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ALGORITMI E PREVENZIONE: TRA NUMERI, LINGUAGGIO E GARANZIE

di Fabrizio Costarella* e Ottavio Porto** Nel contemporaneo scenario giuridico, l’espansione del paradigma preventivo rappresenta un mutamento strutturale delle forme di repressione penale. Non si tratta più soltanto di un aumento quantitativo delle misure di prevenzione, ma di una progressiva sostituzione funzionale del processo penale con strumenti alternativi, nei quali le garanzie costituzionali risultano ridimensionate o, talora, del tutto elise. In tale contesto, si profila il rischio che il principio della responsabilità personale accertata venga progressivamente sostituito da valutazioni di pericolosità basate su elementi indiziari, prognostici, e talvolta statistici, privi di un reale contraddittorio. Questo scenario prefigura una vera e propria inversione metodologica, dove la “certezza della pena” diventa, paradossalmente, espressione di una incertezza del diritto, frammentato da prassi giurisprudenziali, estensioni interpretative e criteri probatori informali. In tale deriva trova attualità la massima pitagorica secondo cui “tutto è numero”. Se, per il filosofo di Crotone, il numero era la chiave dell’ordine cosmico, nella declinazione tecnologica contemporanea esso diventa invece strumento di previsione e categorizzazione sociale. Gli algoritmi, utilizzati in funzione preventiva, si ergono a nuovi criteri di giudizio, riducendo la complessità del comportamento umano a variabili computabili. A ciò si accompagna la trasformazione del linguaggio giuridico, sempre più assorbito dal lessico tecnico e predittivo dell’intelligenza artificiale. Come ricordava Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo“: quando la lingua del diritto viene riscritta in codice computazionale, cambia anche la nostra concezione di colpa, responsabilità, libertà. L’introduzione di strumenti informatici come il Sistema Giove, fondato su logiche di polizia predittiva, segna una soglia epistemologica critica. Si tratta di una piattaforma che consente l’incrocio automatizzato di banche dati di diversa natura – giudiziaria, amministrativa, anagrafica – con l’obiettivo di identificare pattern ricorrenti associabili a fenomeni criminali ad alto impatto sociale. Il principio è quello della previsione del rischio: identificare soggetti potenzialmente pericolosi prima che compiano reati, così da attivare misure di prevenzione personale o patrimoniale. In tale modello investigativo, l’indagine si sposta dal fatto alla probabilità, dalla responsabilità accertata alla pericolosità supposta. La razionalità garantista, fondata sulla verifica rigorosa delle prove e sul contraddittorio, viene progressivamente erosa dalla logica predittiva e dalla statistica induttiva. Questa tecnica stocastica si inserisce in una più ampia tendenza, comune a diversi ordinamenti, che fa ricorso a tecnologie basate su machine learning, profilazione automatica e analisi comportamentale predittiva. Tali strumenti – se non rigorosamente regolati – rischiano di introdurre nel procedimento di prevenzione elementi discriminatori, amplificando bias preesistenti nei dati di addestramento: etnia, orientamento sessuale, contesto socioeconomico. Il cuore del problema è epistemologico: chi programma l’algoritmo determina il diritto implicito che esso codifica. Eppure, il controllo giudiziale su questi strumenti è spesso ostacolato dalla loro opacità, dall’assenza di accesso ai dati, e dalla mancanza di supervisione esperta. In questo scenario, la giustizia si espone al rischio di automazione non controllata della discrezionalità. Da questa prospettiva, risulta illuminante la riflessione sulla dimensione mistica e simbolica del potere punitivo pubblico. In epoca medievale, il potere giudiziario del sovrano si configurava come espressione di un ordine trascendente e non riducibile alla razionalità amministrativa. Per Kantorowicz, ad esempio, il sovrano incarnava due nature: un corpo fisico, destinato a morire, e un corpo politico immortale, simbolo della continuità e infallibilità dell’autorità statale. In tale dualismo, la giustizia non era semplicemente esercitata, ma incarnata: il giudice sovrano non agiva come la legge, ma era la legge, in una sovrapposizione tra diritto umano e ordine cosmico. Come la figura del re taumaturgo di Bloch, che si fondava sulla credenza collettiva che il sovrano fosse dotato di un potere miracoloso, capace di guarire per sola imposizione delle mani, non per abilità medica, ma per una legittimazione trascendente, collettivamente condivisa. Anche in quel contesto, il potere pubblico si fondava su una narrazione mistica di giustizia e ordine, accettata perché sentita come parte di un disegno superiore. Tale convinzione conferiva al potere una legittimazione carismatica e quasi liturgica, che legava l’autorità politica al destino spirituale della comunità. L’intelligenza artificiale – nella sua radicale opacità e nella sua pretesa di oggettività neutrale – spezza questo legame simbolico tra autorità e comunità. Non solo rimuove il volto del giudice, ma lo sostituisce con un’entità che non può essere né creduta né contestata sul piano del senso, perché priva di un’origine simbolica condivisa. Così facendo, si introduce una nuova mitologia impersonale, in cui il calcolo prende il posto della fede, e il rischio non è più il sopruso umano, ma l’arbitrio meccanico della macchina. La giustizia viene svincolata da ogni elemento simbolico e umano, recedendo il vincolo collettivo di senso tra governanti e governati e sublimando d’altro canto la dimensione misterica dell’auctoritas, il cui esercizio diviene nuovamente incomprensibile al volgo, smaterializzando la sua secolarizzazione illuministica. In tale modello, l’eccezione si fa norma e il sospetto diventa criterio di azione. La grammatica stessa del diritto moderno, fondata sulla responsabilità personale e sul principio di legalità, risulta sovvertita. Non è più necessario un atto, ma una correlazione statistica; non una colpa, ma un rischio. In chiave politico-filosofica contemporanea, questa trasformazione può essere letta alla luce della riflessione di Giorgio Agamben sul paradigma del “governo attraverso la sicurezza”: una logica in cui il diritto viene progressivamente svuotato, sostituito da pratiche amministrative orientate alla gestione dei rischi e dei comportamenti. La prevenzione algoritmica – fondata su una razionalità tecnico-statistica – si configura come uno stato di eccezione permanente, dove la sospensione delle garanzie è normalizzata, invisibile, addirittura automatica. Qui si innesta una riflessione centrale sul rapporto tra dittatura e stato di eccezione, così come tematizzato da Carl Schmitt e Ernst Fraenkel. Per Schmitt, il sovrano è “colui che decide sullo stato di eccezione”: il momento fondativo del potere politico si manifesta quando, in nome dell’emergenza, si sospende l’ordine normativo per salvaguardarlo. In questo senso, la prevenzione algoritmica si pone come una forma tecnicizzata e automatizzata della decisione sovrana, dove l’eccezione non è più pronunciata da un soggetto politico, ma è incorporata nel funzionamento stesso del sistema. Fraenkel, nel suo celebre Il doppio Stato, aveva mostrato come, nella Germania nazista,

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SISTEMA PENALE E  NUOVE “ENCLOSURES”

di Orlando Sapia* «La legge, nella sua solenne equità, proibisce così al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane» (Anatole France, Il giglio rosso, 1894) È invalso da almeno tre decenni un uso massiccio del sistema penale nel governo della società: aumento spropositato delle fattispecie delittuose e degli edittali di pena, creazione di tecniche legislative di normazione che comportano l’anticipazione della soglia punitiva e di circuiti di esecuzione penale differenziata, sono queste alcune delle caratteristiche che è possibile riscontrare. Un sistema che teoricamente dovrebbe garantire giustizia nel rispetto dei diritti dei cittadini, ma con frequenza nega la giustizia, a causa della lungaggine dei processi causata da un fenomeno di overload del contenzioso, e, a volte, per una perversa eterogenesi dei fini, realizza degli orrori giudiziari.[1] Un sistema penale che diviene sempre più pervasivo, tentando di controllare, mediante la previsione di una miriade di fattispecie di reato, ogni aspetto del vivere sociale, un “diritto penale totale”.[2] Ciò è l’opposto del garantismo penale, il cui principio fondamentale è quello di limitare l’uso del potere coercitivo/punitivo da parte dello Stato (indagini, misure cautelari, processo, esecuzione penale), così da intenderlo quale extrema ratio. In Costituzione sono fissati i principi cardine di un sistema penale finalizzato a garantire i diritti dell’uomo indagato, imputato e, eventualmente, condannato. L’idea di fondo è quella della riduzione della violenza, anche nella punizione del reo, poiché l’obiettivo finale è riaggregarlo nella società, come disposto chiaramente dall’art. 27 Cost. e successivamente chiarito, dopo un tribolato percorso di pronunce, dalla Corte Costituzionale con la Sentenza n. 313/1990[3].  Nella storia repubblicana questo sistema di valori ha conosciuto una realizzazione tardiva, laddove le riforme sono intervenute, e per altri aspetti assente, poiché riforme non vi sono state. Basti pensare che la riforma dell’ordinamento penitenziario avviene nel 1975, con la L. n. 354; il nuovo codice di procedura penale è varato nel 1989, mentre il diritto sostanziale è tutt’ora regolamentato dal codice del 1930. Il legislatore, tuttavia, a partire dagli anni novanta del secolo passato ha realizzato una legislazione fortemente repressiva, improntata alla logica dell’eccezione, nella quale lo spazio delle garanzie legislative ha subito con sistematicità una costante riduzione[4]. Esemplare, in tal senso, è l’introduzione del regime dell’ostatività, ex art.  4 bis L. n. 354/1975, che laddove riguardi il condannato alla pena dell’ergastolo comporta l’ostatività alla concessione della sospensione condizionale, elidendo così le possibilità di concreta riducibilità della pena perpetua. Più in generale, sotto il profilo del diritto sostanziale, si assiste al proliferare delle fattispecie di reato e all’innalzamento degli edittali di pena, in alcuni casi proprio dei minimi, così sottraendo al giudice di merito la possibilità di realizzare una corretta dosimetria della pena da irrogare.[5] Sarebbe troppo lungo in questa sede operare una ricostruzione degli svariati pacchetti sicurezza che si sono succeduti negli ultimi tre decenni, ma è di certo utile ripercorrere quello che è avvenuto per lo meno nell’ultima legislatura. Uno dei primi atti dell’attuale esecutivo, che si muove in perfetta continuità con i precedenti governi almeno per quanto concerne l’uso della penalità, è stato il c.d. decreto contro i rave party, n. 162/2022 poi convertito nella legge n. 199/2022,  che ha introdotto il reato di cui all’art. 633 bis c.p. “Invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica o l’incolumità pubblica”, la cui condotta è punita da tre a sei anni di reclusione; normativa finalizzata a punire chiunque promuova o organizzi invasione di terreni o edifici allo scopo di realizzare raduni musicali che possano nuocere alla salute pubblica a causa del consumo di droghe oppure per violazione della normativa in materia di sicurezza o di igiene degli spettacoli  e  delle manifestazioni pubbliche di intrattenimento. È evidente che si tratti di una norma del tutto superflua poiché le condotte, ora riconducibili nel 633 bis, erano già sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 633 c.p. invasioni di terreni o edifici. Si è dinanzi alla volontà di ricondurre nella sfera di rilevanza penale la condotta organizzativa dell’incontro musicale, di per sé neutra, poiché connessa alla pratica delle occupazioni temporanee piuttosto che al consumo di droghe.  Successivamente, a seguito della tragedia che ha visto la morte di decine di persone migranti lungo le coste della cittadina di Cutro nel tentativo di raggiungere clandestinamente il territorio italiano, si è avuta l’emanazione del D. L. n. 20/2023 convertito in L. n. 50/2023, c.d. decreto Cutro, che ha previsto l’inasprimento delle pene per il reato di immigrazione clandestina prevedendo  la reclusione da 2 a 6 anni (invece che da 1 a 5 anni) per l’ipotesi base e da 6 a 16 (invece che da 5 a 15 anni) per le ipotesi aggravate (comma 3 art.12 TUI), ma soprattutto l’introduzione del nuovo delitto di “Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina” (art. 12 bis Dlgs. n. 286/98), in cui se nell’atto dell’ingresso nel territorio dello Stato in violazione delle norme in materia di immigrazione deriva, quale conseguenza non voluta, la morte di più persona la condotta è punita con la reclusione da venti a trenta anni, e con l’ulteriore particolarità che il nuovo delitto verrà punito secondo la legge italiana anche quando la morte o le lesioni si verificano al di fuori del territorio nazionale. Il D.L. n. 123/23 c.d. decreto Caivano che traendo origine sempre da fatti di cronaca, avvenuti per l’appunto a Caivano, rappresenta un ulteriore di esempio di atto avente forza di legge che viene emanato in via di urgenza, e senza nessuna necessità, sull’onda delle emozioni di piazza per parlare alla pancia del paese. Tale decreto, tra le varie disposizioni, contiene delle norme che consentono un’applicazione più ampia delle misure cautelari nei confronti dei minori, universo rispetto al quale il legislatore mostra normalmente una particolare attenzione e indulgenza, in virtù del fatto che trattasi di soggetti in formazione. Fortunatamente non sono passate quelle proposte che avrebbero voluto un abbassamento dell’età ai fini dell’imputabilità, che per adesso permane a quattordici anni. Gli effetti del decreto Caivano non si

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RIFLESSIONI SPARSE SU ALCUNI TEMI DI FONDO DELL’ASSOCIAZIONE PER DELINQUERE

 di Giovanni Flora* Sommario: 1. Premessa 2. L’utilizzazione strumentale della contestazione dell’associazione per delinquere (art. 416 c.p.). 3. La problematica qualificazione della associazione per delinquere come reato di danno, reato di pericolo o reato-ostacolo ed i riflessi sulla struttura tipica della fattispecie. 4. I problematici criteri distintivi tra associazione per delinquere e concorso di persone nel reato continuato.  5. Segue: “Sfruttamento” della organizzazione di una impresa “lecita” per la commissione di reati e configurabilità della associazione per delinquere. 6. La necessità di distinguere tra imprese societarie illecite e illeciti delle imprese societarie. 7. Profili di incostituzionalità della “norma di creazione giurisprudenziale” del c.d. “concorso esterno in associazione di stampo mafioso”.   Una trattazione delle problematiche attuali dei reati associativi, con particolare riguardo al reato di associazione per delinquere comune e con inevitabili cenni anche a quello di associazione di stampo mafioso, dovrebbe occupare uno spazio ben maggiore di queste poche pagine, necessariamente sintetiche, che mi onoro di scrivere per questa bella Rivista della battagliera Camera Penale di Catanzaro. Ma come si dice agli amici veri da un amico vero: “non mancherà occasione” (di ritornare sull’argomento). Orbene, la prima riflessione da fare è che costituisce dato incontrovertibile della quotidiana prassi giudiziaria quello dell’utilizzazione in chiave “strumentale”, di politica criminale giudiziaria, della ipotesi di associazione per delinquere. Con il palese obiettivo: di rendere più severa la risposta sanzionatoria laddove la magistratura ritenga troppo mitemente puniti i reati che costruirà come “reati fine” (per es: truffa, appropriazione indebita, reati tributari); di consentire la custodia cautelare in carcere ed il ricorso alle intercettazioni telefoniche le quali da molto tempo e ancor oggi, nonostante qualche intervento legislativo mitigatore, costituiscono la star dei mezzi di ricerca della prova; di affievolire tutte le garanzie processuali (ora è previsto anche il ricorso al “trojan”) che l’ordinamento allestisce allorché si tratti di  reati di criminalità organizzata, tra i quali (contrariamente a qualsiasi criterio di ragionevolezza) la giurisprudenza fa rientrare anche l’associazione per delinquere “comune” (Cass. S.U. 11.05.2005, n. 17706). Non solo, ma la amplificazione mediatica a tappeto di una indagine per associazione per delinquere, contribuisce a radicare nell’opinione pubblica (o meglio in un pubblico senza opinione per dirla con il Presidente dell’UCPI, Francesco Petrelli) la convinzione che gli indagati non abbiano scampo: sono “palesemente colpevoli” (Vittorio Manes docet). Insomma, si ha la sensazione che sia sufficiente contestare una pluralità di delitti ad almeno tre persone ed il gioco è fatto. Pur se nel mio bagaglio di esperienza professionale non manca la contestazione associativa anche in presenza di un solo indagato identificato, dietro la considerazione che non avrebbe potuto da solo realizzare tutta la serie di reati addebitati… se non in associazione con altri da compiutamente identificare. La seconda riflessione che non costituisce solo uno “sfizio” dogmatico riguarda la stessa natura del delitto di associazione: reato di danno? Reato di pericolo? Addirittura “reato ostacolo che punisce già di per sé una condotta prodromica alla realizzazione dei reati fine dei quali non realizzerebbe nemmeno il pericolo di commissione (MANTOVANI, Diritto penale, p. g., XI ed., Padova, 2020, p.229). e la cui realizzazione non è notoriamente requisito tipico della fattispecie associativa. La soluzione comporta implicazioni pratico applicative di non poco momento. A mio parere, poiché l’art. 416 è collocato tra i delitti contro l’ordine pubblico e premesso che l’ordine pubblico va inteso in senso costituzionalmente adeguato come ordine pubblico materiale e non “ideale”, com’era negli intendimenti originari del Codice Rocco, l’associazione per delinquere è reato che lede (e solo quando lede) l’ordine pubblico materiale.  Esso sussiste se e solo quando una struttura organizzata di più persone, legata da affectio societatis, si radica in un determinato territorio facendo aumentare, in quel territorio, il rischio di commissione dei reati oggetto del “programma sociale” Quindi è reato che implica contemporaneamente la lesione dell’ordine pubblico materiale e il pericolo concreto di commissione di un numero indeterminato dei delitti (IACOVIELLO, Ordine pubblico e associazione per delinquere, Giust. Pen., 1990, II, c. 46 segg.; volendo, FLORA, Per una definizione di ordine pubblico (tra codice e leggi speciali), Annali Univ. Molise, I, Napoli, 2003, p. 93 segg.). Una tale ricostruzione in termini di offensività non può non avere ripercussioni sul versante interpretativo e pratico applicativo: in ordine alla stabilità dell’aggregato organizzativo, alla sua effettiva idoneità di comportare il pericolo concreto di attuazione del programma delittuoso. Conseguentemente continua a porsi nella prassi il problema di reperire criteri affidabili per distinguere le ipotesi di associazione per delinquere da quelle di concorso di persone nel reato continuato. A questo proposito, la giurisprudenza, anche di legittimità, a dispetto della apparente linearità dei principi di diritto espressi tralaticiamente, condensati nelle massime di cui bulimicamente gli “operatori” del diritto penale” si cibano, non è mai riuscita in modo convincente ad indicare una costante, univoca e chiara linea di demarcazione tra reato associativo e concorso di persone nel reato continuato. Una pur meticolosa ricerca che frughi anche i più inesplorati canali di approvvigionamento delle massime della Suprema Corte non riesce a reperire se non due sole sentenze (su casi del tutto peculiari) e delle quali si dirà nel prosieguo che affermano l’insussistenza del reato associativo “a favore” dell’ipotesi della continuazione. Insomma: quasi tutte le volte che ci si imbatte in una massima che ripete la stanca litania del criterio delimitativo tra le due figure (indeterminatezza del programma delittuoso, organizzazione, ancorché “rudimentale”, destinata a sopravvivere anche oltre la commissione dei reati-fine = art. 416 c.p.; accordo, pur se strutturato, destinato a cessare dopo la commissione  dei delitti programmati nell’ambito del “medesimo disegno criminoso” = art. 81, comma 2 c.p.), ben difficilmente si riesce poi a comprenderne appieno l’utilizzazione in funzione della soluzione della singola vicenda processuale. Basti pensare che la stessa Suprema Corte si premura di precisare che può configurarsi associazione per delinquere anche se il sodalizio è finalizzato alla commissione, non di un numero indeterminato, ma anche di un numero previamente determinato di delitti (ma allora dove sta il confine con il concorso di persone nel reato continuato?). Non solo, ma spesso (e qui per

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LA LEGGE A GUANTANAMO: TORMENTO O BENEDIZIONE?

di Joseph Margulies* Quando penso agli ultimi vent’anni, mi viene in mente la frase dei Grateful Dead: «Lately it occurs to me, what a long strange trip it’s been». I. Come Mai Guantanamo? Immagino che la storia sia familiare, ma molto brevemente, per capire come si sia arrivati a Guantanamo, dobbiamo capire che gli attacchi sono stati interpretati, immediatamente, non come un reato ma come un atto di guerra, e che in questa guerra, l’obiettivo più importante era l’intelligence. Tutto ciò che è avvenuto in risposta all’undici settembre, negli Stati Uniti e in gran parte dell’Occidente, Italia inclusa, si fa risalire a questa comprensione: questa era, ed è, una guerra di intelligence. Siete consapevoli, ad esempio, che tutte le vostre comunicazioni elettroniche possono essere lette dalla NSA. Naturalmente, l’11 settembre è stato un reato. Ma l’obiettivo primario dopo l’11 settembre non è stato quello di risolvere il reato – cioè, arrestare i responsabili e perseguirli – ma prevenire il prossimo attacco. L’amministrazione Bush ha capito, quasi dal primo giorno, che ci sarebbero state operazioni militari in Afghanistan, e che queste operazioni avrebbero portato alla cattura di sospetti prigionieri di Al Qaeda. E poi? Cosa dovrebbe accadere? La risposta era semplice: gli Stati Uniti hanno voluto sviluppare una tipologia di interrogatorio che permettesse di svuotare il contenuto della testa di un prigioniero. Avevano bisogno di un luogo, o diversi luoghi, dove qualsiasi interrogatorio potesse essere condotto in ogni momento, senza alcun controllo giudiziario o vincolo giuridico. Hanno voluto liberarsi dai limiti imposti dal diritto nazionale e internazionale. Secondo l’amministrazione Bush gli interrogatori nel mondo dopo l’11 settembre non dovevano più essere soggetti a nessuna restrizione, a eccezione di quelle che essi stessi si sarebbero volontariamente posti. La maggior parte di questi è stata condotta dai militari americani nelle basi in Afghanistan e Guantanamo. Per raggiungere la massima flessibilità, gli Stati Uniti hanno gettato via la Convenzione di Ginevra. La natura e la brutalità degli interrogatori militari varia moltissimo. Alcune persone vengono interrogate solo brevemente; tuttavia, molte altre centinaia, incluse praticamente tutte le persone trasferite a Guantanamo, sono state soggette a svariati abusi, inclusi la deprivazione del sonno, la manipolazione ambientale, posizioni di stress, umiliazioni fisiche e sessuali e violenze. Abbiamo intentato Rasul v. Bush per rispondere a questo vuoto, questo posto senza i freni della legge. Abbiamo detto in Rasul che non c’è una prigione fuori la legge. Abbiamo voluto inserire la legge in un posto dove, ed a un tempo quando, non c’era ricettività della legge. Che dev’essere un modo per contestare la legittimità legale e fattuale della detenzione in un tribunale, e per mostrare che – in ogni caso particolare – lo Stato ha commesso un errore. Punto. E abbiamo vinto. La Corte Suprema ha detto che i detenuti potrebbero contestare le basi della loro detenzione in tribunale.   II. La Legge Come Tormento Anche se abbiamo vinto, la legge ha fallito a Guantanamo, in almeno tre sensi. a. La Legge Come Complice Primo, la legge ha permesso all’amministrazione Bush di creare Guantanamo. Ha permesso la tortura e le prigioni segrete. La legge ha permesso l’intera architettura del regime di detenzione dopo l’undici settembre. In realtà, il regime non sarebbe stato possibile senza la legge. Negli Stati Uniti, veneriamo la legge, e soprattutto la Costituzione. Non è possibile creare un nuovo aspetto della vita americana senza prima dimostrare che è coerente con la Costituzione, e non solo con le parole ma anche con lo spirito della Costituzione. E quindi l’amministrazione ha dovuto stravolgere e contorcere la legge per adattarla a un luogo come Guantanamo ed a una pratica come la tortura. E l’ha fatto. Come ho scritto in un libro, What Changed When Everything Changed, 911 and the Making of National Identity, l’amministrazione ha reimmaginato ciò che la legge consente per preservare il nostro mito di innocenza e purezza. In questo senso, la legge è complice nel tormento. La legge fa parte del nostro incubo dopo 9/11 tanto quanto la tortura che ha permesso. b. La Legge Come Falsa Speranza Anche la legge ha fallito in un senso diverso. In Rasul, non abbiamo vinto un risultato, ma un processo. Quando il tribunale – ogni tribunale – crea un processo, vogliamo credere che sia vero, che sia reale. Vogliamo credere che i risultati del processo saranno divisi tra le parti perché i fatti non favoriranno sempre una parte rispetto all’altra, e quindi le regole che risolvono i casi non favoriranno una parte rispetto all’altra. Che, insomma, ci sia una possibilità di vittoria per tutte le parti. Altrimenti, non è un processo, è una finzione. Quella è la speranza di ogni processo e della legge che l’ha creato. In questo caso – in Rasul – abbiamo ottenuto il diritto di obbligare lo Stato a mostrare le basi legali e fattuali della detenzione di un detenuto. Ma la Corte Suprema ha lasciato i dettagli del processo ai tribunali di grado inferiore, e loro hanno creato un processo in cui lo Stato non può mai perdere e i detenuti non possono mai vincere. Mai. I dettagli non sono importanti ora; ci sono varie presunzioni a favore delle prove dello Stato. Ma il punto è solamente che non è un processo vero. È solo l’aspetto di un processo. È l’opportunità di entrare il tribunale e di iniziare il processo, ma come in un processo alle streghe, tutti conoscono l’esito prima che inizi. c. La Legge Come Mito Anche la legge ha fallito in un terzo senso, un senso più complesso. In un modo collegato al mito della legge. Cioè, purtroppo, esiste un mito negli Stati Uniti che la legge funziona. Che la legge possa limitare il potere. E quando abbiamo vinto Rasul, tutti i giornali e le riviste e la TV hanno detto, “Guarda. Ci piace dire che siamo un paese di leggi e non di uomini, ed è vero. Anche in tempo di guerra, la legge funziona”. In questo senso, la legge rafforza il suo stesso mito. Per me, questo è il

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ANCHE AL PEGGIORE DEI NEMICI

di Fabio D’Offizi* Leggendo i preziosi contributi monografici fin qui pubblicati su “Ante Litteram” in tema di tortura, ho ritenuto opportuno segnalare una vicenda processuale che, a parer mio, non gode dell’eco che meriterebbero tutti quei giudizi in cui vi è la tendenza a ribaltare il paradigma accusatorio garantista e, di conseguenza, a distorcere la procedura penale fino a intenderla quale neo-limite all’esercizio del diritto di difesa. In un sistema accusatorio garantista, infatti, le regole processuali devono limitare l’autorità procedente per bilanciare l’asimmetrico rapporto fra lo Stato, che avanza la pretesa punitiva, e il cittadino, a garanzia del quale sono poste. E ciò deve valere a fortiori se il delitto oggetto dell’accertamento è un crimine contro l’umanità, come lo è la tortura, anche se si tratti di quella propriamente intesa, ossia la terribile e inaccettabile pratica di interrogatorio medievale. In tale prospettiva si inserisce la sentenza n. 192/2023 con cui la Consulta, in relazione al cd. Processo Regeni, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 420-bis, comma 3 c.p.p., nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva con legge 3 novembre 1988, n. 498, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa. In particolare secondo la Consulta, il factum principis (ossia il rifiuto delle autorità egiziane di rendere noti i recapiti dei quattro funzionari ai fini della notifica della loro vocatio in iudicium) ha determinato obiettivamente le condizioni di una fattuale immunità extra ordinem, incompatibile con il diritto all’accertamento processuale, quale primaria espressione del divieto sovranazionale di tortura e dell’obbligo per gli Stati di perseguirla, e idonea a impedire il compimento degli accertamenti giudiziali previsti in sede pattizia, così ledendo la dignità della persona offesa perché comprime il suo diritto fondamentale a non essere vittima di tali atti e quello dei familiari della persona la cui morte sia stata causata direttamente da quel reato[1]. Sulla scorta di queste ragioni, ampliando il novero delle ipotesi di assenza non impeditiva previste dal terzo comma dell’art. 420-bis c.p.p., la Corte costituzionale ha permesso la celebrazione, a carico di quattro assenti inconsapevoli, di un giudizio che a breve si concluderà, seppur caratterizzato ab initio «dall’irrisolta tensione tra il diritto fondamentale dell’imputato a presenziare al processo, l’obbligo per lo Stato di perseguire crimini che consistano in atti di tortura e il diritto – non solo della vittima e dei suoi familiari, ma dell’intero consorzio umano – all’accertamento della verità processuale sulla perpetrazione di tali crimini»[2]. In un contesto mediatico dai risvolti altamente politici, questa scelta del giudice delle leggi mi è parsa un’operazione ermeneutica giustificata più da una spinta esterna di matrice vagamente populista che dall’asserita necessità di bilanciare interessi confliggenti ma al contempo riconosciuti dalla carta fondamentale. Infatti, in tale prospettiva, la ritengo opinabile per due ordini di motivi. In primo luogo, il bilanciamento operato dalla Consulta non mi convince nel relazionare il diritto di difesa con il “diritto inviolabile della persona che del reato di tortura è stata vittima”, poiché altrimenti (ossia impedendo sine die la celebrazione del processo per la verifica del reato di tortura) si annullerebbe il suo diritto fondamentale all’accertamento della verità. A mio parere, tale impostazione presta il fianco a due differenti critiche. Per un verso, in ossequio alla presunzione di non colpevolezza che assiste anche i quattro funzionari egiziani, non può esservi aprioristicamente una “vittima” perché, in un ordinamento pienamente democratico, tale status soggettivo dovrebbe maturare solamente al momento del passaggio in giudicato della condanna emessa al di là di ogni ragionevole dubbio, ossia solamente quando viene accertato il “colpevole”. Fino ad allora in un giusto processo, proprio in ossequio alla presunzione di non colpevolezza, non potrà esservi per definizione una “vittima”, ma al più una “presunta vittima”, almeno in relazione a quello specifico “presunto non colpevole”, quindi bilanciare l’inviolabile diritto di difesa di quest’ultimo con un diritto all’accertamento della “presunta vittima” mi lascia perplesso. Per altro verso, l’accertamento processuale è direttamente proporzionale al rispetto delle regole che lo disciplinano; quindi, una procedura deviata ab initio restituirà una “verità” quanto meno dubbia, incerta, se non addirittura discutibile e non convincente, con ciò negandosi la stessa funzione conoscitiva del processo penale e, pertanto, anche il menzionato diritto della “vittima” alla verità. Quest’ultima, infatti, conseguirà a un non-accertamento, frutto della sola posizione accusatoria, che nel percorso processuale avrà beneficiato illegittimamente della mancanza di un vero contraddittorio a causa dell’assenza incolpevole degli accusati. In secondo luogo, se la Consulta, da un lato, pone il diritto partecipativo dell’imputato[3] (funzionale all’esercizio della cd. autodifesa, che compone il diritto di difesa nell’interazione con il concorrente diritto alla difesa tecnica, rispetto al quale rimane comunque distinto e ulteriore[4]) e, dall’altro, il diritto/dovere dello Stato di perseguire tutti i reati, bilanciarli negando la pienezza del primo significa avvantaggiare irragionevolmente il secondo, perché si pregiudica in modo irrimediabile il diritto inviolabile di difesa. Infatti, la mancata conoscenza da parte dell’imputato della vocatio in iudicium (caposaldo del giudizio penale) non è altrimenti surrogabile e rappresenta un vulnus irreparabile che elide l’idea stessa di giusto processo, ossia dello strumento democratico attraverso cui lo Stato può svolgere l’interesse repressivo… anche in relazione ai crimini contro l’umanità. Anzi, tanto più grave è il reato, tanto maggiori devono essere le garanzie che lo Stato assicura al presunto non colpevole, per dimostrare di tal guisa, anche al peggiore dei nemici, la propria superiorità democratica. Prendendo dichiaratamente atto del pregiudizio che stava arrecando al sistema alla cui tutela sarebbe invece preposta, la Consulta ha ritenuto comunque possibile ridurre questo vulnus a legittimità «per linee interne al sistema delle garanzie, senza alcun

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IL “GRATUITO” PATROCINIO A “SPESE” DEL DIRITTO DI DIFESA!

di Renata Accardi* Il diritto di difendersi nel processo (qualunque natura esso abbia) è previsto dal dettato costituzionale e dal D.P.R. 115 del 2002 e successive integrazioni e modifiche, che prevedono anche che la parte processuale possa scegliere un proprio difensore di fiducia che sarà retribuito dallo Stato. Ma la retribuzione che il professionista abilitato al patrocinio a spese dello Stato, per previsione legislativa (art. 82 DPR cit.) non è quella prevista dalle tabelle dei compensi, essendo lasciata alla discrezione del giudice che liquiderà gli onorari, avendo questi un limite massimo nel valore medio della tariffa professionale e la possibilità (art. 106 bis e 130) di ridurli da un terzo alla metà. Al netto della reale mancanza di una giustificazione ancorata ai principi costituzionali di tale differenza di trattamento, l’attuale normativa comporta che nel caso in cui il giudice decida di non applicare il valore medio della tariffa, ma quelli minimi, cosa tutt’altro che infrequente, la riduzione dei compensi di cui agli articoli 106-bis e 130 del citato testo unico porterebbe a liquidare gli onorari dell’avvocato al di sotto dei minimi tariffari. Non c’è chi non comprenda che questa situazione porta (unitamente ai ritardi nelle liquidazioni e ai tempi biblici nei pagamenti) ad allontanare i professionisti da questo istituto con compromissione dei diritti delle parti processuali a poter scegliere un difensore di fiducia e, inutile nasconderlo, ad avere una difesa completa (si pensi al costo di indagini difensive o di consulenti che coadiuvino nella difesa). Tuttavia in alcune aree geografiche maggiormente depresse nelle quali l’accesso al beneficio è più che frequente il difensore non ha che da assoggettarsi allo svilimento della sua professionalità dovendo rinunciare alla rivendicazione della stessa pur di garantire la difesa del cittadino che a lui si rivolge Svilenti sono poi le pratiche attuate ormai frequentemente di adozione di protocolli che nel tentativo non sempre riuscito di porre un freno alla discrezionalità (al ribasso) delle liquidazioni costituiscono una (quasi) inevitabile resa rispetto alla legittima pretesa di una giusta remunerazione dell’attività professionale prestata. Eppure, l’Art. 36 della Costituzione prevede che il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Sul solco di tale previsione costituzionale e nel rispetto della professionalità dei difensori è stata emanata la Legge n. 49/2023, che nella contrattazione pubblica ha istituito che gli onorari debbano essere rispettosi delle tariffe professionali ed equi in riferimento alla prestazione svolta. In particolare, si è introdotto il concetto di equo compenso, che è stato definito come la “corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale, nonché conforme ai compensi” previsti dalle tariffe professionali vigenti (art. 1). Dopo tale previsione legislativa e nel solco di una situazione economica che sta inibendo la possibilità per i cittadini di difendersi, rinunciando sia alla nomina del difensore, sia a seguire il processo che lo riguarda, si è già pensato di presentare una proposta di legge che apportasse modifiche agli articoli 106-bis e 130 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. L’incipit della proposta è esemplificativo della volontà di riconoscere la giusta dignità a chi si iscrive negli elenchi dei professionisti che prestano la propria attività anche con l’istituto del Patrocinio a Spese dello Stato: “La presente proposta di legge risponde all’esigenza di porre fine a una forma di discriminazione che colpisce gli avvocati che dedicano le loro competenze e la loro passione alla difesa dei cittadini meno abbienti, nel rispetto delle disposizioni del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115”. De iure condendo, l’Osservatorio, al termine di una capillare disamina delle maggiori criticità del sistema normativo da un lato e delle sue (mal)prassi applicative dall’altro ha ritenuto di formulare una sua proposta modificativa che tenta, senza presunzione di esaustività: di porre rimedio ai margini applicativi della normativa che oggi consentono sperequazioni immotivate e, a nostro avviso, contrarie ai dettati costituzionali di integrare la normativa per renderla più aderente alle realtà procedimentali e processuali, a garanzia della effettività del diritto di difesa del cittadino non abbiente di ridurre i margini interpretativi entro i quali si incuneano certe interpretazioni applicative ideologicamente e pregiudizialmente orientate a discapito del difensore al fine ultimo e con l’auspicio di restituire dignità al professionista e garantire i diritti costituzionalmente previsti ai cittadini che hanno necessità di essere difesi. Spesso infatti la legittima rivendicazione di un compenso adeguato all’attività professionale offerta dal difensore è stata tacciata di “settaria rivendicazione salariale” e non solo da parte dell’opinione pubblica (evidentemente da quella che non ha mai avuto necessità di ricorrere al beneficio) ma anche da parte di “addetti ai lavori”. Orbene, posto che in ogni caso nulla di disonorevole si trova in chi rivendica di essere adeguatamente retribuito per quella che, seppur bellissima e nobile, è pur sempre una professione che si sceglie come attività lavorativa, a noi spetta evidenziare come ciò che si difende è senza dubbio l’effettività di un diritto che sulla carta viene riconosciuto al cittadino ma,  di fatto, viene mortificato nella sua esplicazione. Purtroppo anche la stessa avvocatura ha talvolta sottovalutato l’importanza del tema che oggi invece riteniamo meriti una particolare attenzione sia perché l’istituto   è tutt’altro che marginale, stando ai numeri delle pratiche di accesso allo stesso, sia perché nella sua applicazione pratica finisce con il marginalizzare la funzione difensiva ed in questo senso riguarda tutti, non soltanto quelli tra noi che, volenti o nolenti, devono farvi accesso. Mortificante, infatti, la disamina che l’osservatorio nella sua attività di ricerca ha fatto di provvedimenti abnormi, sia in tema di ammissibilità, sia in ordine alla liquidazione dei compensi, che più che meritare impugnazione, destano indignazione in chi spende professionalità, impegno e dedizione alla funzione difensiva. Da tali condivise considerazioni e dal lavoro di ricerca ed

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IL FREGIO ROSSO E BLU SULLA VITA DELLE PERSONE

di Giuseppe Guida* “L’errore giudiziario non esiste!… la giustizia è una religione dove i ricorsi, gli appelli postulano l’esistenza di una opinione laica della giustizia: e quando la religione comincia a tener conto dell’opinione laica è ben che morta!” Con queste parole Leonardo Sciascia affida a Riches, grand commis nel paese della giustizia immaginaria, la definizione di una giustizia retriva e teocraticamente discendente, che tende ad affermare sé stessa come una monade sacrale avulsa dalle umane vicende e dove le ragioni del suddito accusato del “reato peccato” sono destinate a dissolversi nella capacità catartica della giustizia delle leggi e degli uomini superiori. Certo l’intento parodistico di Sciascia era quello di descrivere una giustizia immaginaria, governata da burocrati ingessati, fidi scudieri di una legge paraclita, promanante dalla verità dei due corpi del re, indifferente alle invocazioni dell’essere: eppure, forse nemmeno lui immaginava (o forse sì) di predire la causa più profonda e veritiera dell’errore giudiziario, oggi più che mai ricorrente e forse, anzi senza forse, nemmeno poteva immaginare che qualcuno ripetesse per davvero quelle frasi di Riches come dogma divulgativo (… ricordate i colpevoli che l’hanno fatta franca?).  Disconoscere l’errore giudiziario, come Riches, o, peggio ancora ridurlo ad una “eventualità” fisiologica del processo penale, avvalora una preoccupante ed antistorica visione eticizzata ed eticizzante della giustizia penale, asservita ad un approccio fideistico verso l’infallibilità dei dogmi e degli interpreti, in aperto contrasto con la dimensione evoluta del diritto e processo penale liberale. Eppure, quante volte ho sentito dichiarare pubblicamente che “l’errore giudiziario appartiene alla fisiologia del processo”, “il processo è fatto di uomini e gli uomini sbagliano” e poi “però l’errore giudiziario emerge perché c’è sempre un giudice a Berlino che lo rileva”, tutte affermazioni pretestuose ed inaccettabili che tradiscono una deleteria visione proprietaria ed autoreferenziale della giustizia che è, per l’appunto,  la sottaciuta e vera causa degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni! Non può essere fisiologico l’errore perché anche solo uno tradisce l’essenza stessa del processo penale dei diritti e delle garanzie, informato alla presunzione di innocenza ed orientato dal ragionevole dubbio, creando una frattura insanabile tra “effettività” e “normatività” delle norme penali, accentuando il distacco dal loro modello costituzionale. Del resto, fisiologico ed ammissibile sarebbe in un sistema autoritario o teocratico, dove la giurisdizione è esercitata ex parte principis e dove la volontà di Dio, del re o del principe si fa legge penale, ed il solo contrapporsi ad essa è delitto. Lì può essere fisiologico, perché quando la legge penale diventa sentire etico dominante, desiderata del sovrano o dogma di Dio, l’errore di condannare l’innocente è in re ipsa. In un sistema liberale, il cui cuore pulsante sono i diritti fondamentali dell’individuo   consolidati nel modello costituzionale di riferimento, il cui presidio sono le regole processuali inderogabili, non vi è fisiologia che tenga!   L’imputato soggiace al diritto penale della legalità, della offensività, della materialità e della soggettività senza deroghe o interpretazioni dettate da interessi prevalenti: egli è presunto non colpevole e, quando colpevole, lo è oltre ogni ragionevole dubbio! (quanto ci sarebbe da dire su questa formula che di fatto le prassi giudiziarie deviate hanno ribaltato). Nemmeno è fisiologico perché il “processo è fatto di uomini e gli uomini sbagliano”: il processo è disciplinato da regole contenute in norme, non da sensazioni, pulsioni emotive, suggestioni ideologiche o spinte etico culturali, e quindi l’uomo-giudice sbaglia ogniqualvolta si lascia sopraffare dalle seconde contravvenendo alle prime. Non mi conforta affatto poi la “favoletta” del giudice a Berlino, utilizzata come foglia di fico, perché è sconfessata dalla dinamica processuale dell’errore giudiziario e della ingiusta detenzione: l’una e l’altra sono evidenziate e proposte dall’avvocato difensore, che con la tenacia e la fede (questa sì) nel credere dell’innocenza del suo assistito promuove tutte le iniziative ed azioni che il codice di rito gli affida, il giudice, quello famoso di Berlino, non fa altro che fare il giudice, terzo, imparziale, equidistante, illuminato dalla presunzione di non colpevolezza, convinto del ragionevole dubbio e depositario del rispetto e della applicazione acritica delle regole processuali a lui consegnate per il sacrale (questo sì) esercizio della giurisdizione. Vero è che gli argomenti spesi, suscettibili di critica e di opinioni contrarie, potrebbero intendersi come il frutto  ideologico di una militanza ortodossa convinta e risalente (e non nego che lo sia),  destinati a scontrarsi con altra e contrapposta verità, tuttavia vi è un dato incontrovertibile, che conforta e  lascia presumere che essi non siano figli di incontrollata partigianeria culturale, men che meno di una ostile  e pregiudiziale avversione nei confronti di giudici e pubblici ministeri, ed è quello numerico, sul quale non ci si può non soffermare, essendo destinato a certificare che “quella occasionale fisiologia dell’uomo “giudice che può sbagliare” non è poi proprio così. Per avere un’idea di quanti siano gli errori giudiziari in Italia, mettendo insieme sia le vittime di ingiusta detenzione che quelle di errori giudiziari in senso stretto, dal 1991 al 2023 i casi di stati 31.397, in media più di 951 l’anno. Nell’anno 2023 sono stati corrisposti indennizzi dallo Stato per ingiusta detenzione euro 27,8 milioni, importo sensibilmente ridotto nel 2024, dove il totale degli indennizzi è stato di 26,9 milioni di euro (fonte relazione annuale del Ministro della Giustizia). Numeri cospicui e preoccupanti che debilitano la “fisiologia” e smentiscono “l’errore umano”.   Fa il paio con questi numeri allarmanti, ai quali vanno aggiunti i silenti, ovvero quelli che hanno rinunciato per sfiducia nel sistema giustizia alla richiesta di riparazione e quelli ai quali la istanza è stata respinta, sulle cui motivazione sarebbe opportuno approfondire, il capitolo degli illeciti disciplinari (sempre fonte relazione ministeriale) avviati nei confronti dei magistrati per le accertate ingiuste detenzioni, promossi dal PG della Cassazione e dal Ministro della Giustizia. Quelle avviate dal Ministro della Giustizia si sono ridotte nel tempo, da 22 nel 2019 a 0 nel 2024, mentre quelle avviate dal PG sono rimaste numericamente costanti, 2 nel 2019 e 2 nel 2024. Le azioni complessivamente avviate dal 2017 al 2024 sono state 89, di cui 44 concluse con

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DEI (NUOVI) DELITTI E DELLE PENE (ESEMPLARI): BECCARIA NELL’EPOCA DELLE NARRAZIONI

di Valentina Alberta* –  PREMESSA Nel dicembre 2023, appena annunciata la presentazione dell’ennesimo pacchetto sicurezza approvato dal Governo (la cui discussione parlamentare è stata poi avviata nel successivo mese di gennaio dopo la presentazione del ddl AC1660, promosso, con grande enfasi, dai Ministri della Giustizia, dell’Interno e della Difesa), la Camera Penale di Milano aveva ritenuto di lanciare un allarme, da estendere anche all’avvocatura non penalista, per rappresentare i rischi insiti in un intervento particolarmente preoccupante, non solo per l’eccessivo ricorso allo strumento penale rispetto ad una serie di emergenze piuttosto eterogenee e tutte da dimostrare, ma anche per il target di una serie di interventi, chiaramente orientati ad incidere sul rapporto Stato/cittadino attraverso un atteggiamento repressivo mirato verso la protesta, il disagio e la marginalità, i luoghi di detenzione. Si era allora dato a quel momento di confronto il titolo che si riprende oggi, realizzando come allora ci fosse permessi di ironizzare sui fondamenti del nostro sistema penale. Oggi, la riflessione si è trasformata in protesta e vede coinvolti non solo i penalisti di UCPI ma anche magistrati, professori e cittadini. Addirittura, i primi ad intervenire, a DL annunciato ma non ancora pubblicato, sono stati prima l’Associazione dei Professori di Diritto penale[1], e, a ruota, l’Associazione Nazionale Magistrati[2], con documenti dai toni duri, raramente adottati da interlocutori molto meno “movimentisti” dell’avvocatura penalistica. E proprio noi avvocati penalisti siamo scesi in piazza il 7 maggio scorso, al terzo giorno di astensione[3]; avevamo già protestato il 5 novembre 2024, dopo l’approvazione alla Camera del ddl 1660[4]. Il fronte è ampio e vede una voce unica, che si era peraltro già levata all’unisono – come difficilmente accade – nelle numerose audizioni parlamentari alla Camera sul ddl poi trasmesso al Senato (AS 1236) ed infine “scippato” al Parlamento attraverso lo strumento della decretazione di urgenza. La compattezza delle critiche si è incentrata in prima battuta sul metodo, che forza l’art. 77 Cost. con un provvedimento eterogeneo e non giustificato dalle straordinarie ragioni di urgenza che sole legittimano la potestà legislativa del Governo[5]. Un anno di dibattito parlamentare, che aveva anche portato alla modifica di alcune disposizioni è stato posto nel nulla. Ma oltre al metodo, il dissenso è stato ed è anche sul merito del provvedimento, nella consapevolezza che la prassi dei c.d. “pacchetti sicurezza” non sia certo una novità; essa è stata più volte adottata in passato per interventi marcatamente punitivi, con sanzioni sempre più elevate, con divieti di bilanciamento tra circostanze, con automatismi legati alla recidiva (per indicare tre ambiti nei quali più volte è poi dovuta intervenire la Corte costituzionale ad annullare disposizioni contrarie ai principi di proporzionalità, di individualizzazione della pena, di finalità rieducativa delle pene). La contrarietà nel merito si incentra, in sostanza, a prescindere da ogni valutazione circa le “questioni”, i “fenomeni” considerati nel provvedimento, sul fatto che esso sia stato presentato come volto ad affrontare nel suo complesso temi legati alla sicurezza, ma che in concreto non incida minimamente sulla sicurezza. Questa è una nota comune, volgendo lo sguardo solo poco indietro, con il cosiddetto Decreto Caivano, dichiaratamente rivolto al “contrasto al disagio giovanile, alla poverta’ educativa e alla criminalita’ minorile”, ha invece creato, aumentando la pena per il reato di cui all’art. 73 co. 5 DPR 309/90 e diminuendo le soglie di applicabilità della custodia in carcere per i minori, un gravissimo problema in ordine alla gestione degli IPM, che non hanno mai sofferto del sovraffollamento attuale[6]; oppure che, vietando la messa alla prova per una serie di reati, ha tolto la speranza di percorsi di reinserimento a ragazzi portatori di un disagio certamente affrontabile con strumenti diversi rispetto al carcere[7]. Ma, voltandosi appena un poco più indietro, è evidente come analoga distonia tra proposito dichiarato ed effetti concreti hanno avuto le normative con le quali si sono introdotti l’omicidio “nautico” o l’omicidio “stradale”, normative che rientrano in quello che il professor Sgubbi aveva, con una efficace espressione, definito “legislazione penale compulsiva”[8], questione attuale come non mai e che si ripropone ora con la disciplina relativa al cosiddetto “femminicidio”. La parossistica legislazione del penale sostanziale, con norme simboliche che creino la percezione di un rimedio istantaneo nell’opinione pubblica, non vede per fortuna analoghi interventi in materia processuale, dove la torsione dei meccanismi per “combattere” fenomeni come la mafia o il terrorismo ha dato luogo in passato a interventi che dall’emergenza si sono via via spostati sul piano della regola; segnalo però che quell’unica norma processuale legata alla occupazione abusiva di immobili, il nuovo art. 321 bis c.p.p., prevede una misura di rilascio immediato coattivo che segue una procedura e tempistiche assolutamente distanti rispetto ai principi di sistema relativi alle misure idonee ad incidere direttamente sulla libertà del soggetto “rimosso” dall’immobile. Ci si deve augurare che non divenga un modello da estendere. In sostanza, il decreto 48 del 2025, ora convertito nella legge 80, ha certamente un carattere illiberale, discriminatorio e criminogeno. Il  diritto penale è usato come strumento di propaganda. Gli esempi sono numerosi: ci sono nuovi reati, nuove aggravanti, aumenti di pena, evidenti sproporzioni sanzionatorie tra fattispecie (occupazione abusiva punita con una pena sovrapponibile a quella previste ad esempio per l’abbandono di persone incapaci con conseguenza lesioni gravi o morte, oppure per il sequestro di persona, o per l’omicidio colposo con la violazione delle norme antinfortunistiche). Vi è poi un’altra linea, quella del potenziamento della tutela delle forze dell’ordine, che “hanno sempre ragione”[9]. Vi è una criminalizzazione particolarmente intensa della protesta, che non ha nulla a che vedere con la sicurezza, soprattutto rispetto a forme di protesta tradizionalmente pacifiche come le occupazioni di vie di comunicazione al fine di ostacolare la circolazione, ovvero l’accattonaggio con minori fino ai 16 anni. Comportamenti riprovevoli o forse disturbanti ma certo non legati alla sicurezza, quanto piuttosto a quel tipo di fastidio che si ritrova nelle ragioni fondanti i provvedimenti che hanno adottato le cosiddette “zone rosse” nelle grandi città; si vogliono rimuovere dalla vista categorie di persone che disturbano, che non piacciono, che esprimono disagio o

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L’«UNICA SOLUZIONE POSSIBILE»… È UN’ALTRA. ANCORA CONTRO LA TORTURA

di Marina Lalatta Costerbosa* – Nel suo libro Salvare una vita si può, il filosofo utilitarista Peter Singer scrive: «Prendiamo come esempio l’argomentazione secondo cui la tortura è una pratica da condannare in qualunque caso. Vista la ben documentata propensione di carcerieri e polizia a compiere atti di violenza sui prigionieri e la bassa probabilità di ottenere informazioni utili per mezzo della tortura, sembra verosimile che condannando in toto tale pratica si raggiungano i risultati migliori. Tuttavia, potrei argomentare che se mi trovassi nella assai improbabile condizione in cui solo torturando un terrorista sarebbe possibile evitare l’esplosione di una bomba atomica nel centro di New York, sarebbe mio dovere torturare il terrorista. A volte il mio dovere di individuo non coincide con ciò che prescrive il migliore dei codici morali»1. In una prospettiva simile incontriamo anche la tesi di Michael Walzer sul politico dalle mani sporche. Walzer, nel suo Political Action: The Problem of Dirty Hands, capovolge le note pagine del saggio Sulla pace perpetua nelle quali Kant ci offriva una visione alta della politica e della filosofia proponendone l’intreccio, sì da favorirne il reciproco sostegno. Come aveva osservato in una sua intensa intervista quasi due secoli dopo Hannah Arendt,  Kant è stato il filosofo anche autenticamente «politico»2. Per Kant il politico, il «politico morale», nulla ha a che fare con il «moralista politico». Il politico “morale” è colui che tenta di costruire e di sostenere la pubblica libertà di espressione e di pensiero per ogni cittadino, la «libertà della penna», al fine di creare quelle condizioni esterne di possibilità (il diritto) in grado di assicurare il rispetto di ciascuno nella sua autonomia. In una sorta di eroicizzazione del politico disposto a «intrare nel male, necessitato», secondo Walzer, il “politico morale” è, al contrario, disposto a ricorrere, ove indispensabile, anche alla spregiudicatezza, persino alla tortura. Anzi, il politico “morale” lo si riconoscerebbe per lui proprio dalle «mani sporche», che denoterebbero non illegittimità, bensì assenza di ipocrisia e assunzione di responsabilità3. A essere così capovolto è il ragionamento kantiano, e pure l’intendimento di Sartre sotteso al dramma teatrale del 1948 «Le mani sporche», in cui veniva sollevato il problema relativo alla possibilità di esercitare il potere in modo innocente. La risposta di Sartre, con riferimento specifico alla tortura, era stata consegnata alla nota introduttiva di Tortura, la testimonianza tristemente toccante del giornalista Henri Alleg, il racconto delle torture da lui subite in Algeria per mano francese4. È un testo prezioso, in cui Sartre denuncia la sistematica e devastante futilità della tortura, «vana furia, nata dalla paura: si vuole strappare ad una bocca, in mezzo alle grida e ai rigurgiti di sangue, il segreto di tutti. Inutile violenza: che la vittima parli o che muoia sotto le torture, l’innumerevole segreto è altrove, sempre altrove, fuori di portata. Il carnefice si trasforma in Sisifo, se applica la question dovrà sempre ricominciare» 5. Si tortura per torturare, il suo scopo è solo apparentemente legato al contenuto di verità delle informazioni o alla loro utilità. È esibizione tremenda di potere fine a se stessa, destinata a reiterarsi. Nella stessa scia di Walzer, e più di recente di Singer, si era collocato invece in passato Niklas Luhmann. In una conferenza tenuta a Heidelberg nel 1992, il noto sociologo aveva proposto l’ormai consueto scenario tipico dell’argomento della bomba a orologeria, ritraendo una grande quantità di terroristi (di destra e di sinistra) in possesso di diverse bombe atomiche, pronti a usarle6. Su questo sfondo egli arrivava a formulare la domanda cruciale e, dal suo punto di vista, solo retorica, relativa a cosa faremmo se ci trovassimo in quella situazione. La conclusione è che accederemmo al terreno della tortura, dimostrando coi fatti che nessuna norma possa più dirsi valida in senso assoluto, neppure quella che vieti il ricorso alla tortura. Evidente qui la doppia fallacia dell’argomentazione: da un lato, la fallacia dell’analogia tra l’individuo privato e lo Stato (di diritto), e dall’altro, la fallacia dello scenario apocalittico, immaginato nella fantasia per trarre conclusioni valide nella realtà.  Come è noto, sono numerosi gli argomenti che nel dibattito internazionale, in corso da più di vent’anni, vengono avanzati per sostenere la compatibilità della tortura con un diritto democratico. Altrettanti e più forti sono però i controargomenti che si possono presentare per confutarne la correttezza e l’ammissibilità, logica e politico-morale7. Tra questi vorrei qui soffermarmi soltanto su due falsi argomenti, forse tra quelli che più di frequente ricorrono, mostrando la loro grande capacità persuasiva; inossidabili nonostante l’intrinseca precarietà teorica. Sono gli stessi falsi argomenti che vengono utilizzati spesso per giustificare le guerre, le presunte guerre “giuste”. Il primo è stato definito «argomento dei danni collaterali». Così lo descrive Ernesto Garzon Valdés nel suo bel saggio Guerra e diritti umani. «L’espressione “danni collaterali” – afferma – è un eufemismo per designare la morte di civili innocenti e la distruzione di obiettivi non militari come scuole, ospedali, musei o fabbriche destinate a una produzione non militare. Il ricorso all’argomento dei “danni collaterali” è una variante dell’argomento del doppio effetto che consente di giustificare un qualsiasi danno, purché l’intenzione del soggetto agente non sia di provocare un danno, bensì quella di perseguire un bene. La debolezza morale di questa argomentazione è nota»8. In questo contesto Garzon Valdés introduce l’argomento per contestarne la validità se usato in particolare per legittimare guerre d’intervento umanitario; la stessa obiezione che avanza per questo caso vale tuttavia senz’altro quando essa viene impiegata a favore della tortura in un contesto democratico. Si tratta di un vecchio argomento, risalente persino all’etica tomista, ma, appunto, in un ambito discorsivo e teorico ben diverso, fondato su presupposti teologici e metafisici. Se trasferito su di un terreno che non può essere né l’una cosa né l’altra, pena l’inattuale uscita da uno scenario politico e giuridico laico e democratico, non può che cedere a fronte dell’obiezione secondo la quale «contro l’’argomento dell’irrilevanza dei danni collaterali‘ si può muovere l’argomento della fallacia morale del “doppio effetto”»9, della sua non pertinenza, giusta la sua implicita, ma costitutiva, relativizzazione

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TORTURA UNO SGUARDO DAL PONTE

di Tullio  Padovani* –  Sommario: 1. La fine del processo ordalico. – 2. L’introduzione della tortura giudiziaria. – 3. La resistenza alla sua eliminazione e forme di sopravvivenza. – 4. La Convenzione internazionale del 1994 e la sua problematica attuazione nell’ordinamento italiano. 1. La tortura è un mostro che ha dominato la scena del processo penale per molti secoli, dopo esservisi introdotta sulla scia di una grande riforma di civiltà: mai forse l’eterogenesi dei fini ebbe modo di esprimersi con più paradossale inversione. Prima che la tortura fagocitasse nel giudizio penale i mezzi di ricerca della prova, la decisione sulla responsabilità o la risoluzione del conflitto giudiziario era infatti basata sul sistema delle ordalie, e cioè su una procedura probatoria il cui esito veniva affidato al “giudizio di Dio”, espresso mediante un giuramento, un duello, oppure sottoponendo una delle parti, o entrambe, ad una situazione di grave pericolo personale. L’esito della prova determinava la risoluzione della controversia e, comunque, il contenuto simmetrico della decisione. Il presupposto dell’ordalia era pertanto costituito da una sorta di “scommessa” religiosa: Dio avrebbe salvato l’innocente, identificando il responsabile. Di qui la necessità di un appropriato rituale che corroborasse la dimensione “religiosa” e ne assicurasse l’efficacia decisoria: il necessario intervento di un chierico, la somministrazione preventiva dell’eucarestia e la benedizione delle armi. Il progresso segnato dalla civiltà dopo l’anno mille consentì di scorgere, con evidenza progressivamente crescente, l’assurdità blasfema di un simile sistema processuale. Il passo decisivo per il suo superamento fu compiuto da papa Innocenzo III, uomo di profonda cultura, con il IV Concilio Lateranense del 1215. Tra le molte decisioni destinate ad avere stabile ripercussione nella struttura della Chiesa (tra le molte il celibato obbligatorio dei preti), il capitolo XVIII delle deliberazioni conciliari sancì anche il divieto tassativo ai chierici di prestare il proprio ministero per lo svolgimento di un rito ordalico, che, in questo modo, veniva privato del sostegno “religioso”. Avrebbe certo potuto sopravvivere ugualmente in gestione “laica”, anche se con minore “dignità”, ma a scongiurare una tale persistenza (probabilmente manifestatasi dopo l’adozione del divieto rivolto ai chierici), intervenne il Concilio di Valladolid, convocato da Giovanni XXII nel 1322, il cui capitolo XVII comminò la scomunica latae sententiae a chiunque avesse preso parte ad un giudizio ordalico. La portata generale del divieto e la sua sanzione da parte della Chiesa nei confronti della totalità dei fedeli schiudeva così le porte della modernità. L’ordalia, riconosciuta come una patente violazione di una prescrizione del decalogo: non nominare il nome di Dio invano, si profilava così in tutta la sua dissennata infondatezza. Non potendo in alcun modo garantire l’intervento di Dio nell’esito della prova, esponeva gli innocenti al rischio di un’ingiusta condanna, mentre offriva ai colpevoli l’opportunità di un arbitrario salvacondotto. Peraltro, la struttura dell’ordalia sopravvisse, sotto diverse spoglie, in quelli che diventeranno gli ordinamenti di common law. La forza soprannaturale sarà sostituita dalla forza dei cittadini riuniti: la giuria, composta da dodici persone, membri della stessa comunità cui appartiene l’imputato (e, quindi, suoi «pari»), chiamati a pronunciare un giudizio unanime, dopo aver assistito ad un “duello” giudiziario da parte di accusa e difesa rispettivamente impegnate nell’esibizione delle prove a carico ed a discarico in presenza e sotto il controllo di un arbitro imparziale: il giudice. Il numero (dodici erano gli apostoli) e l’esito (la convergenza unanime delle opinioni) “assicuravano” la fondatezza del verdetto immotivato, che appariva quindi assunto all’esito di uno scontro che, in termini simbolici, rispecchiava e riproduceva l’originario duello ordalico. 2. Ben diverso fu l’esito dell’abolizione del giudizio ordalico nell’Europa continentale, dove si afferma l’idea che la giustizia si legittima soltanto se il suo fondamento è costituito non da una verità per così dire “stipulativa”, raggiunta all’esito di una contesa giudiziaria attraverso il verdetto unanime della giuria, ma da una verità “materiale” intesa come obiettiva adaequatio intellectus et rei. La sua ricerca viene perciò affidata ad un funzionario pubblico qualificato – il giudice – che la ricercherà secondo un metodo razionale. Il sistema probatorio disponibile appare tuttavia periclitante: le prove dirette non sono sempre disponibili; quelle indirette sono sempre inaffidabili. Il criterio di risoluzione del dubbio si staglia all’orizzonte mediante il recupero di un vetusto istituto già noto al diritto romano, ma progressivamente emarginato dal sistema giudiziario: la tortura probatoria, che si inserisce, se non come esito ineludibile, certo come strumento ritenuto consentaneo all’obiettivo primario assegnato al nascente processo inquisitorio: per l’appunto, la ricerca della verità materiale. Molto rapidamente la tortura entrò dunque a vele spiegate nel processo penale dell’Europa continentale e vi permase sino al XVII secolo, con risultati a dir poco rovinosi. In effetti, la percezione dell’inaffidabilità delle dichiarazioni ottenute attraverso i tormenti apparve chiara anche prima che la riforma illuministica la denunciasse con impeto e vigore, determinando la soppressione dell’odioso istituto. Ma il valore simbolico della confessione, anche se ottenuta all’esito di tormenti reiterati e insopportabili, rintuzzò a lungo le obiezioni razionali opposte a una tale barbarie. In realtà, poiché la tortura avrebbe dovuto essere disposta solo in presenza di indizi qualificati di reità, la sua successiva adozione finiva col costituire, in termini di costruzione dell’accusa, solo una sorta di “conferma”. Ma come ha giustamente rilevato Antoine Garapon (Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, 2007, p. 150), «il processo inquisitorio somiglia a una scommessa progressiva sulla colpevolezza dell’imputato»: ogni sua fase trae fondamento dalla precedente e ne convalida la prospettiva, per cui gli indizi sufficienti a torturare corroborano e convalidano la confessione, pur estorta tra atroci dolori. Sintetizzando le ragioni di fondo della battaglia contro la tortura giudiziaria Cesare Beccaria, nel XVI capitolo Dei delitti e delle pene, scriveva che essa «è un mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti». D’altra parte, l’unanimità della condanna si spezza quando si tratta di valutare la plausibilità di una particolare forma di tortura, compresa nella formula quaestio in caput sociorum, applicata a chi avesse già confessato la propria responsabilità (o fosse raggiunto da prova certa di essa), per indurlo a rivelare i nomi dei complici la

TORTURA UNO SGUARDO DAL PONTE Leggi tutto »

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