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USURA E REATI “A DUPLICE SCHEMA”: QUANDO IL TENTATIVO È GIÀ CONSUMAZIONE. UN MODELLO ALTERNATIVO È POSSIBILE?

di Pietro Luigi Riillo* – SOMMARIO: 1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie – 2. Il tentativo – 3. Un modello alternativo – 4. La replicabilità del modello nelle fattispecie corruttive, ma non in quella concussiva o di induzione indebita ex art. 319 quater c.p. – 5. Conclusioni.   1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie Il reato di usura, disciplinato all’art. 644 c.p., può essere delineato attraverso due aspetti caratterizzanti: il primo relativo alla fissazione di una soglia legale oltre la quale è da ritenersi integrata la presunzione di usurareità del tasso; il secondo, invece, concerne l’eliminazione – attraverso l’iter riformatore degli anni ‘90 – del requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno del soggetto passivo (e delle sue condizioni di difficoltà economiche), rinvenibile ora nella circostanza aggravante di cui all’art. 644, comma 5, n. 3, c.p. La norma punisce chiunque “si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità[i], interessi o altri vantaggi usurari”. Prima dell’entrata in vigore della L. 7 marzo 1996 n. 108, dottrina e giurisprudenza fissavano la consumazione del delitto di usura attraverso la “stipula” dell’accordo usurario[ii]. L’effettivo versamento degli interessi, d’altra parte, rappresentava una (eventuale) consecutio post-factum. Di diverso avviso – a seguito dell’introduzione dell’art. 644-ter c.p.[iii] – la giurisprudenza formatasi in ordine al momento consumativo della fattispecie. Difatti, qualora alla promessa seguisse poi una dazione “effettiva” (anche se rateale), quest’ultima – in quanto porzione del fatto – deve essere considerata parte integrante della fattispecie concreta[iv]. Alla luce di ciò, parrebbe giustificata l’adozione dottrinal-giurisprudenziale circa la natura a duplice schema del delitto in esame, potendosi configurare sia un “modello unitario” della condotta, allorquando alla promessa di versare interessi o vantaggi usurari (ed alla relativa accettazione) non seguisse la dazione vera e propria, e sia attraverso il modello “a condotta frazionata” (di natura eventuale), incidente sul calcolo della prescrizione e, conseguentemente, pure in ordine al tempus commissi delicti[v]. Sul medesimo schema distintivo si incastona, altresì, la duplice natura di reato di pericolo o di danno della fattispecie in esame. La struttura oggettiva del reato, difatti, alla luce del proprio carattere mutevole, fa dipendere la propria realtà naturalistica in ordine alla possibilità che la condotta si sia limitata alla sola accettazione della promessa da parte dell’agente (in tal caso ci si troverebbe di fronte ad un reato di pericolo), o all’eventualità che, dopo l’accettazione della promessa, sia avvenuta la dazione vera e propria (in un’unica soluzione o ratealmente), di tal guisa si avrebbe la tramutazione, post-factum, in reato di danno. Il legislatore, pertanto, ha scelto di punire già la fase (strumentale) della stipulazione dell’accordo, quale momento perfezionante la fattispecie, a nulla rilevando, in termini di punibilità, se ad essa seguisse (o addirittura potesse seguire), la dazione economica vera e propria. Il disvalore perseguito dalla norma risiede, dunque, semplicemente nella dazione o nell’accordo di corrispondere interessi o vantaggi usurari, supportato sul piano soggettivo dalla consapevolezza (dolo generico) dell’agente di superare il tasso soglia stabilito dalla legge (usura “in astratto”) o dalla sproporzione tra la prestazione fornita e la controprestazione richiesta (usura “in concreto”). Questo avviene a prescindere dall’iniziativa del reo nel promuovere l’operazione illecita di finanziamento e dall’eventuale accettazione volontaria delle condizioni usurarie da parte della vittima. Più articolato appare, peraltro, eseguire una ricognizione in ordine al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Non è univoco, difatti, capire quale sia il bene che la norma ha inteso porre alla sua tutela anticipata. Sul punto, la questione non ha trovato soddisfacimento neppure a seguito della riforma del 1996. Secondo un orientamento dottrinale prevalente, occorre ritenere come il bene giuridico non debba individuarsi nel patrimonio individuale della persona – fisica o giuridica[vi] che sia – bensì nella tutela del mercato creditizio[vii] o, in alternativa, nella correttezza dei rapporti economici[viii] o delle obbligazioni nascenti dai rapporti di credito al fine di porre un limite al costo del denaro[ix]. Inoltre, prendendo le mosse dal testo normativo dell’art. 644 c.p., la Corte di Cassazione, Sez. II, ha osservato[x] come “ai fini dell’integrazione del delitto di usura non è richiesta una condotta induttiva da parte di chi pone in essere la condotta usuraria, rilevando unicamente l’usurareità oggettiva delle condizioni pattuite”. All’interno del provvedimento dei giudici di legittimità, è stato pertanto escluso che ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo della fattispecie, ricorra la necessità che il soggetto agente debba realizzare una qualche condotta “preparatoria” di natura induttiva, neppure di tipo intimidatorio[xi]. Di tal guisa, è l’accordo tra le parti a rappresentare l’elemento costitutivo della fattispecie. Sul punto, il Supremo Consesso – nella medesima pronuncia – teneva a precisare come “il nucleo essenziale dell’elemento oggettivo consiste ora nel «farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità»” e che “nonostante il fatto che la formulazione legislativa «si fa dare o promettere» sembri presupporre l’iniziativa dell’usuraio, non rileva neppure il fatto che l’iniziativa di dare il via alla negoziazione usuraria sia stata presa dal soggetto che ha necessità del prestito”. Pertanto, esclusa dalla condotta tipica ogni genere di attività “pre-contrattuale” – l’attuale struttura oggettiva del reato di usura si sviluppa attraverso diverse fasi, alcune delle quali penalmente irrilevanti ed altre, invece, determinanti l’effettiva consumazione del reato.  La fase preliminare può consistere sia nell’attività di procacciamento – ossia nella ricerca attiva del soggetto agente, disposto a concedere denaro a condizioni usurarie – e sia nell’attività di ricerca del capitale a interessi usurari da parte del “soggetto debole” del contratto. Tali attività, pur essendo potenzialmente sintomatiche di un contesto illecito, non hanno rilevanza penale diretta, sebbene possano giustificare l’applicazione di misure di sicurezza nei confronti del soggetto agente. Successivamente, si verifica la fase della trattativa, nella quale le parti avviano un negoziato circa le condizioni del contratto usurario. Anche in questa fase, l’ordinamento non attribuisce rilevanza penale alla condotta, trattandosi di una mera negoziazione priva di effetti giuridici vincolanti, fatta sempre salva l’applicabilità di misure di sicurezza nei confronti dell’agente. La successiva

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LE RAGIONI GIURIDICHE CHE IMPONGONO DI SEPARARE LE CARRIERE DEI MAGISTRATI

di Nico D’Ascola* SOMMARIO 1.QUANDO SORGE LA QUESTIONE 2. COSA APPARVE URGENTE PROPORRE 3.AUTONOMIA E INDIPENDENZA COME PRINCIPI DA DECLINARE, NON SOLO ALL’ESTERNO, MA ANCHE ALL’INTERNO. IL RUOLO “POLITICO” DELL’UNIONE 4. LA SEPARAZIONE DELLE CARRIERE È GIÀ IN COSTITUZIONE 5. LA IMPARZIALITÀ DEL GIUDICE 6. CARRIERE UNITARIE COMPATIBILI CON IL CODICE DEL ’30, NON CON QUELLO DELL’88 7.GLI ATTUALI PUBBLICI MINISTERI SAREBBERO OTTIMI GIUDICI? 8.IL PERICOLO DI UNA OPPOSIZIONE STRUMENTALE 9.L’UNICA OPINIONE CONTRARIA CON LA QUALE CONFRONTARSI 10. I RISCHI CONNESSI ALLE SCELTE SIN QUI ADOTTATE DALLA MAGISTRATURA   1.QUANDO SORGE LA QUESTIONE Inizio con una rivendicazione. La separazione delle carriere è patrimonio intellettuale e di cultura giuridica esclusivamente riferibile all’Unione delle Camere Penali. Si deve, infatti, a quello straordinario e irripetibile laboratorio di idee che fu l’Unione nel corso degli anni ’90, il merito di averne compreso la necessità di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, al solo fine di realizzare un processo penale davvero giusto. Ciò perché era apparso evidente che le riforme ordinamentali costituivano l’imprescindibile presupposto di quelle processuali, altrimenti destinate al fallimento. A quel progetto non fu nemmeno estranea una lucida analisi di natura politica, generata dalle strette relazioni che legano la politica stessa al diritto in generale e al diritto penale in particolare. Non pare dubitabile, infatti, che individuare il punto di equilibrio del conflitto tra autorità e libertà, questione cruciale per noi avvocati penalisti, è questione di competenza esclusivamente politica. Punto di equilibrio che contribuisce a delineare il tasso di effettiva democrazia di una Nazione. Della separazione delle carriere dei magistrati, se ne era parlato intorno alla seconda metà degli anni ’80, a margine di un congresso, mi pare fosse quello di Bari, in previsione della riforma del codice di procedura penale. All’epoca, per le ragioni che spiegherò in seguito, non se ne poteva percepire tutta l’importanza, che fu evidente dopo la riforma del codice di procedura penale. Gli anni ’90 si conclusero con la storica approvazione del nostro art. 111 Costituzione, alla quale, però, non seguì alcuna seria riforma ordinamentale, data l’ostinata opposizione della magistratura e il disinteresse, all’epoca, della politica. A quelle giunte io ho avuto l’onore di partecipare, insieme a indimenticabili amici, molti dei quali ci hanno lasciato. Pertanto, posso testimoniare e scrivere dando voce anche a loro. Prima di farlo, ricordo a tutti ancora una volta che bisogna completare quel percorso. Percorso che comprendeva sin da allora la necessità di una tutela costituzionale per il nuovo codice, iniziativa che ci costò una battaglia durissima e l’accusa di essere peggiori dei terroristi, nonché un adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo sistema processuale.   2.COSA APPARVE URGENTE PROPORRE In quegli anni capimmo velocemente diverse cose. In primo luogo che il codice dell’88 si reggeva su basi fragili e malferme. Era particolarmente indifesa la linea di confine che separava il sapere investigativo del pubblico ministero, dal sapere a formazione progressiva del giudice, fondato sul contraddittorio. Più precisamente il codice difettava di un ombrello di protezione costituzionale rispetto ai prevedibili aggiramenti e alle manomissioni delle quali sarebbe stato oggetto. I rischi già si profilavano. Il sospetto fu poi confermato dalla sentenza n°254/92 della Corte costituzionale la quale aveva rovesciato la struttura del codice, frantumando la indispensabile separazione tra indagini e giudizio. Capimmo pure, per come ho già ricordato, che l’ulteriore e indispensabile passaggio era costituito dalla separazione delle carriere, senza la quale il principio del contraddittorio sarebbe stato inevitabilmente svuotato di significato. Il giudice, infatti, non sarebbe mai stato terzo ed equidistante nel suo rapporto con la difesa e l’accusa, anzi sarebbe stato attratto in questa ultima orbita. La necessità di un giudice super partes sarebbe rimasta inattuata se giudice e pubblico ministero avessero continuato ad avere interessi comuni, carriere altrettanto comuni e interscambiabili. Insomma, fu chiara la incoerenza tra il nuovo codice e l’assetto dell’ordinamento giudiziario che metteva insieme giudice e pubblico ministero. La separazione tra le due storiche articolazioni della magistratura ci sembrò necessaria proprio per garantire il funzionamento di un sistema processuale, sia pure solo tendenzialmente accusatorio e misto. Proprio per questa ragione nessuno pensò a una riforma punitiva, per come oggi si dice, né tantomeno limitativa delle prerogative costituzionali di autonomia e indipendenza.   3.AUTONOMIA E INDIPENDENZA COME PRINCIPI DA DECLINARE, NON SOLO ALL’ESTERNO, MA ANCHE ALL’INTERNO. IL RUOLO “POLITICO” DELL’UNIONE Capimmo pure che autonomia e indipendenza della magistratura erano garanzie irrinunciabili per la stessa difesa penale. Nessuno di noi avrebbe voluto misurarsi con un pubblico ministero in grado di spendere, oltre ai suoi tradizionali e ampi poteri, anche quelli propri dell’esecutivo. Valutando oggi la questione in modo distaccato e non corporativo, bisogna ammettere che la separazione delle carriere estende il campo di applicazione dei principi di autonomia e indipendenza, anziché limitarli. Li declina, infatti, non solo all’esterno, ossia nelle relazioni tra il potere giudiziario e i restanti poteri dello Stato, ma anche all’interno. Affermandoli pure riguardo alle relazioni tra giudici e pubblici ministeri. Circostanza, questa, che semmai incrementa e di certo non riduce le prerogative della intera categoria, scolpendone con precisione le differenze non solo funzionali. Tuttavia sbagliammo previsione, come ho già anticipato, quando pensammo che la separazione delle carriere, anche se accompagnata dalla estensione, al pubblico ministero separato, delle garanzie di autonomia e indipendenza, per come noi sin dall’inizio avevamo pensato, avrebbe eliminato ogni resistenza della magistratura. In altri termini, la mancanza di tutela costituzionale per il nuovo codice e l’evidente disallineamento tra quest’ultimo e l’assetto dell’ordinamento giudiziario, proprio perché fatali per il codice e per la stessa sua sopravvivenza, ci sembrarono punti talmente condivisibili da meritare un generalizzato consenso. Ma così non avvenne. Fu buona fede avere pensato che tutti avessero interesse a un sistema processuale effettivo e coerente. Le resistenze all’epoca incontrate (ed oggi manifestate con maggiore forza) ci persuasero del contrario. Le battaglie di quegli anni furono precedute dal maturare della convinzione che per l’Unione fosse necessario attribuirsi una funzione politica, reclamando per l’avvocatura penale, strumento insostituibile per la difesa dei diritti dei cittadini, il ruolo di interlocutrice nei processi di trasformazione del

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QUELLA CHIMERA DELLA “CROSS EXAMINATION” NELLA PRASSI DEL PROCESSO PENALE ATTUALE

  di Pasquale Foti* –    La cross examination, o esame incrociato, rappresenta uno dei momenti cruciali del dibattimento penale, consentendo il confronto diretto tra le parti e offrendo garanzia di imparzialità nel processo. Nel contesto del sistema processuale italiano, essa trova il proprio fondamento normativo principalmente negli articoli 498 e 499 del Codice di Procedura Penale (CPP), ma è profondamente influenzata anche dai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111 della Costituzione italiana. È l’articolo 498 CPP che stabilisce le modalità con cui le parti possono procedere all’esame diretto dei testimoni, fissando criteri di pertinenza e rilevanza delle domande al fine di assicurare una dialettica ordinata e funzionale alla formazione della prova. L’articolo 499 CPP si pone quale norma cardine in tema di controesame, riconoscendo alle parti il diritto di porre domande volte a verificare l’attendibilità delle dichiarazioni rese, in conformità al principio del contraddittorio quale pietra angolare del giusto processo. Il giudice, nel sistema italiano, è chiamato a svolgere un ruolo di garanzia e controllo, evitando di assumere una funzione investigativa o eccessivamente interventista. Egli può porre domande solo dopo che le parti hanno esaurito i propri quesiti (art. 506 CPP), con l’obiettivo di chiarire eventuali ambiguità o lacune emerse nel corso dell’esame. Questo limite è essenziale per preservare il principio di terzietà del giudice, sancito dall’articolo 111 della Costituzione e rafforzato dal diritto europeo (art. 6 CEDU). Nel paradigma del processo accusatorio, il giudice è chiamato a essere custode dell’equilibrio processuale e garante della parità delle armi tra le parti. Ogni sua iniziativa probatoria deve essere circoscritta a esigenze di integrazione probatoria strettamente necessaria, pena il rischio di alterare la percezione di imparzialità e il naturale svolgimento del contraddittorio. Un intervento eccessivo e invasivo del giudice nell’ambito della cross examination potrebbe tradursi in una compromissione dell’imparzialità percepita, con riflessi negativi tanto sulla legittimità del processo quanto sulla stabilità delle risultanze probatorie. L’interazione giudiziale, in tal senso, deve essere improntata a un rigoroso equilibrio, affinché l’esame incrociato non perda la sua vocazione a momento di verifica dialettica delle prove. Eppure, ormai quotidianamente avviene che il giudice dimenticandosi di tali limiti, nell’asfissiante desiderio di fare giustizia piuttosto che amministrarla si intrometta in momenti cruciali dell’esame del teste ed ancor più nel controesame, momento unico ed ineliminabile, oltre che a volte determinante nel quale l’imputato e la sua difesa, portatori di conoscenze che il giudice e persino l’organo di accusa non dispongono, possono fare emergere gli elementi a proprio discarico, e financo l’inattendibilità e la menzogna della fonte di accusa. Quando il giudice eccede nel suo ruolo, interferendo in modo invasivo nell’esame delle parti, si producono conseguenze negative tanto sul piano pratico quanto su quello teorico. Si ha così un palese sovvertimento del ruolo delle parti. Un giudice che assume un ruolo attivo nell’indagine rischia di alterare l’equilibrio processuale, riducendo la capacità delle parti di condurre l’esame secondo le proprie strategie. Ma tale comportamento comporta persino la compromissione della sua imparzialità. L’intervento eccessivo può far emergere un’apparente parzialità, compromettendo la fiducia degli imputati e della società nella giustizia; ciò potrebbe portare alla violazione delle norme sul contraddittorio, con il rischio di vedere invalidate le prove raccolte in violazione delle regole. Calamandrei, in una visione di straordinaria modernità, ammoniva contro i rischi di un giudice che, travalicando il proprio ruolo di arbitro imparziale, si trasformi in un attore della dialettica processuale. Tale degenerazione – secondo l’autore – tradisce la logica stessa del processo accusatorio, che trova la propria essenza nell’antagonismo ordinato e regolato tra le parti. Altavilla, nel delineare il ruolo del controesame, ha messo in luce come esso rappresenti lo strumento principale per verificare l’affidabilità della prova testimoniale. Egli sottolinea che il giudice, nell’esercitare il proprio potere di intervento, debba astenersi da comportamenti che possano orientare o condizionare il contenuto delle dichiarazioni. Wellman, nella sua celebre opera sull’arte del controesame, ha esaltato l’importanza di tale istituto come momento privilegiato per smascherare le incongruenze e le eventuali falsità della testimonianza. Sebbene le sue riflessioni siano profondamente radicate nella tradizione anglosassone, esse risultano di grande utilità anche nel contesto italiano, dove il controesame si configura come il banco di prova della credibilità della prova orale. La dottrina penalistica italiana, da ultimo, ha frequentemente denunciato il rischio di derive inquisitorie nel sistema accusatorio, specie laddove il giudice assuma un ruolo iperattivo nell’esame dei testimoni. Autori quali Antolisei e Pagliaro richiamano la necessità di preservare la dialettica tra le parti quale strumento di accertamento della verità processuale, ribadendo la centralità del principio di parità delle armi. Le critiche mosse dalla dottrina penalistica e dall’avvocatura penalista, in particolare dall’Unione delle Camere Penali Italiane, evidenziano ulteriori e rilevanti implicazioni negative derivanti dall’eccessivo protagonismo del giudice nella fase della cross examination: La distorsione del Principio di Parità delle Armi: un intervento iperattivo del giudice può generare un’asimmetria processuale, ponendo una delle parti in una posizione di svantaggio rispetto all’altra. Ciò risulta particolarmente grave nei confronti dell’imputato, la cui difesa rischia di essere marginalizzata. La riduzione dell’Efficacia del Contraddittorio: il sovrapporsi del giudice all’attività delle parti può svuotare di significato il principio del contraddittorio, trasformando il processo in un’arena dominata dall’iniziativa giudiziale piuttosto che da una dialettica equilibrata. L’alterazione della Credibilità della Prova: domande formulate dal giudice in modo suggestivo o che orientano il testimone rischiano di comprometterne l’autonomia dichiarativa, con conseguente indebolimento del valore probatorio delle sue affermazioni. La percezione di Parzialità: l’avvocatura penalista ha più volte sottolineato come un giudice eccessivamente interventista possa dare adito a dubbi sulla propria imparzialità, minando la fiducia nel sistema giudiziario e, più in generale, nella giustizia. Il rischio di Annullamento delle Prove: qualora l’intervento del giudice superi i limiti posti dalle norme processuali, vi è il pericolo concreto che le prove così raccolte vengano invalidate, con gravi conseguenze sul piano dell’economia processuale e della certezza del diritto. La cross examination rappresenta un momento essenziale del processo penale, espressione massima della dialettica tra le parti e del principio del contraddittorio. Nel rispetto delle coordinate normativo-costituzionali, essa assolve una

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SEPARAZIONE DELLE CARRIERE: “DIVIETO DI TRANSITO” O “DIVIETO DI COABITAZIONE” ?

di Alberto Gullino* –   La Magistratura vi si oppone, intanto, per il timore che la separazione delle carriere possa finire con il sottomettere il PM al potere esecutivo, ma – principalmente – perché essa impedirebbe un virtuoso travaso della “cultura della giurisdizione” dai magistrati giudicanti a quelli inquirenti. Il primo argomento, sinceramente, mi pare pretestuoso: non riesco a capire come la creazione di una carriera del PM separata da quella dei giudici, e, quindi con ordinamento, disciplina, e CSM autonomi, possa determinarne la sottoposizione all’esecutivo. Si tratterebbe di una mera duplicazione dei meccanismi di garanzia attualmente previsti indistintamente per la Magistratura nella sua interezza, e quindi della replica del modello attualmente vigente, concordemente ritenuto più che idoneo a garantire autonomia ed indipendenza delle toghe: non vedo perché un modello che garantisce (forse anche troppo !) autonomia e indipendenza a magistratura giudicante e magistratura inquirente, non dovrebbe invece funzionare se replicato per la sola  magistratura inquirente. Il secondo argomento soffre, a mio avviso, di un vizio logico di fondo: quello di ritenere che la identità, rectius comunanza, delle carriere tra giudici e Pubblici Ministeri sia l’unico – o comunque il più efficace – strumento per infondere in questi ultimi la “cultura della giurisdizione”. I termini della querelle sono noti: da coloro che l’avversano si sostiene che la separazione delle carriere farebbe venir meno la possibilità – oggi assicurata – di un virtuoso travaso della cultura della giurisdizione dal giudice al PM; per converso, dai suoi fautori si sostiene che essa scongiurerebbe l’effetto inverso – e perverso – di un travaso della “cultura dell’inquisizione” dal PM al giudice. E ci si affanna a citare, da una parte esempi di atti di pubblici ministeri connotati da una sensibilità ai temi della presunzione d’innocenza ed al favor rei, certamente frutto della cultura della giurisdizione, e dall’altra esempi (invero assai più numerosi) di provvedimenti giurisdizionali intrisi di cultura inquisitoria. L’errore prospettico di una simile impostazione del dibattito risiede, allora, nell’equazione “cultura della giurisdizione = unicità delle carriere”, nel senso che l’obiettivo (indubitabilmente virtuoso ed auspicabile) di un PM quanto più possibile dotato di cultura della giurisdizione sia raggiungibile solo a condizione che egli faccia parte della stessa carriera del giudice L’argomento prova troppo, perché, già sul piano generale ed astratto, NON SPIEGA perché IL TRAVASO DOVREBBE VERIFICARSI SOLO IN UNA DIREZIONE: della cultura della giurisdizione dal giudice al PM, e non – anche, in direzione inversa – di quella dell’inquisizione dal PM al giudice. Ma, soprattutto, mi pare – in sé – profondamente erroneo l’assunto che la cultura della giurisdizione possa dipendere (per di più esclusivamente) dalla comunanza di carriera con il giudice: infatti, se cultura della giurisdizione vuol dire intima capacità di valutare i fatti con terzietà ed imparzialità, è di tutta evidenza che la comunanza di carriera, anzi, è in consustanziale contrasto con i concetti stessi di imparzialità e terzietà, perché su di essa si fonda lo spirito di “colleganza” che la connota e che, come si legge sul vocabolario della lingua italiana, vuol dire “Connessione, unione”. Non è vero, dunque, che la cultura della giurisdizione possa essere assicurata dalla comune carriera. È vero – semmai – il contrario. Se a ciò si aggiunge che la comune carriera si pone in stridente contrasto con l’art. 111 della Cost., che prevede che il giusto processo si svolga tra parti in condizione di parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale, non resta che concludere che la separazione delle carriere sia imposta dalla nostra legge fondamentale, oltre che dalla inconciliabilità tra i concetti di cultura della giurisdizione e comunanza (nel senso di colleganza) delle carriere. Né coglie nel segno l’obiezione che il tema della terzietà ed imparzialità del giudice appartiene al processo, ma non alla disciplina ordinamentale, sicché non sarebbe lecito trarne argomento a favore della separazione delle carriere. È fin troppo chiaro, al contrario, che l’ordinamento giudiziario ha motivo di esistere solo ed in quanto diretto a regolamentare l’istituzione ed il funzionamento della magistratura al fine di consentire l’esercizio della giurisdizione: che, infatti, secondo il 1 comma dell’art. 111 della costituzione, “si attua mediante il giusto processo”. Insomma, la funzione giurisdizionale, esercitata da magistrati istituiti e regolati dall’ordinamento giudiziario, viene esercitata attraverso il giusto processo. Con la conseguenza che è l’ordinamento giudiziario ad essere ancillare rispetto al processo, e a dover adeguarsi alle regole del giusto processo, non viceversa. Sicché, se il processo richiede un giudice terzo ed imparziale, è l’ordinamento giudiziario a dover subire le modifiche necessarie a garantire terzietà ed imparzialità, prima fra tutte la separazione delle carriere. Il punto dirimente, a mio avviso, è proprio questo: se cultura della giurisdizione vuol dire capacità di valutare il fatto, la prova, l’atto con terzietà ed imparzialità, sì da recte ius dicere, essa potrà anche essere favorita ed arricchita da un interscambio tra il ruolo di PM e quello di giudice, ma sempre a condizione che mai si verifichi la loro appartenenza contemporanea alla medesima carriera, cosa che costituisce – in sé – la negazione della giurisdizione. Una volta stabilito, pertanto, che PM e giudici debbano avere carriere separate (nel senso di appartenenza ad ordini distinti, ciascuno con una propria autoregolamentazione ed autodisciplina, senza possibilità di reciproche interferenze), non vi sarebbe più motivo di non consentire il passaggio da una carriera all’altra: la separazione dovrebbe consistere non nel divieto di transito da un ruolo ad un altro, ma nel divieto di regolamentazione comune delle due carriere. Una volta assicurata una effettiva reciproca autonomia ed indipendenza dei giudici rispetto ai PM e viceversa, non vedo perché non potrebbe ammettersi che un PM, appartenente alla relativa carriera, regolamentata da un proprio organo di autogoverno, possa, ad un certo punto transitare in quella del giudice, a sua volta regolamentata da un proprio organo di autogoverno, o che un giudice possa transitare nei ruoli del PM. Insomma, quando si parla di cultura della giurisdizione, non bisogna perdere di vista il primo di tali due termini: la cultura. Che è il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze

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LA QUESTIONE MERIDIONALE NELLA NARRATIVA DI SAVERIO STRATI

di Stefania Mantelli* Molti intellettuali e storici si sono occupati di analizzare e descrivere il divario tra il Nord e il Sud del nostro Paese, lo squilibrio economico, sociale e culturale dall’unità d’Italia in avanti, rappresentando un destino differente, per una stessa Nazione. Un enorme contributo, in tal senso, è stato fornito anche dalla letteratura sul Mezzogiorno. Alcuni autori più di altri, e alcune loro opere in particolare, segnano un percorso importante per la comprensione dei fenomeni che si vogliono ricomprendere nella c.d. “questione meridionale”. Tra tutti, non può prescindersi da Ignazio Silone con “Fontamara” e la storia dei “cafoni”, i contadini senza speranza; Giovanni Verga con “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”, ricompresi nell’incompiuto ciclo dei vinti; Carlo Levi con “Cristo si è fermato ad Eboli” che lo scrittore – confinato in Lucania dal fascismo – scriverà in chiave autobiografica, fornendo un affresco sulla tragica e povera vita contadina in quei luoghi magnifici; Corrado Alvaro con “Gente in Aspromonte” che narra della dura vita dei pastori, alternando un approccio moralistico ad una prosa pregna di lirismo. L’elenco, se proseguisse, sarebbe assai lungo! In questo filone, sebbene in una maniera diversa, possiamo inserire Saverio Strati, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Lo scrittore, nato a Sant’Agata del Bianco, il 16 agosto 1924, di famiglia povera, inizia a lavorare come contadino e poi operaio edile, dedicandosi solo successivamente a completare gli studi, grazie all’aiuto economico di uno zio emigrato in America. Nel ’53, durante la frequentazione della Facoltà di Lettere e Filosofia a Messina, consegna alcuni racconti al critico e docente universitario Giacomo Debenedetti e arriva così a pubblicare l’anno successivo il primo libro con Mondadori, una raccolta di dodici racconti, “La Marchesina”. Da lì inizierà la sua carriera di scrittore, con numerosi libri che lo porteranno a vincere vari premi letterari, tra cui il premio internazionale Vaillon nel 1960 e il Campiello nel 1977. Trascorre alcuni anni in Svizzera, perché tale era la nazionalità della moglie, per poi rientrare nuovamente in Toscana, stabilizzandosi a Scandicci. Il suo meridionalismo è proprio di quelli che sono partiti per necessità, che hanno ottenuto una qualche forma di riscatto dalla povertà da cui provenivano, ma che mai hanno rinnegato le loro origini. E se Corrado Alvaro, Mario La Cava, Fortunato Seminara hanno rappresentato un Sud statico e dolente, afflitto da ataviche e arcaiche tradizioni, nonché dall’ignoranza, aderendo ad una visione fatalista e pessimista del Mezzogiorno, Strati condanna l’immobilismo della gente di Calabria del tempo e incoraggia – attraverso i suoi personaggi – al riscatto, cogliendo i segni del progresso e insinuando la speranza che un cambiamento sia possibile. Pur narrando storie di miseria, arretratezza culturale, povertà e sfruttamento, davanti alle umiliazioni egli mette anche le speranze, governato dal “pessimismo della ragione, ma anche dall’ottimismo della volontà”. I personaggi dei suoi libri sono inizialmente braccianti e pastori, che tentano di lottare per una emancipazione alla quale, per le troppe avversità della vita, spesso rinunceranno. Tuttavia, nel seguito della produzione letteraria, queste figure lasceranno lo spazio all’operaio intellettuale che si ribella e cerca di cambiare il suo destino. L’autore, infatti, avanza nel suo percorso di scrittore osservando la realtà in movimento, in una chiave neorealista. Se nella raccolta La Marchesina i racconti sono ambientati nel mondo contadino, dove la classe dei nobili rappresenta nell’immaginario l’unico benessere possibile, quale alternativa alla fatica di badare agli animali e alla terra, in una realtà di arretratezza, dove si inizia a comprendere che l’istruzione può rappresentare un mezzo per vincere le ingiustizie sociali, con l’antologia Gente in viaggio prende l’avvio il tema del viaggio, per evadere, conoscere la città, il progresso per poi scoprirne le distorsioni, le superficialità, la corruzione che fanno riemergere l’autenticità delle origini. Esce, così, fuori anche il tema dell’emigrazione, come possibilità di riscatto ed emancipazione, trattata mirabilmente in molti suoi libri, da attento osservatore e protagonista allo stesso tempo di questo strappo dalla propria terra. Strati, in questa fase, sembra interessato soprattutto agli aspetti antropologici della cultura e della società calabrese, responsabili di una certa concezione della vita. Il suo realismo, infatti, riesce a cogliere lo stretto legame tra la cultura popolare e gli aspetti sociologici e storici della nostra regione. Nella sua produzione letteraria affronta, quindi, il tema dell’emigrazione, sia quella della prima parte del Novecento, determinata dalla voglia di riscatto, per cui l’America era vista come la meta da prediligere, sia quella successiva al ventennio fascista, quale fuga verso le nazioni più ricche soprattutto in Europa, toccando, con ancora maggior dolore, quella interna verso le zone più industrializzate del Paese che, rappresentando una Italia che procede a due velocità, lascia emergere la sofferenza per la scelta di lasciare indietro il Meridione, con la conseguenza di strappare le nuove generazioni alla loro terra e alle loro famiglie. Insomma, Strati esprime una narrativa impegnata, attenta al sociale, volta alla gente comune che è portatrice e destinataria del messaggio che l’autore vuole veicolare al lettore. Tenerissimo Tibi e Tascia, storia di due bambini, nel Mezzogiorno degli anni ’30, calati in un’atmosfera di innocenza e giocosità, sebbene vivano l’infanzia in un contesto miserabile e povero. Tibi riuscirà, seppur con la pena del distacco, ad emanciparsi da tanto dolore e partirà per una vita migliore; Tàscia rimarrà in una realtà di fatica e ignoranza, emblematica della sua condizione di donna nel primo dopoguerra. In a Mani vuote, il sogno del Nuovo Mondo, tanto agognato da Emilio, il protagonista, per sfuggire all’impoverimento della famiglia, a causa della morte del padre, e ad una madre autoritaria che preferisce sfacciatamente l’altro figlio, si delinea una narrazione che analizza i rapporti familiari e sociali. La vita sperata non lo renderà felice, troppi i disagi legati all’integrazione e alle difficoltà di apprendere una nuova lingua, per cui riapparirà, dimentico delle sofferenze che lo hanno portato ad emigrare, la nostalgia del rientro in Italia. In questo romanzo, come ne La Teda (dal nome della torcia di resina con cui si faceva luce nei tuguri dove uomini e animali vivevano insieme), ambientata nel

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POSSIBILI INCOMPATIBILITÀ DEL GIUDICE DELLA PREVENZIONE: ATTI ALLA CONSULTA

  di Marco Talini* La Cassazione approfondisce il tema delle possibili incompatibilità del giudice della prevenzione e rimette un’importante questione alla Corte Costituzionale. Note a Cassazione, Sezione Sesta n. 1328 del 10.9.2024, depositata il 4.12.2024 I.Il caso.Il Tribunale Collegiale di Firenze, Ufficio delle Misure di Prevenzione, richiesto dalla Procura della Repubblica di Livorno dell’emissione di misura personale (sorveglianza speciale) e patrimoniale (sequestro e confisca di un vasto compendio immobiliare e di ingenti somme di danaro), dopo aver, in un primo tempo, restituito gli atti al PM proponente ai sensi dell’art. 20 comma 2 d.lgs 159/2011, indicando specificamente le ulteriori acquisizioni istruttorie, sia in punto di pericolosità, sia in punto di accertamenti patrimoniali utili all’emissione dei provvedimenti richiesti, ricevute le integrazioni suggerite, disponeva, in identica composizione, il sequestro di tutti i beni mobili ed immobili indicati dal PM[1]. Eseguito, quindi, il sequestro, il Tribunale, sempre nella stessa composizione, apriva il contraddittorio, fissando l’udienza per la trattazione della proposta di applicazione delle misure personali e patrimoniali. La difesa, in via preliminare, invitava il Tribunale ad astenersi, assumendo che l’aver emesso il provvedimento di restituzione degli atti ex art. 20 comma 2 d.lgs 159/2001 aveva pregiudicato la sua imparzialità nel valutare il susseguente sequestro, e che, comunque, l’aver emesso, in successione, entrambi i provvedimenti di cui all’art. 20 d.gs 159/2011, lo rendeva incompatibile a valutare la richiesta di confisca di cui all’art. 25 d.lgs 159/2011. Il Tribunale non accoglieva l’invito ad astenersi. La difesa, pertanto, presentava dichiarazione di ricusazione, cui era allegata una memoria contenente l’eccezione d’illegittimità costituzionale degli artt. 34 e/o 37 cpp nella misura in cui non è prevista l’incompatibilità, e, conseguentemente, la ricusabilità del giudice della prevenzione che, investito della richiesta di sequestro, abbia restituito gli atti al PM per l’espletamento di nuove indagini finalizzate alla concessione di tale misura, e, comunque, del giudice della prevenzione che abbia emesso il sequestro a decidere sulla confisca. La Corte d’Appello rigettava la ricusazione e la difesa proponeva ricorso per cassazione.   II.La decisioneLa Sesta Sezione della Corte di Cassazione, valendosi anche del potere di esaminare direttamente gli atti quando è censurata la legge processuale (Sez. Un. 42792 del 31.10.2001, Policastro, Rv 229092), ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37, comma 1, cod. proc. Pen., in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 della Costituzione, trasmettendo gli atti alla Corte e disponendo la sospensione del giudizio in corso (Ordinanza n. 1328 del 10.9.2024, depositata il 4.12.2024, Presidente Ercole Aprile, Relatore Fabrizio D’Arcangelo). L’ordinanza si pone in rapporto di assoluta continuità con il percorso giurisprudenziale finalizzato alla giurisdizionalizzazione costituzionalmente orientata del sistema delle misure di prevenzione e lo fa intervenendo nella fondamentale materia delle possibili incompatibilità del giudice della prevenzione, al fine di garantirne, quanto più possibile, imparzialità e terzietà. Punto di riferimento essenziale è la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione 24.2.2022, n. 25951, che, come noto, superando un contrasto tra diversi orientamenti di legittimità[2], ha affermato l’applicabilità al procedimento di prevenzione del motivo di ricusazione di cui all’art. 37, comma 1 cpp – come risultante dall’intervento della Corte Costituzionale con sent. n. 283 del 2000 – nel caso in cui il giudice abbia in precedenza espresso valutazioni di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto in altro procedimento di prevenzione o in un giudizio penale. In realtà quella sentenza, ampiamente richiamata dall’ordinanza in commento, ha detto molto di più sul tema dell’estensione al procedimento di prevenzione delle incompatibilità mutuate dal processo penale. Senza negare la diversità di struttura e di scopo rispetto al processo penale, le SS.UU. hanno affermato che l’attitudine della prevenzione ad incidere su diritti fondamentali quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione (art. 2 del Prot. 4 CEDU) e il diritto di proprietà ed iniziativa economica (artt. 41 e 42 Cost., art. 1 Prot. Add. CEDU), impone di garantire e preservare scrupolosamente l’imparzialità del giudice. Pertanto: “Individuato il referente della giurisdizionalizzazione del procedimento applicativo delle misure di prevenzione e dell’estensione allo stesso dei principi del “giusto processo”, tra questi ultimi assume un valore assolutamente primario quello dell’imparzialità del giudice, il cui difetto comporterebbe lo svuotamento sostanziale del significato proprio di tutte le regole e le garanzie processuali, che si risolverebbero in un mero e formalistico simulacro privo di alcuna reale incidenza sul corretto esercizio dello ius dicere. Appare così evidente come la disciplina informatrice della materia – processuale in genere e quindi valevole anche per il processo di prevenzione ndr – deve essere idonea ad evitare che il decidente possa essere o anche soltanto apparire, condizionato da precedenti valutazioni espresse sulla medesima res iudicanda, tali da esporlo alla forza della prevenzione derivante dalle attività giudiziarie precedentemente esercitate; diversamente opinando, si finirebbe per relegare il procedimento di prevenzione in un ambito contraddistinto da minor tutela, a fronte di un sistema di garanzie che è naturalmente ed inscindibilmente connesso allo ius dicere in senso proprio che non conosce aggettivizzazioni ulteriori”. Non mancano, poi, opportuni richiami alla sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale, che, prima delle Sezioni Unite della Cassazione, sugli stessi presupposti,  aveva affermato che le misure di prevenzione personali e patrimoniali devono soggiacere al combinato disposto delle garanzie costituzionali e convenzionali  anche nel procedimento che ne disponga la applicazione, procedimento che deve rispettare i canoni generali di ogni “giusto processo” garantito dalla legge, assicurando la piena tutela del diritto di difesa del soggetto nei cui confronti la misura sia stata richiesta. Ed in tale contesto, il prerequisito dell’imparzialità e della neutralità del giudice, costituisce uno dei più rilevanti aspetti del principio del giusto processo (Corte Cost. sent 283/2000). Assai opportuno anche il richiamo a Corte Cost. n. 179 del 2024: “il processo intanto può dirsi giusto in quanto sia garantita l’imparzialità del giudice”, e l’imparzialità “non è che un aspetto di quel carattere di terzietà che connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del Giudice, distinguendola da quella degli altri soggetti pubblici, e condiziona l’effettività del diritto di azione e difesa in

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APPUNTI PER UNA VOCE SULLA LEGITTIMA DIFESA.

  di Fabrizio Cosentino* 1. L’istituto della legittima difesa è contemplato all’art. 52 del codice penale, che nella formulazione originaria recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”. Preservare sé stessi o il prossimo, da un pericolo concreto (non paventato) e presente, mantenendo un principio di proporzione tra offesa e reazione difensiva o interruttiva: questi sono i principi cardine che regolano l’ermeneutica di quella che viene considerata dalla dottrina giuridica penalistica una causa di giustificazione, scriminante o esimente, che conduce a non applicare la norma punitiva, rispetto ad un fatto che in altre condizioni, sarebbe normalmente da considerare reato.            2. L’istituto era già apparso nel codice penale sabaudo del 1859 agli artt. 559, 560 e 563. In particolare, l’art. 559 del codice penale sardo stabiliva che “non vi è reato quando l’omicidio, le ferite o le percosse sono comandate dalla necessità attuale di legittima difesa di sé stesso o di altri, od anche del pericolo in atto di violento attentato” e all’art. 560 si precisava che “sono compresi nei casi di necessità attuale di legittima difesa i due seguenti: 1) se l’omicidio, le ferite, le percosse abbiano avuto luogo nell’atto di respingere di notte tempo la scalata, la rottura di recinti, di muri, o di porte d’entrata in casa o nell’appartamento abitato o nelle loro dipendenze; 2) se hanno avuto luogo nell’atto della difesa contro gli autori di furti o di saccheggio compiuti con violenza verso le persone”. Francesco Carrara, nel suo Programma del Corso del Diritto Criminale dato alle stampe a beneficio dei propri «scolari» il 10 dicembre 1859, nel discutere intorno alla «coazione», dettava i cardini della «necessaria difesa», ponendo a fondamento di fatto dell’istituto «il timore», di un male non ancora patito[1], e sotto l’aspetto giuridico la cessazione del diritto di punire nella società (e non già che la società eserciti il diritto di punire per delega del privato). Scriveva Carrara: “con l’imporre che l’innocente si lasci uccidere, si imporrebbe un disordine, e si andrebbe così a ritroso della legge di natura che è la unica base del giure penale umano. Che se vi è disordine anche nella strage di un altro innocente (come, per esempio, avviene quando l’aggressore che si uccise era un pazzo) la parità dei disordini toglie sempre il diritto di punire, facendone cessare la causa”. Nell’opinione di Carrara chi difende la propria vita o l’altrui dal pericolo di un male ingiusto, grave e non altrimenti evitabile, che minaccia la persona, esercita un “vero e sacro” diritto, anzi un vero e sacro “dovere”, perché tale è quello della conservazione della propria persona.   La nozione di legittima difesa verrà poi introdotta stabilmente nel codice Zanardelli del 1889 agli artt. 49 e 50, distinguendo due casi: la necessità di “respingere” da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta; la necessità di salvare sé o altri da un pericolo grave e imminente alla persona, senza avervi dato consapevolmente causa, e che non si poteva altrimenti evitare (commodus discessus).   3. Il codice penale del 1930 provvederà a riformulare radicalmente la previsione di legge. Dai lavori preparatori al codice penale emanato sotto il fascismo, emerge una sostanziale avversione alle novità introdotte dal c.d. codice Rocco. In particolare, era opinione della suprema magistratura, in un’ottica di adesione – con spiacevole espressione di piaggeria – alla “nuova concezione statale del Fascismo” come negazione del contratto sociale (ovvero, in senso autoritario), che la legittima difesa meritasse di essere confinata nell’ambito della difesa personale e non di qualsiasi altro diritto. Le Corti di appello intervenute sul tema mostrarono forte preoccupazione per la «inopinata» estensione della legittima difesa ai diritti di proprietà, ritenendo “troppo lata e pericolosa la tutela accordata per la difesa di qualunque diritto” (così, ad es., si esprimeva la  Corte d’Appello di Messina). La Corte d’Appello di Napoli annotava la preoccupazione per il prospettato allargamento, laddove “rimanesse in vita il giurì, notoriamente proclive ad accedere alla richiesta di detta scriminante” (Ibid., 399). Anche la Procura Generale di Palermo, si era opposta all’innovazione, richiamando l’attenzione sulla necessità di mantenere limiti alla «incolpata tutela»: “la legittimità dell’azione, che può condurre anche alla uccisione del proprio simile, non può essere conceduta, se non quando vi sia una violenza, non il pericolo di una offesa contro cui si reagisce”. Non dissimile l’atteggiamento delle Università, mentre più aperte al dialogo appaiono le posizioni assunte dagli ordini degli Avvocati. Mentre le Commissioni Reali degli Avvocati e Procuratori di Bologna, di Genova, Trieste, Udine, Pisa e Palermo manifestavano il medesimo scetticismo, per una formula legislativa che allargava il campo fino a comprendere la difesa dei diritti di proprietà, e così anche il Sindacato degli Avvocati e Procuratori di Cagliari e Lanusei, non mancarono le adesioni al progetto innovativo. Gli avvocati di Milano, ad es., consideravano “ottimo l’art. 54, che precisa il concetto della legittima difesa e costituisce un encomiabile miglioramento in confronto alla formulazione dello stesso concetto nell’art. 49, n. 2 codice vigente”. Anche per gli avvocati di Venezia, l’estensione della legittima difesa a qualsiasi diritto, “benché osteggiata dalla Corte suprema, ci sembra approvabile: la Corte si preoccupa che l’art.54 allarghi eccessivamente i confini della difesa privata, mentre questa dovrebbe essere circoscritta al caso di attacco alla persona. È strano l’appunto della Corte Suprema che, pur vigendo l’articolo 49 attuale, aveva molte volte fatto applicazione della massima di diritto comune qui continuat non attentat la quale evidentemente è di una portata molto più ampia di quella vim vi repellere licet”. In Commissione, emersero le medesime preoccupazioni sull’eccessivo allargamento dello spazio concesso alla difesa privata, inteso come una concessione al lassismo. Nel verbale del 16 marzo 1928, il commissario Gregoraci sintetizza e ribadisce la critica: “la cosa è tanto più pericolosa, in quanto, non solo i giurati ma la stessa magistratura, è già oggi troppo proclive ad ammetterla”. Era però di contrario avviso il

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MAGISTRATI E AVVOCATI, TRA VERITÀ E GIUSTIZIA. RIFLESSIONI SPARSE.

di Francesco Iacopino* Nel nostro ambiente si afferma, simpaticamente, che avvocati e magistrati sono, da sempre, come quelle vecchie coppie di coniugi che mal si sopportano ma sono assolutamente incapaci di vivere l’uno senza l’altro. Al di là della boutade, lo stato costituzionale di diritto, fondato sugli apriori dei diritti umani, affida all’avvocato il ruolo di mediazione tra apparato giudiziario e singolo cittadino e di garanzia nella tutela effettiva dei diritti fondamentali della persona. L’avvocato ha il dovere di impegnare il magistrato, sia esso requirente o giudicante, a misurarsi con l’altro punto di vista, a confrontarsi con i risultati delle proprie azioni, perché la realtà può (e deve) essere guardata da prospettive diverse e perché nella complessità del nostro mondo è molto alto il rischio (e il prezzo) dell’errore giudiziario. L’avvocato ha, in altri termini, la responsabilità di alimentare nella giurisdizione il confronto sul terreno delle idee e dei valori costituzionali, coagulando in tale direzione – come ebbe a dire Vincenzo Maiello – le «energie migliori affinché al diritto penale di lotta si reagisca con una lotta per il diritto». Quindici anni fa Paolo Borgna, già procuratore aggiunto a Torino, per i tipi di Laterza ha pubblicato un libro intitolato «difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore». Scrive il procuratore nel Suo piccolo pampleth: «il rischio che può accecare e dannare il magistrato è quello di credere, a un certo punto, di dover non soltanto affermare il diritto ma la giustizia con la iniziale maiuscola. La storia però ci insegna – come ci ricorda Gustavo Zagrebelsky – che coloro i quali credono di aver trovato le chiavi della Giustizia e della Verità, qualunque sia il campo in cui operano, sono particolarmente esposti al rischio del fanatismo e del dogmatismo, in materia etica e politica. Perché chi pensa di aver trovato la Giustizia e la Verità prima o poi si sentirà in dovere di imporle agli altri. L’avvocato – con la sua presenza, il suo ruolo nel processo, il suo sguardo che ci osserva mentre operiamo ogni giorno – ci impedisce di cadere in questo baratro».  L’avvocato, con la sua professione di carità, nel difendere i diritti di chi si trova a tu per tu con il dolore, è lì a ricordare (a tutti) i destini di coloro che entrano nel circuito della penalità. È l’avvocato il tramite tra le carte e la vita degli altri: costantemente, assillantemente, giustamente. È lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevare il magistrato da quel peso indicibile. Ci ha insegnato Calamandrei che «l’ufficio più umano dell’avvocato è quello di stare ad ascoltare i clienti». Ecco perché, ancora una volta, ha ragione Borgna quando scrive che «l’avvocato è il miglior amico del pubblico ministero: lo aiuta a difendere la sua salute mentale», perché ciò che ci unisce è la condivisione del dolore degli altri, perché essere avvocato è una scelta di vita: un servizio in difesa della dignità dell’uomo. E allora, attingendo ancora agli insegnamenti di Calamandrei dobbiamo riconoscerci che il rispetto tra avvocati e magistrati non può che essere reciproco, perché obbedisce alla legge dei vasi comunicanti: non si può abbassare il livello dell’uno senza che si abbassi il livello dell’altro. Non è questione di rispetto della persona, perché per quello è sufficiente la buona educazione. È una questione di rispetto della funzione. Quel rispetto tra avvocati e magistrati nasce soltanto dalla consapevolezza della relazione di reciprocità che esiste tra le due funzioni.  Perché l’avvocato, innamorato del suo cencio nero, libero e indipendente, è colui il quale è chiamato a «difendere tutti» e «appartenere a nessuno», per usare le felici espressioni di Gian Paolo Zancan, avvocato e senatore della Repubblica: «ho difeso tutti, non sono appartenuto a nessuno». Tutti noi, tra gli attori della giurisdizione, dobbiamo recuperare la dimensione del ragionamento condiviso, individuare punti di incontro su cui edificare il miglioramento qualitativo della risposta alla domanda di giustizia, nella consapevolezza che la vera unità che dobbiamo perseguire e pazientemente ricercare, alimentandola anche nel discorso pubblico e nel pensiero comune, è quella tra avvocatura, magistratura e interessi del cittadino. In questa direzione l’avvocatura penalista sarà sempre francamente aperta al leale confronto e al dialogo costruttivo.    *Presidente Camera Penale “A. Cantàfora” di Catanzaro  

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LA TRASCRIZIONE È UNA PERIZIA E RICHIEDE ESPERTI CERTIFICATI

Luciano Romito* La Cassazione penale, sezione I, nella sentenza del 24 aprile 1982, n. 805, stabilisce che la trascrizione deve consistere «[…] nella mera riproduzione in segni grafici corrispondenti alle parole registrate». Inoltre, l’incarico di trascrizione viene affidato dal giudice nelle forme della perizia, e quindi il trascrittore non deve avere competenze o specializzazioni specifiche. «La perizia di trascrizione delle intercettazioni sono operazioni non di carattere “valutativo”, bensì “descrittive” e ciò esclude che la trascrizione possa essere assimilata a una perizia» (Cassazione penale, sezione VI, 3 novembre 2015, n. 44415); «la trascrizione delle registrazioni telefoniche si esaurisce in una serie di operazioni di carattere meramente materiale, non implicando l’acquisizione di alcun contributo tecnico scientifico» (cfr. Cassazione penale, sez. VI, 15/03/2016, n. 13213); «[…] non comporta l’equiparazione del trascrittore al perito, dovendo il primo – a differenza del secondo, chiamato ad esprimere un “giudizio tecnico” – porre in essere soltanto una “operazione tecnica”, non implicante alcun contributo tecnico-scientifico e connessa esclusivamente a finalità di tipo “ricognitivo”» (cfr. Cassazione penale , sez. I , 26/03/2009 , n. 26700). In ambito accademico e di ricerca, invece, sono stati sviluppati metodi e procedure per rappresentare su carta il complesso processo multimodale di una conversazione. La trascrizione diventa l’oggetto di studio dell’analisi conversazionale. La fonetica uditiva, percettiva e cognitiva concentra la propria attenzione sullo studio dei correlati acustici utili alla percezione dei suoni. Molti studi dimostrano come i suoni vengono percepiti in diverse situazioni comunicative, in particolare in vari ambienti, specialmente quelli rumorosi. Per comprendere come si sia concretizzata questa grande differenziazione tra ricerca accademica e applicazione in ambito giudiziario, è necessario approfondire due aspetti fondamentali: la magistratura e l’avvocatura sembrano nutrire una presunzione di conoscenza delle complesse dinamiche del linguaggio e della percezione, basata sull’uso quotidiano del linguaggio per comunicare. Si ritiene che, poiché le intercettazioni consistono in parole che tutti siamo in grado di ascoltare e comprendere, siamo anche capaci di trascriverle adeguatamente senza necessitare di competenze specifiche; la storia delle intercettazioni e delle trascrizioni in Italia ha indotto tutti noi a falsi convincimenti. La prima intercettazione in Italia è stata effettuata casualmente nel 1903 durante il governo Giolitti (De Giovanni, 2017). Un operatore dei telefoni ascoltò una conversazione telefonica tra un ministro e sua moglie riguardante informazioni finanziarie sensibili. Il ministro riferiva alla moglie di un imminente decreto che avrebbe fatto oscillare alcuni titoli finanziari e suggeriva il loro acquisto. Ovviamente la telefonata non fu registrata e l’operatore telefonico appuntò gli estremi del chiamante, del decreto e dei titoli azionari e li consegnò al Capo Gabinetto del Primo Ministro. La prima trascrizione in diretta di una intercettazione è di fatto un riassunto che riporta esclusivamente ciò che il trascrittore ha ritenuto importante comunicare. Questo evento determina la nascita del Servizio di Intercettazione, che ha il compito di controllare le personalità politiche. Ovviamente non è prevista la registrazione delle comunicazioni, ma l’operatore, fungendo da filtro, appunta su un foglio le informazioni che ritiene più importanti. Il personale assegnato a questo servizio è costituito da operatori abituati ad ascoltare, cioè il personale telefonico. Già da allora si richiede l’esperienza all’ascolto più che una competenza certificata. A questi operatori, in seguito, sono stati aggiunti, in qualità di ausiliari, alcuni stenografi. Questi, avendo tra le proprie competenze la scrittura veloce, possono fissare su carta tutte le informazioni più importanti. La Prima guerra mondiale vede l’istituzione del servizio IT (intercettazioni telefoniche) presso le Forze Armate. Il comando riceve dai vari centri e dalle varie stazioni un verbale che contiene le notizie più importanti ascoltate per telefono e intercettate. Il comando dell’Armata produce un riassunto che viene pubblicato in un bollettino giornaliero e inviato a tutti i comandi. Anche in questo caso nessuna registrazione, nessuna conservazione, ma solo un appunto scritto frutto di una interpretazione e di una scelta effettuata dall’operatore della singola stazione. Dopo la Prima guerra mondiale in Italia si afferma il Fascismo. Il servizio di intercettazione già fondato da Giolitti si potenzia e i controllati non sono solo i politici ma anche le sedi dei giornali e i rappresentanti delle opposizioni politiche. Le telefonate vengono stenografate, numerate progressivamente e il verbale contiene il nome degli interlocutori e un riassunto del contenuto: insomma un prematuro brogliaccio delle intercettazioni dei giorni nostri. Il 19 ottobre 1930 viene presentato il terzo codice di procedura penale. Nell’articolo 339 si riporta che «il giudice può accedere agli uffici o impianti telefonici di pubblico servizio e trasmettere, intercettare o impedire comunicazioni, assumere cognizione. Può anche delegare un ufficiale di polizia giudiziaria». Il giudice ascolta direttamente l’intercettazione proprio come fa oggi nella sua funzione di peritus peritorum, in camera di consiglio per raggiungere il proprio convincimento. Nei codici di procedura penale successivi, le intercettazioni possono anche essere ambientali, tutte devono avere una preventiva richiesta di autorizzazione e una durata massima. Cambia anche la forma del processo e l’intercettazione diventa mezzo di ricerca della prova, quindi un atto del Pubblico Ministero e non più della Polizia Giudiziaria. Nel 1993, con la legge 547, si prevede la possibilità di intercettare i flussi telematici. In questo profilo storico tracciato dal 1903 ad oggi, nulla o quasi è cambiato riguardo la figura del trascrittore e soprattutto all’equiparazione del documento sonoro a quello cartaceo. Ancora oggi, infatti, al trascrittore viene richiesta esperienza nell’ascolto e velocità nella vide-scrittura e non una competenza in ambito linguistico o fonetico. Tutto ciò, pur sapendo che l’affidabilità del documento prodotto (la trascrizione) è fortemente legata all’attendibilità di chi lo produce (il trascrittore), all’osservazione di regole e procedure standardizzate che consentono di stimarne l’autenticità, l’affidabilità, l’integrità e la possibilità di utilizzo (iso/uni 15489/2006). L’intercettazione, per sua natura, non ha forma in un documento scritto e strutturato in senso diplomatico-archivistico. La lunga tradizione di scrittura delle fonti orali e dei documenti sonori nei vari ambiti disciplinari ha causato la difficoltà del riconoscimento del documento/testimonianza come documento informativamente autonomo perché considerato come strumento di lavoro ad uso del solo ricercatore. La trascrizione non è definita nel Codice di Procedura Penale. È possibile dedurne una

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MANIFESTAZIONE A CATANIA DEI PENALISTI CALABRESI AUTORITARISMO STRARIPANTE E DIFESA NEGATA NEI MAXIPROCESSI DELLA CALABRIA GIUDIZIARIA

…Abbiamo subìto il trattamento previsto per i sospettabili quando ci hanno costretto a lasciare l’auto in aperta campagna lontano dai parcheggi dell’aula bunker di Lamezia. Abbiamo subìto il trattamento degli asserviti quando hanno imposto l’agenda ossessiva da 170 udienze all’anno in media per sostenere la marcia forzata a garanzia della permanenza in vincoli dei presunti innocenti. Abbiamo subìto il trattamento degli invisibili senza diritto di interloquire nemmeno sulle precondizioni per l’esercizio dignitoso dei diritti (affievoliti), quando ci hanno negato anche l’opportunità di esprimere il nostro punto di vista nelle sedi nelle quali venivano messe a punto le inusitate distopiche soluzioni per rimediare all’inagibilità dell’hangar lametino. Sulla testa degli imputati e dei loro avvocati anche l’obbligata migrazione di massa verso sedi lontane. Sui loro diritti si scarica il fallimento dell’organizzazione militare della giustizia penale calabrese…. Ed ancora. Abbiamo accettato le regole aberranti del processo dematerializzato e ci hanno negato anche i “diritti minorati” contemplati dal simil processo tecnologico della contemporaneità: nel sistema di gestione militare dei maxi, i numerosi colleghi che hanno chiesto di partecipare al processo a distanza, prima hanno scoperto una nuova regola, quella dell’avvocato da collegare dal carcere più vicino a casa sua (anziché dallo studio professionale come previsto dalla norma); poi, 48 ore prima dell’inizio della causa, si son visti revocare l’umiliante invito a presentarsi in carcere. Ma non perché melius per pensare sia apparsa illegale l’escogitazione, ma perché il DAP oltre a non disporre di risorse sufficienti ritiene sconsigliabile, perché pericoloso per la sicurezza, l’andirivieni di avvocati dalle salette dedicate. Dovremmo averne abbastanza. *CHIARA ED INEQUIVOCABILE LA LINEA DI TENDENZA: I DIRITTI DELLA DIFESA NEL PROCESSO A GESTIONE MILITARE SONO COMPATIBILI SOLTANTO CON LA DIFESA CHE NON LI ESERCITA; PERCHÉ SE SCEGLIE DI ESERCITARLI -ANCHE QUELLI MINIMI- SCOPRE CHE L’EFFICIENTISSIMO SISTEMA DI SMALTIMENTO DEI “NEMICI DELLA SOCIETÀ” MESSO IN PIEDI, SI INCEPPEREBBE. PER TUTTE QUESTE RAGIONI SAREMO FUORI DALL’AULA BUNKER DI BICOCCA LUNEDÌ 3 FEBBRAIO A MANIFESTARE CONTRO L’INTOLLERABILE DEGENERAZIONE DEL SISTEMA DELLA “CALABRIA GIUDIZIARIA”. ANCHE PER I GIUDICI CHE DOVREBBERO SOFFRIRE, COME NOI, LA MORTIFICAZIONE DEL LORO RUOLO, CHE NON SI PUÒ ESPRIMERE IN SINTONIA CON L’ALTA FUNZIONE CHE SVOLGONO, SE NON È GARANTITA LA DIGNITÀ DELL’IMPUTATO E DEL SUO DIFENSORE. SAREMO SIN DALLE 9.30 DINNANZI ALL’INGRESSO DELL’AULA BUNKER DI BICOCCA, ASPETTEREMO L’INGRESSO IN AULA DELLA CORTE PER AVVIARE LA MANIFESTAZIONE ATTENDENDO I COLLEGHI IMPEGNATI NEL PROCESSO CHE LASCERANNO L’AULA IN FORMA DI SIMBOLICA PROTESTA. Rassegna stampa: GAZZETTA DEL SUD CORRIERE DELLA CALABRIA LA NOVITÀ ONLINE LA NUOVA CALABRIA QUOTIDIANO DEL SUD CATANZARO INFORMA IL LAMETINO LA-C-NEWS24 RAI NEWS LA SICILIA

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