità o di razza». Si richiamava, nel caso di specie, la configurabilità della legittima difesa per le condotte di danneggiamento e resistenza aggravata dei tre imputati anzitutto «in ragione dell’ingiustizia dell’offesa ai loro diritti fondamentali, primo tra tutti (in ordine assiologico) quello alla loro dignità umana, lesa da condizioni di trattenimento indecenti». Le condotte dei tre imputati apparivano agli occhi del giudice come la sola forma di manifestazione di protesta efficace quantomeno per impedire il regolare svolgimento dell’attività di gestione del centro. Tra il 10 e l’11 agosto del 2013, un’altra rivolta, scatenata probabilmente dalla morte “sospetta” di un ospite marocchino, rese temporaneamente inagibile una parte del CIE di Sant’Anna3. Dalla vicenda succintamente richiamata sono passati dodici anni durante i quali un numero impressionante di altre rivolte, con relativa devastazione di ambienti, e proteste eclatanti si sono consumate all’interno dei centri di detenzione amministrativa sparsi sul territorio nazionale. L’ultima di cui si ha contezza, nel momento in cui si scrive, è avvenuta nel CPR di Milo a Trapani il 16 novembre 2024. Notizie di stampa riferiscono che cinque agenti del reparto mobile di Palermo sono rimasti feriti nel tentativo di sedare la rivolta. Sempre dalla stampa si apprende che un esponente di rilievo del SAO auspica “che venga approvato al più presto al Senato il ddl sicurezza. Tale ddl, sostenuto da tempo dal SAP, prevede l’inasprimento delle pene per chi usa violenza e resistenza a pubblico ufficiale, nel caso di specie, la modifica del ddl 1236 del 2024 art. 26, secondo cui coloro che promuovono, organizzano o dirigono la rivolta nelle strutture di trattenimento e accoglienza per i migranti sono puniti con la reclusione da un anno e sei mesi a cinque anni”. Che questa sia una soluzione per porre fine al ciclo della violenza nei centri di detenzione amministrativa per persone migranti è dato dubitare, e non poco. E prima di argomentarne le ragioni in punta di diritto, occorre – io credo – insistere sui “fatti” facendoci guidare però da alcuni punti fermi. Tra questi, al momento, basti richiamare come la Corte Edu ha, da sempre, ritenuto che gli standard di tutela di cui all’art. 3, CEDU pur essendo stati elaborati avuto riguardo al contesto penitenziario, si applicano ad ogni forma di privazione della libertà personale, in qualsiasi posto essa si realizzi e certamente anche (e, forse) soprattutto all’interno dei CPR. Di ciò è testimonianza una sentenza molto recente che il giudice di Strasburgo ha adottato con riferimento alla detenzione amministrativa di una donna con evidenti vulnerabilità di natura psichiatrica all’interno del CPR di Ponte Galeria a Roma. Accogliendo la richiesta di adozione di un provvedimento cautelare d’urgenza ex art. 39 CEDU, nella decisione n. 17499/2024 del 3 luglio 2024, la Corte Edu ha ordinato al Governo italiano la liberazione della donna in detenzione amministrativa e il trasferimento in una struttura adeguata al suo stato di salute, incompatibile, alla luce dell’art. 3 CEDU, con lo stato detentivo. Detto in altri termini e più chiari termini, la detenzione in un CPR (in una cella di isolamento) di una persona con problemi di salute mentale è contraria a divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti. Duole ammetterlo ma il caso di Camelia ed il trattamento disumano ad essa inflitto non è da considerare l’eccezione bensì la regola. Nei CPR le violazioni dei diritti fondamentali della persona umana sono sistemiche e non ci sono meccanismi atti ad evitare che tali violazioni possano degenerare in trattamenti inumani, degradanti e crudeli se in tortura. 2. I rapporti – Per capire cosa succede davvero nei luoghi in cui si consuma la detenzione amministrativa occorrerebbe leggere i numerosi rapporti che, nel corso degli anni, diverse ONG (ma anche associazioni e singoli giornalisti) hanno coraggiosamente elaborato e pubblicato a cominciare dal Report di Medici senza Frontiere del 20044. In realtà, e paradossalmente, occorrerebbe ritornare a leggere il “Rapporto della Commissione per le verifiche e le strategie nei Centri di accoglienza e Permanenza Temporanea”, meglio noto come Rapporto De Mistura, consegnato a fine gennaio 2007 dopo un semestre di lavoro e visite sul campo. Con toni pacati ma fermi, nel Rapporto si suggeriva una rivisitazione dell’allora sistema normativo nel senso di ricondurre le espulsioni alla loro natura di provvedimenti necessari da applicarsi come ultima ratio e di proponeva il superamento dei CPTA (Centri di Permanenza Temporanea e di Assistenza, così si chiamavano all’epoca) «attraverso un processo di svuotamento […] di tutte le categorie di persone per le quali non c’è bisogno di trattenimento». Nel 2016, per arrivare a tempi più recenti, Amnesty International ha pubblicato Hotspot Italy. How EU’s flagship approach leads to violations of refugee and migrant rights, al cui interno la parola “tortura” compare ben 49 volte. E ancora i report Dietro le mura. Abusi, violenze e diritti negati nei CPR d’Italia, a cura della

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LA TORTURA IMPERITA

di Fausto Giunta* 1. La lunga storia della tortura registra un’importante svolta con l’avvento dell’età moderna. Dalle severe critiche di Cesare Beccaria diparte un filone di pensiero, di impronta razionalista e personalista, che domina, per il vero non incontrastato, il dibattito odierno. Utilizzata fin dall’antichità come legittimo strumento investigativo e probatorio, la tortura costituisce in molti ordinamenti giuridici un delitto gravemente punito, anche in ottemperanza alle richieste provenienti da fonti costituzionali e convenzionali. Per il vero rimangono sul tappeto anche proposte favorevoli a un suo impiego sorvegliato (addirittura medicalmente assistito) finalizzato a contrastare le più temibili forme di criminalità organizzata, come il terrorismo globale. Nel continente europeo, però, queste fughe in avanti sono opinioni isolate. Da noi, come noto, il delitto di tortura è stato inserito all’art. 613-bis c.p. dalla legge 14 luglio 2017, n. 110. Si tratta di una fattispecie incriminatrice che, avversata già prima della sua entrata in vigore, ha continuato a esserlo anche dopo. Alla ritenuta inopportunità di criminalizzare l’operato delle Polizie di Stato, impegnate nel contrasto del crimine, si sono aggiunte le censure concernenti la formulazione della fattispecie incriminatrice. Non è azzardato affermare che la nuova figura di reato è riuscita a scontentare quasi tutti. Ciò ha alimentato critiche ulteriori e ancora più radicali, che sono sfociate nella proposta di legge n. 623 (presentata alla Camera dei deputati il 23 novembre 2022), avente ad oggetto l’abolizione del delitto di nuovo conio. A quest’ultimo proposito si fanno valere due argomenti, l’uno non veritiero, l’altro poco persuasivo. Da un lato, si ridimensiona la preoccupante entità del fenomeno criminoso, confermata, se mai occorresse, dalla cronaca degli ultimi tempi. Dall’altro lato, si sostiene la superfluità dell’innovazione, rilevando che il suo spazio operativo è già occupato da altre fattispecie incriminatrici: dalle percosse alle lesioni, dalle minacce al sequestro di persona. In realtà, la tortura è concetto poliedrico, che comprende vessazioni non sempre riconducibili agli anzidetti tipi criminosi. Del tutto fondati sono invece gli appunti mossi alla formulazione della fattispecie, foriera di questioni interpretative che, almeno in parte, si sarebbero potute evitare adottando una tecnica legislativa più accorta. Essendo logorroica e pletorica, la nuova figura di reato costituisce un fulgido esempio di insipienza legislativa.   2. La complessità del tema affonda le radici già nel terreno dell’oggettività giuridica. Per il nostro codice, la tortura è un delitto contro la libertà morale. La collocazione sistematica, tuttavia, ha un valore puramente indicativo del bene tutelato. Se si guarda alla notevole varietà dei fatti astrattamente rientranti nel delitto di tortura, ci si avvede agevolmente che il comune denominatore offensivo consiste nella dignità personale. La tortura può ledere anche altri beni della persona (oltre alla libertà morale, quella personale, nonché l’integrità fisica e psichica). Da qui la sua natura di reato eventualmente plurioffensivo. Un giudizio adesivo merita la scelta politico-criminale del nostro legislatore concernente la latitudine dell’intervento punitivo. Più che mai in un diritto penale di ispirazione liberale, va assoggettata a pena non solo la tortura con abuso dei poteri coercitivi pubblici, ma anche quella che si verifica nel contesto di relazioni private, caratterizzate dalla posizione di supremazia dell’agente rispetto alle vittime potenziali. Si rende necessario, pertanto, tracciare un duplice e problematico confine operativo, l’uno tra la tortura c.d. di Stato e l’abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 c.p.), l’altro tra la tortura privata (o anche detta comune) e i maltrattamenti contro familiari o conviventi (art. 572 c.p.). Quanto al primo, considerato che l’interferenza normativa riguarda il fatto commesso dal pubblico ufficiale, il discrimine sembrerebbe dipendere dal grado di arbitrarietà della condotta, più marcato nella tortura di quanto non sia nell’abuso di misure di rigore, che sono pur sempre disciplinate dalla legge. Il confine con i maltrattamenti, invece, andrebbe ricercato nella maggiore sofferenza prodotta dai singoli atti di tortura.   3. Ma le problematiche attinenti alla struttura del reato interessano anche i rapporti interni al disposto dell’art. 613-bis c.p. Il legislatore non ha provveduto a scindere con la dovuta nettezza le due ipotesi di tortura, che avrebbero meritato di essere collocate in altrettanti articoli di legge, ciascuno con la sua rubrica. Si sarebbe chiarita in tal modo l’autonomia delle figure di reato. Invece, la loro previsione contestuale e l’anteposta collocazione della tortura comune ha indotto l’orientamento prevalente a qualificare quest’ultima come reato-base e a relegare la ben più grave tortura c.d. di Stato al ruolo di fattispecie circostanziale con tutto ciò che ne consegue, a partire dalla sua attrazione nel vortice del bilanciamento con eventuali attenuanti concorrenti ex art. 69 c.p. Ad un attento esame, però, questa conclusione non è obbligata. Il fatto descritto dal secondo comma dell’art. 613-bis c.p. è simile a quello del primo comma sotto il profilo della condotta, non anche per il resto. Ciò riabilita la tesi che si tratti di figure autonome di reato, accomunate dal groviglio delle problematiche concernenti le molteplici modalità esecutive.   4. Secondo il disposto dell’art. 613-bis, comma 1, c.p., la tortura è integrata da tre distinte condotte, necessariamente attive e rilevanti anche singolarmente, quali le violenze, le minacce gravi e l’agire con crudeltà. Mentre le prime due sono tipizzate con un lessico ben noto alla parte speciale, la terza condotta, nel riproporre la dicitura della circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 4, c.p., sembrerebbe consistere in comportamenti anche doverosi o altrimenti leciti posti in essere con modalità tanto gratuite, quanto efferate o umilianti. Il requisito della “crudeltà”, in mancanza di altre connotazioni dell’agire illecito, allenta la determinatezza della fattispecie incriminatrice nell’intento di abbracciare condotte torturanti non rientranti nella violenza o nella minaccia (come la deprivazione del sonno già conosciuta in epoca medievale e magnificata dal giurista Ippolito Marsili perché efficace pur senza affliggere il corpo). A ciò si aggiunga che di “crudeltà” si può parlare tanto al singolare, quanto al plurale. Il canone dell’interpretazione sistematica inclina per la seconda opzione. Questa preferenza non implica, però, che la tortura sia un reato abituale; essa semmai rompe le simmetrie che intercorrono con il delitto di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. Le condotte

LA TORTURA IMPERITA Leggi tutto »

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