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LA BIOGRAFIA DI BERNARDINO TELESIO: APPUNTI PER LA NASCITA DELL’EPISTEMOLOGIA PROBATORIA

Vicissitudini, opera, pensiero di Pantaleone Pallone* –  Il filosofo cosentino Bernardino Telesio (1509-1588) è indubitabilmente tra i grandi pensatori del XVI secolo europeo. È il secolo nel quale il diritto, la cultura e la politica scoprono in anticipo sui tempi la contemporaneità, allungandosi fino alla critica del potere e della legislazione che nei duecento anni successivi sfoceranno nelle rivoluzioni borghesi sul piano socio-economico e nelle codificazioni, su quello delle fonti giuridiche in senso stretto. Per il giurista il Cinquecento, che Telesio percorre fino in fondo, è contemporaneamente il periodo più maturo del consolidato metodo consuetudinario-compilativo (nel 1582 la Chiesa riorganizzerà la possente tradizione del diritto canonico in un Corpus Iuris che sistematizza le norme delle epoche precedenti) e la fase delle grandi transizioni, che dimostrano i limiti e i problemi del vecchio regime. A reclamare questa svolta è in primo luogo la giurisprudenza dei tribunali. Parallelamente alle autonomie comunali e statutarie che avevano segnato l’esperienza pratica del contenzioso, almeno dal Duecento in avanti – col ruolo delle università, dei mestieri, delle corti locali – la giurisdizione si era data i rudimenti di una vivace organizzazione periferica, basata sul principio della competenza territoriale. Quando nel XVII secolo i poteri mondani si rinsaldano, accentrandosi, gran parte di quel reticolato di usi, di prassi giudiziarie, di stylus iudicandi, andrà perduta: non così, però, le infrastrutture culturali immateriali che avevano forgiato l’esperienza del diritto e la cassetta degli attrezzi di una rinnovata professione forense. L’alluvionale produzione normativa locale è quella dell’Azzeccagarbugli di circa cent’anni dopo: un affastellamento disorganico di fonti, dove la scaltrezza dell’avvocato (un misto di capacità selettiva e rinvenimento delle norme opportune) deve drammaticamente tenere giunte esigenze pratiche e malversazioni decentrate, conflitto religioso – decisivo nelle controversie in materia di status – e affermazione di una dinamica mercatoria basata, mano a mano, sugli investimenti e sui rapporti di debito-credito. Da questo punto di vista, Telesio e la sua famiglia sono, come molti esponenti della società meridionale culta, ancora espressivi dei rapporti patrimoniali preesistenti: nobili di lignaggio, legati ancora alla civiltà dei titoli accordati dal potere regio o da quello ecclesiastico, non dalle obbligazioni o dall’amministrazione fondiaria produttiva. I fratelli del pensatore cosentino attraverseranno per intero questa articolata vicenda di contesto. Nel 1564, a dar ragione alla storiografia più accreditata, Pio IV offre a Telesio stesso l’arcivescovado di Cosenza: avrebbe voluto dire, per l’A., rinunciare all’attività di conferenze, dissertazioni e pubblici confronti che da decenni contraddistingueva l’esercizio della sua notevole capacità dialettica. Guardava al (ri)nascente mondo delle accademie, entità non riconducibili alla poi stantia dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato, e invece imbevute di aspetti dell’uno e dell’altro emisfero. Nate su impulso di un associazionismo privatistico meglio formato dello stesso ceto di governo, però in grado di svolgere una funzione almeno lato sensu collettiva, che da Napoli in giù dà vita a una brillante geografia politica di intervento culturale. Rispetto a questo scenario di grandi confronti su scala continentale, per Telesio scegliere la via curiale sarebbe stata una grande comodità, ma anche una dorata prigionia. Non va dimenticato che il Nostro nel 1554 è documentatamente sindaco dei nobili, il ceto locale vagamente cortigiano, che tuttavia non riesce a difendere il proprio lucro e ciò che resta del proprio feudo (qui inteso formalmente come organizzazione proprietaria nei regni meridionali). Quanto a spirito lucrativo, del resto, è il meno abile di tutti: aspetto non da poco anche per l’amministrazione ecclesiastica. Più avveduto, invece, nell’arte diplomatica, dal momento che lo sappiamo impegnato in missioni pontificie nel Napoletano già dagli anni Trenta: il suo rifiuto verso l’episcopato non è perciò visto con ostilità, spianando invece la strada al fratello Tommaso. Un altro fratello è ucciso dopo una sommossa dei vassalli nel 1579: accusato come luterano, sfiduciato dal suo più prossimo entourage, sarà uno dei tanti lutti nella vita di Bernardino Telesio. Un bagaglio di sofferenza di cui non si riviene traccia immediata nella sua opera più celebre, di contenuto prevalentemente scientifico-pistemico (De Rerum Natura Iuxta Propria Principia), ma che ha tanti capitoli dolorosi al proprio indice: la morte della moglie nel 1561, nonché l’omicidio dell’adorato primogenito Prospero nel 1576 (in cui Telesio stesso rivedeva probabilmente il sé nobile del mezzo secolo precedente). La famiglia Telesio subisce la temperie sociale del tempo in modo quasi barometrico: è un mondo che va sfaldandosi, pur godendo ancora di taluni privilegi (Telesio aveva preso gli ordini minori, al punto che in alcuni documenti è indicato come “chierico”), e proprio per questo diffusamente avversato dagli altri attori sociali. Una plebe crescentemente ostile, disagiata, sfruttabile, facile alle sirene dei disordini – nasce più o meno in questo periodo la figura dell’arruffapopolo, del sedizioso d’occasione che approfitta dell’onda lunga di scontri e malcontenti – e una alta borghesia alleata con quella parte del notabilato di nascita che impone la riforma del governo cittadino. La vita di Telesio trova nel suo percorso teorico-speculativo una singolare forma di simmetrica conferma: scontatamente testimonianza di un certo frazionismo e declino nobiliare la prima, pionieristico di una nuova effervescenza metodologica il secondo. Lo svecchiamento epistemologico che i grandi pensatori come Bruno, Campanella e Telesio impongono al dibattito europeo ne decreta la fortuna nell’utilitarismo, nell’empirismo, di lì a breve nel pensiero illuministico (non solo anglofono). Si è obiettato che a Telesio, rispetto ai filoni intellettuali che lo eleggono a modello e a riferimento (in primo luogo, Bacone), mancherebbe il profilo di una specifica presa di posizione in senso politico. In realtà, la questione politica nel pensiero telesiano è meno collaterale di quanto appaia, attestandosi a un’analisi quantitativa delle proposizioni dedicate al governo della città e al sistema preferibile di amministrazione. Innanzitutto, il Nostro è testimone, piuttosto precoce, di un evento che segnerà nell’immaginario collettivo in profondità tutto il secolo: il sacco dei Lanzichenecchi nel 1527, in cui è il filosofo stesso a venire catturato. Nella mentalità diffusa, quel sacco ricorda l’omologo del 410, così fondativo nell’opera di Sant’Agostino e, in particolar modo, nel De Civitate Dei. Politica tuttavia è anche la postura intellettuale telesiana. Una critica avversativa che

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ANCORA QUALCHE RIFLESSIONE SU PRINCIPI DEL DIRITTO PENALE LIBERALE E ATTUALE SISTEMA PUNITIVO.

  di Nicola Mazzacuva* –  Risulta del tutto agevole avvertire oggi, nella materia penale, un singolare ‘distacco’ tra i principi fondamentali frutto di una secolare elaborazione scientifica e l’attuale sistema punitivo. Costituisce, invero, criterio generalmente riconosciuto quello che porta ad orientare la disciplina giuridica di ogni attività di rilievo sociale sulla base del sapere scientifico via via affermatosi nei singoli settori di riferimento. Le indicazioni di volta in volta fornite dagli esperti rappresentano, invero, il fondamento primario di ogni intervento normativo affidato al legislatore ovvero al soggetto istituzionale comunque deputato ad occuparsi delle più diverse regolamentazioni positive in attuazione dei canoni elaborati in ambito scientifico. Si può convenire che anche nel settore penale il pensiero degli studiosi abbia orientato (quantomeno da Beccaria in poi) le scelte del legislatore nella costruzione di un ordinamento rispettoso di taluni basilari principi delimitativi della potestà punitiva. I valori e i postulati del “diritto penale liberale“ vengono a coincidere, sostanzialmente, con quelli del “garantismo”, che può essere considerato un’evoluzione e un precipitato tecnico dell’ideologia liberale applicata al diritto penale. Persino nel periodo dello Stato autoritario il nuovo codice penale (espressione del regime appena affermatosi) conteneva, proprio nello sue norme di parte generale, ben note previsioni di limitazione e garanzia a tutela del “suddito”, nonché la disciplina di istituti (ad. es., amnistia, indulto e prescrizione) comunque orientati ad una possibile eliminazione ovvero riduzione delle conseguenze penali di un fatto (pur) previsto come reato. E, dopo la caduta di quel regime, la dottrina penalistica italiana dell’epoca rivendicò la propria opera svolta a salvaguardia dei principi fondamentali, riconosciuti appunto ormai come assolutamente basilari in ambito scientifico (v, per tutti, G. LEONE, La scienza giuridica penale nell’ultimo ventennio, Aerch. pen., 1945, p. 23 ss.). Principi affermati, poi, nella Carta fondamentale rappresentando, così, esito davvero significativo della prima approfondita lettura costituzionalmente orientata del diritto penale quello volto a segnalare la “superiore” esigenza di una limitazione dell’ordinamento punitivo (F. BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., 1973, p. 7-93). Successive indagini hanno puntualmente sottolineato che proprio nell’apparente «insufficienza» sta «la vera “forza” del diritto penale, il suo irrinunciabile ancoraggio garantista» completato «dal collegamento con la dogmatica del bene giuridico: tutela selettiva di beni individuali protetti soltanto da modalità di lesioni “qualificate”, “tipiche” e   “tassative”», denunciandosi già da tempo l’ipertrofia del diritto penale e la necessità di una decriminalizzazione dei reati bagatellari (C.E. PALIERO, Minima non curat praetor, Padova 1985: il brano citato si trova a p. 161). Secondo quanto veniva, poi, declinato da altra autorevole dottrina «l’obiettivo politico principale dell’approccio costituzionalistico» consisteva «nella riduzione dell’area penalmente rilevante in vista dell’attuazione del principio di extrema ratio: tutti i vincoli che esso ha inteso porre all’attività del Parlamento – pericolo concreto, beni di rilevanza costituzionale, tassatività, riserva assoluta di  legge, colpevolezza, abolizione delle contravvenzioni – erano fondati sull’esigenza di giustificare il principio di sussidiarietà, di rendere operativo quel disegno politico» (M. DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale, Milano, 2004 p. 72). Così, un diritto penale costituzionalmente orientato può, in effetti, essere considerato «un diritto penale razionale» in quanto «si radica nell’esigenza di una delimitazione ‘critica’ dell’autorità punitiva» (CANESTRARI-CORNACCHIA-DE SIMONE, Manuale di diritto penale, Bologna, 2017, p. 40). Considerando, però, la situazione attuale della ‘legalità penale’ si può senz’altro convenire sul fatto che il nostro sistema positivo risulta sempre più sommerso da un’incontrollabile moltitudine di norme incriminatrici – evidenziando, così, un singolare (e netto) contrasto con le diverse acquisizioni/indicazioni scientifiche del tutto dominanti –  che rende impossibile non solo conoscere tutti i reati “legalmente” previsti, ma financo calcolarne l’esatto numero. Mi riferisco, appunto, all’enorme quantità di figure criminose che connota ormai l’immensa (neppure precisamente “quantificabile”: il che risulta davvero incredibile e allarmante) parte speciale del diritto penale. Davvero molto interessante ed approfondita risulta, da ultimo, un’ampia e documentata indagine, dal titolo immediatamente “provocatorio” (A. CADOPPI, Il “Reato penale”, Napoli, 2022), ove si esaminano puntualmente gli esiti attuali del processo definito di “overcriminalization”: esiti che non è possibile qui (neppure sinteticamente) riassumere. Anche e proprio per il suo “gigantismo” può essere ribadito che, in effetti, la parte speciale rappresenta il “vero e proprio diritto penale”: tutt’altro che minimo; tutt’altro che extrema ratio. Soluzioni orientate ad una maggiore punizione contraddistinguono ormai anche il diritto penale applicato nel momento di commisurazione della pena. Del resto, l’ampliata possibilità di applicazione di una “pena carceraria” costituisce il (quasi obbligato) esito di interventi legislativi aventi ad oggetto spesso soltanto l’incremento del trattamento sanzionatorio ovvero comunque finalizzati ad impedire l’applicazione di misure alternative al carcere. Un diffuso aumento delle pene edittali connota, invero, le più recenti novelle legislative in materia penale allo scopo dichiarato di ottenere (quasi soltanto) per questa via consenso “popolare”. Ed i nuovi (più elevati) moduli sanzionatori – le (così definite)  “pene elettorali” – provocano necessariamente ulteriori applicazioni di detenzione carceraria: sia in fase cautelare, sia quale pena definitiva. E così si perviene ad un singolare esito neppure immaginabile nello sviluppo “scientifico” del diritto penale liberale (poi anche) orientato ai valori e ai principi costituzionali. Lungi dal muoversi nella prospettiva del diritto penale minimo (ovvero – se si vuole – della riserva di codice), l’attuale fase ben si può definire come quella del “diritto penale massimo”. Le odierne politiche penali populiste non si preoccupano di eventuali garanzie per il reo (altro che diritto penale come “Magna Charta del reo” come voleva von Liszt), ma tendono proprio a sacralizzare la vittima. Lo stato non si sostituisce più alle vittime, ma si identifica con esse, se non altro per scongiurare qualsiasi “complicità” sospetta con il reo; mentre proprio il passaggio dal diritto penale privato – di impronta vendicativa – al diritto penale pubblico è avvenuto proprio attraverso la cd. “neutralizzazione” della vittima. Occorre, inoltre, sempre rimarcare il totale abbandono di ogni prospettiva di una (invece assolutamente necessaria) lettura ‘integrata’ dal diritto penale, coniugato, appunto, con gli altri saperi (anzitutto quelli criminologici e sociologici) che trattano la ‘questione criminale’. Così la criminalità «non è [più] oggetto di conoscenza in una prospettiva causale e quindi, alla fine, cessa di

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RIFLESSIONI FUORI BINARIO SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL PROCESSO PENALE

di Nunzio Citrella* –  Apocalittici o integrati dinanzi all’uso dell’intelligenza artificiale nel processo penale? Ciò che è certo è che la consapevolezza e lo studio approfondito del fenomeno attuale assumono un’importanza ben più rilevante delle terrificanti descrizioni distopiche: troppo spesso i tratti di uno scontro epico tra l’uomo e la macchina, con il primo destinato a soccombere. Partiamo quindi dalla situazione attuale che ci vede vivere e operare nel triste ed insignificante mondo disegnato dall’acritico e impersonale copia-incolla. Un mondo reso arido (… e molto noioso per il giurista) in cui le esigenze quantitative di produzione giuridica seriale, quasi fordista, mettono in ombra l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, quel servizio ragionato volto a regolare i rapporti tra esseri umani. Così, ad esempio, quante copiose ordinanze applicative di misure cautelari sono il copia-incolla di elaborate richieste di applicazione della misura che sono il copia-incolla di CNR che copiano e incollano indiscriminatamente fonti indiziarie? Così la metodologia investigativa, nel sistema della mal gestita abbondanza che caratterizza il nostro tempo, è spesso stata (anche) quella di creare un pagliaio intorno ad ogni ago, con l’effetto di affidare alla difesa il difficile e talvolta insormontabile compito di ricerca degli elementi rilevanti all’interno di un compendio investigativo disordinato e lutulento. Sembra che l’accostamento tra catena di montaggio e copia-incolla sia assolutamente calzante.In questa ottica l’Intelligenza Artificiale, con la sua indubbia capacità di gestione di enormi quantità di dati e con una sufficiente capacità di riassumerne i contenuti, diventa indubbiamente uno strumento che rende meno appetibile il ricorso a queste strategie investigative sovrabbondanti, limitandone la portata, a patto che si sappia quali domande porre alla nostra strana “alleata” digitale. L’Intelligenza Artificiale ben gestita si candida a diventare uno strumento di parità sostanziale tra le parti del processo penale, favorendo un dialogo paritario finalmente incentrato sul dato qualitativo e disinnescando l’acriticità che discende dall’uso indiscriminato e disumanizzante del copia-incolla. Una riflessione è però necessaria conseguenza di questo ragionamento: se le parti possono snellire il compendio indiziario, riassumendolo tramite I.A., sembra inimmaginabile una realtà in cui viene impedito al Giudice di utilizzare lo stesso strumento per la gestione di dati probatori o per la redazione di parti della motivazione. Il Giudice può finalmente accantonare l’indiscriminato uso di copia-incolla che ha realmente distrutto la credibilità di molti provvedimenti e usare un nuovo strumento per muoversi criticamente all’interno del compendio probatorio. Sul tema del “muoversi criticamente” si innesta la possibilità di re-introdurre nel sistema processuale una qualità dell’avvocatura che è stata fin troppo umiliata dalle esigenze di produzione industriale delle sentenze: la restituzione del processo all’uomo, paradossalmente grazie alla macchina. L’Avvocato non dovrà soltanto conoscere e far applicare la legge sostanziale o processuale, ma indosserà la Toga per rivendicare agli occhi del Giudice l’umanità, per introdurre quelle sfaccettature della dimensione umana che finora non s’è avuto il tempo di valutare nei processi (non quanto sarebbe stato opportuno o necessario). L’Avvocato ricorderà sempre e comunque al Giudice che Egli non è un operaio che lavora alla catena di montaggio delle sentenze, ma un essere umano chiamato ad introdurre con prepotenza e orgoglio l’elemento emozionale nella sua produzione giuridica. Il Penalista che conosce l’essere umano e lo porta dentro le torri d’avorio della Giustizia accompagnerà per mano il Giudice invitandolo a porre ad I.A. le domande giuste, quelle che gli consentiranno di personalizzare e personificare la sua sentenza. In questo futuro prossimo, l’Avvocato non è più chiamato ad essere un mero conoscitore del diritto, ma diventa (o forse torna ad essere) un vero e proprio umanista, restituendo il diritto alle scienze umane. La sorte, che non manca certo di ironia, ci invita ad utilizzare a questo scopo giusto ciò che di meno umano ci fornisce il panorama delle nostre disponibilità. La macchina imita l’uomo, indirettamente gli impone di ricordare chi è, quale è il suo ruolo, nella vita come – per quel che ci riguarda in questa sede – nel processo penale; la macchina impone alla coscienza del Giudice di essere carne e sangue, di “complicare” gli algoritmi innestandovi le infinite variabili dell’emotività umana. Non v’è alcuna accettabile alternativa al Giudice umano ed emotivo, fortunatamente fallibile ma giusto, convinto e non persuaso dall’esito di un dibattito regolato da altri due esseri umani, portatori di tesi e antitesi contrapposte che si integrano, si contestano, si scontrano e portano ad una verità condivisa. Non v’è alternativa in senso sostanziale perché la rinuncia all’umanità e all’emotività del Giudice rischia di condurre a soluzioni aberranti su temi che la statistica non può risolvere. Un esempio per tutti: I.A. simula ragionamenti razionali e quindi è capace di creare una moltitudine di catene causali plausibili che non potranno essere altro che ontologicamente ragionevoli e quindi sempre e comunque integranti un ragionevole dubbio che rischia di generare un loop inaccettabile. Non v’è alternativa in senso sociale, rappresentando il processo penale uno strumento di catarsi laica nel quale il Giudice assume la funzione di personificazione delle istanze del gruppo sociale che proprio attraverso il rito risolve il conflitto. L’esclusione dell’umanità del Giudice dal processo, intendendosi l’umanità non solo come figura fisica presente in aula ma soprattutto come contributo emozionale al processo decisionale, comporterebbe l’impossibilità per il gruppo sociale di impersonarsi nel Decidente. Il rischio è quello di generare un pesante vuoto nella risoluzione governata dei conflitti sociali e in un’ultima analisi aprendo le porte a inaccettabili scenari degni di quel futuro distopico paventato dai più fantasiosi apocalittici. Tornando alla domanda iniziale, è allora probabile che l’unica via sia quella di essere “consapevolmente integrati”, non ingenuamente ottimisti né aristocraticamente pessimisti, fieramente portatori della nostra imperfetta ma irrinunciabile umanità. *Presidente Camera penale degli Iblei

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OGNI MODELLO HA BISOGNO DEL SUO INTERPRETE

di Francesco Petrelli* –  Delle diverse argomentazioni utilizzate nel tempo al fine di negare la necessità di separare le carriere – dall’idea del “pm-superpoliziotto”, alla perdita della “cultura della giurisdizione” – ultima in ordine di tempo è quella relativa al numero di assoluzioni e di riforme che statisticamente si riscontrerebbero nei giudizi di merito. Circostanza questa che, secondo i sostenitori dello status quo, dovrebbe dimostrare l’ampio margine di indipendenza del giudice dalla figura del pubblico ministero. L’alto numero di assoluzioni dimostrerebbe che le carriere sono “di fatto” separate in quanto il giudice non asseconda affatto le richieste del pubblico ministero e non ne condivide la cultura. Questa idea si fonda su di una banalizzazione della prospettiva riformatrice e su di una visione del processo e dei suoi soggetti piuttosto azzardata. L’assunto presupporrebbe infatti una sostanziale indifferenza del giudice nei confronti della prova ed una sua libertà valutativa tale da prescindere del tutto dal contenuto dell’evidenza disponibile.  Ciò che si propone è l’idea piuttosto bizzarra di un giudice che solo per “amicizia” nei confronti della figura del pubblico ministero condanni degli innocenti. Il che evidentemente non può darsi perché il processo ha una sua oggettiva esistenza e – salvo casi patologici che non devono mai condizionare un giudizio critico – segue un suo percorso razionale. Ciò che piuttosto accade è che laddove la prova sia incerta e la questione, in fatto o in diritto, controversa il giudice non adotta quasi mai la regola del “ragionevole dubbio”. E ciò accade proprio perché quest’ultimo è rimasto legato ad una cultura fortemente promiscua con quella pubblico ministero, lontana da quella “cultura del limite” che dovrebbe caratterizzare l’atteggiamento del giudice terzo.   Il fatto che un cospicuo numero di sentenze sia oggetto di riforma in appello, sta a dimostrare che quanto più ci si allontana dalla pressione del pubblico ministero e della sua pretesa punitiva, maggiore è l’indipendenza del giudice dalle posizioni dell’accusa.   È tuttavia indubitabile  che l’unicità della cultura di giudice e pubblico ministero, sviluppata solo a scapito dell’indipendenza del primo ed a favore dell’egemonia del secondo, si avverte in particolare nella fase fondamentale delle indagini preliminari, nell’ambito della quale il giudice tende a condividere l’impostazione dell’accusa: lo fa adeguandosi alle richieste di proroga delle indagini senza operare alcun serio controllo sui motivi che la giustificano, accogliendo le richieste di autorizzazione delle intercettazioni e le relative richieste di proroga, eludendo con motivazioni prive di autonomia le pur stringenti condizioni previste dalla legge, ed analogamente aderisce alle richieste cautelari sia quanto alla sussistenza dei presupposti probatori che delle esigenze cautelari, facendo larghissimo uso della custodia in carcere anche laddove altre misure potrebbero risultare adeguate. Non può non cogliersi, in questa dinamica, l’intrinseca inefficienza delle cd. “finestre di giurisdizione” (così come incrementate dalla riforma Cartabia) destinate al fallimento anch’esse laddove da quelle finestre non si “affacci” un giudice effettivamente terzo. Ma occorre riconoscere che la forza egemonica del pubblico ministero si esercita con analogo vigore anche nella fase processuale ogni qual volta l’oggetto del processo, superando lo standard degli ordinari affari giudiziari, imponga un qualche particolare impegno delle procure, per via della rilevanza politica del reato o perché l’oggetto implichi un qualche interesse mediatico. In tutti questi casi la terzietà del giudice è evidentemente compromessa, in quanto la posta in gioco spesso trasforma il giudice in un “giudice di scopo”. Il che accade certamente in tutti i processi di doppio binario, ma anche in tutti quei casi nei quali il giudice è chiamato dalle procure procedenti a svolgere una azione di contrasto a questo o a quel fenomeno criminale, ad una presunta nuova mafia locale, ad una corruzione diffusa, ad un grave reato ambientale … In tutti questi casi si avverte indubbiamente il peso di una mancanza della terzietà. Collocati entrambi sul medesimo fronte ed all’interno di una medesima trincea nella quale si combatte il male, giudice e pubblico ministero sono impegnati contro un nemico comune. La terzietà che, a maggior ragione in questi casi nei quali altissima è la posta in gioco dei diritti di libertà e delle garanzie del cittadino, dovrebbe caratterizzare la posizione del giudice, subisce una inevitabile torsione. Tanto ciò è vero che quando in alcuni casi il giudice si sottrae con i propri provvedimenti alla pressione dell’accusa la vicenda finisce con l’assumere addirittura un risalto mediatico. Non è infatti solo la decisione finale che deve essere oggetto di rilievo, in quanto è nel corso del processo, con la gestione delle udienze, con le decisioni sulla ammissione della prova, con i propri interventi nel corso degli esami testimoniali, che il giudice dà modo di far rilevare la mancanza della terzietà. Ed è ovvio che l’esito finale del processo, la sentenza, è il frutto di tali ulteriori decisioni e di questi interventi che condizionano evidentemente la formazione della prova nel corso del dibattimento. Insomma, l’esigenza della terzietà non si misura banalmente con il numero delle assoluzioni, ma attraverso valutazioni più serie, analizzando piuttosto i modi attraverso i quali le decisioni maturano nelle diverse fasi del processo e nelle più complesse cadenze del giudizio, nell’ambito delle quali il cittadino imputato avverte tutta la sperequazione dei modi con i quali il giudice troppo spesso gestisce le udienze. Se, dunque, il recupero del modello accusatorio si pone come una riforma indispensabile ed ineludibile, quest’ultimo risulta a sua volta inattuabile a carriere invariate. Non vi è dubbio, infatti, che se le carriere uniche hanno offerto una base ideologica e culturale del tutto coerente con il processo inquisitorio, le stesse hanno successivamente costituito un insormontabile ostacolo alla effettiva realizzazione del nuovo modello.  Ogni modello processuale ha, infatti, bisogno del suo interprete e l’interprete del modello accusatorio è il giudice terzo. Si tratta di un paradigma che sta scritto nella nostra Costituzione e che attende da troppo tempo di trovare attuazione in una compiuta riforma. Senza questo nuovo giudice ogni riforma che voglia restituire coerenza al modello accusatorio resterà una vana speranza. *Presidente Unione Camere Penali Italiane (Da “Editoriale”, pubblicato sul numero 1 di “Ante Litteram”, rivista

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IL DIRITTO PENALE VITTIMOCENTRICO VS. DIRITTO PENALE REOCENTRICO

di Cecilia Bandiera* e Pasquale Longobucco** –  Nel settembre del 2019, la Camera Penale Ferrarese ospitò un convegno strutturato in due giornate, dal titolo “La difesa delle garanzie liberali nella stagione della giustizia penale euro-vittimocentrica”. Il convegno prevedeva due sessioni: la prima dal titolo “Nessuno contraddica Abele”, la seconda, “Caino non abbia diritti”. Si stava vivendo la stagione del populismo giudiziario nella sua massima espressione. Era entrata in vigore la legge che di fatto eliminava la prescrizione, istituto di civiltà giuridica, che aveva in qualche modo svolto, fino a quel momento, la funzione regolatrice del potere punitivo dello Stato. Avendolo vissuto in prima persona, possiamo dire che è stato un convegno che ha stimolato un dibattito tra studiosi ed operatori del diritto, il cui auspicio era di riuscire a condizionarne proficuamente la prassi applicativa. Un dibattito che, col senno di poi, ha, in parte, anticipato i tempi e di cui non si è saputo coglierne gli spunti. Oggi, possiamo dire che siamo nel pieno della stagione del diritto penale vittimocentrico con la conseguente soccombenza del diritto penale reocentrico. Si intenda, l’erosione dei principi di un diritto penale minimo, che veda come sue epicentro l’accusato, è iniziata da tempo. Oggi, però, siamo in una fase di svolta cruciale, più evoluta, che trova la sua massima espressione nella volontà del legislatore di voler introdurre la “vittima” in Costituzione. Come noto è infatti, all’esame della Commissione Affari Costituzionali del Senato, il testo del disegno di legge (trattasi di un articolato che ne contiene quattro) di modifica costituzionale, che prevede l’inserimento all’art. 111 Cost. del seguente comma: “ La Repubblica tutela le vittime di reato e le persone danneggiate”. La ratio di tale intervento costituzionale, come si legge dalle relazioni illustrative ai disegni di legge, sarebbe quella di tutelare maggiormente il soggetto ritenuto più debole, all’interno anche del giusto processo. Non solo. Si vuole far assumere alla “persona offesa” sempre più un ruolo centrale anche nelle dinamiche repressive (sul punto la relazione illustrativa del ddl n. 888, non sembra lasciare dubbi). Ebbene, non possono sfuggire, a chi ha applaudito alla stesura ed al varo ufficiale del “Manifesto del Diritto Penale Liberale e del Giusto processo” delle Unioni delle Camere Penali Italiane, le evidenti incongruenze ed i rischi che si annidano in una modifica di tal fatta, per la tenuta dello Stato di Diritto. In primo luogo, si evidenzia come, nel corso dei decenni, la vittima del reato abbia trovato ampia tutela attraverso i vari interventi del legislatore. Basti pensare al cd Codice Rosso, all’introduzione delle fattispecie di omicidio e di lesioni stradali, ma anche alla disciplina della giustizia riparativa. Tutti interventi che vedono, come fulcro ispiratore, la tutela della vittima del reato, verrebbe da dire “senza se e senza ma!” In altre parole, nel corso degli anni, il paradigma vittimocentrico ha rappresentato una fonte per l’introduzione di nuove fattispecie di reato. Nell’illusione che, interventi come quelli appena citati, fossero in grado di eliminare l’impunità dello stupratore o del pirata della strada. Non curandosi, invece, attraverso una perenne propaganda a basso costo che solletica gli istinti più primordiali, di scaricare nel penale semplicemente pulsioni di vendetta, travestite da senso di giustizia. Queste prime considerazioni possono tranquillamente portarci a concludere che non esiste una concreta necessità di tutelare ulteriormente la vittima del reato, attraverso l’espressa previsione in Costituzione. Ma c’è dell’altro. Come già ritenuto da autorevoli studiosi, l’introduzione della vittima in Costituzione rischia di alterare fortemente gli equilibri processuali, con il concreto rischio che si passi ad un riconoscimento di fatto della giustizia privata, con conseguente erosione del principi fondanti lo Stato di Diritto. Non può non rilevarsi, infatti, come in tale prospettiva forte sia il rischio di affidare la gestione dei conflitti derivanti da reato alla vittima, con il conseguente arretramento del diritto penale moderno, caratterizzato da quel connotato di civiltà secondo cui detti conflitti debbano essere di competenza statale. Non va dimenticato che il diritto penale è la cd Magna Carta del reo e rappresenta lo strumento di accertamento della responsabilità attraverso il rispetto delle garanzie per l’accusato, proprio per frenare aspirazioni vendicative della vittima. D’altra parte soggetto debole della macchina repressiva dello Stato rimane pur sempre l’accusato. Pertanto, la modifica costituzionale in parola porterebbe con sé il forte rischio di una visione privatizzata della giustizia penale, esponendo il giudice ad una forte carica emotiva. Va, inoltre, evidenziato che l’introduzione della “vittima in costituzione”, attraverso la modifica dell’art. 111, finirebbe per indebolire la portata precettiva della norma costituzionale, la cui riforma del 1999 aveva come ratio quella di riaffermare in Costituzione i principi del modello accusatorio del giusto processo. Ebbene, una modifica così come ipotizzata, metterebbe in discussione proprio quei principi per i quali la norma costituzionale era stata ripensata. Infatti, parlare di “vittima” – prima che vi sia stato un regolare processo finalizzato all’accertamento del reato e delle responsabilità – significa inevitabilmente parlare anche di colpevole. In altre parole, nel processo l’accusato entra già con la veste di colpevole e ciò non può non suscitare preoccupazioni in punto di presunzione di non colpevolezza. Tirando le fila di questa nostra riflessione, possiamo dire che la riformulazione costituzionale sia superflua. Oggi la vittima trova nel nostro ordinamento ampia tutela, senza che vi sia la necessità di un intervento costituzionale. Intervento che rappresenta solo una mossa propagandistica e semplicistica che però potrebbe avere conseguenze nefaste per l’architettura del nostro sistema penale e delle sue garanzie, già claudicante. Il rischio è anche quello di identificare l’accusato come il carnefice ed il giudice come un buono o un cattivo giudicante a seconda se sia stato o meno in grado di soddisfare le aspettative private. Da qui, al ritorno alla legge del taglione, il passo potrebbe essere breve.    *Presidente Camera Penale Ferrarese “Avv. Franco. Romani” **Responsabile Scuola Territoriale Camera Penale Ferrarese; Responsabile Osservatorio Deontologia UCPI

IL DIRITTO PENALE VITTIMOCENTRICO VS. DIRITTO PENALE REOCENTRICO Leggi tutto »

LA GOGNA

di Alessandro Barbano* Perché la giustizia in Italia non cambia mai? Perché gli errori si ripetono, i ritardi incancreniscono, le riforme saltano o, quando pure si fanno, risultano irrilevanti? Per questa domanda ci sono due risposte collegate tra loro. La prima riguarda la distanza dei cittadini dal problema. La giustizia è percepita come una cosa di altri, salvo poi scoprirne l’insostenibile prezzo quando se ne viene direttamente a contatto. La seconda dipende dal modo con cui la giustizia viene amministrata, e cioè dal suo arroccamento in un fortino dove si consolidano regole e logiche diverse e talvolta opposte a quelle della vita, e dove tutto può accadere senza che nessuno sappia, o piuttosto venendosi a sapere l’opposto di ciò che è accaduto. È il caso che qui si narra e si analizza: il complotto dell’Hotel Champagne, la storia di un gruppo di magistrati e politici che vuole mettere le mani sulla Procura di Roma, di un’inchiesta giudiziaria che smaschera i congiurati, di una magistratura che mette alla gogna ed espelle, ripristinando l’onore perduto. Sennonché questa versione non sta in piedi. Troppi segnali dicono che lo scandalo non è nella realtà, ma nel suo racconto rovesciato. Perché pretoriani e congiurati altro non sono che due fazioni l’una contro l’altra armate. Ed è una lotta senza risparmio di colpi, dietro la quale si mostrano tutte le incompiutezze legislative, gli azzardi investigativi, le forzature istituzionali, le ipocrisie giudiziarie che un potere malato può produrre. Se una simile storia è potuta accadere, è perché si è svolta in una zona mal sorvegliata della democrazia, nell’inconsapevolezza e nel disinteresse dei cittadini, e dietro il racconto falso di uno scandalo. Non è la prima volta che capita nella storia repubblicana. Quando l’Italia è stata vicina a toccare il fondo, è scattata spesso nel discorso pubblico la tentazione di rimuovere la verità, di ridurla, di ribaltarla nel suo contrario. È accaduto con il sequestro di Aldo Moro e con l’idea di una fermezza che liquidò come insensato l’appello alla trattativa dello statista dal- la prigione delle brigate rosse. Si è ripetuto con il deragliare del finanziamento pubblico ai partiti e con l’illusione di regolarlo assoggettando la politica alla magistratura di Mani Pulite. È proseguito con le stragi di Falcone e Borsellino e con la ricerca di una verità ritagliata sulle bugiarde rivelazioni del pentito Scarantino. Non si sottrae a questa tentazione mistificatrice la crisi più acuta della giustizia, il complotto nel cuore del Consiglio superiore della magistratura, culminato nella rimozione di Luca Palamara. Quando il meccanismo che governa le lottizzazioni tra le toghe si inceppa e rivela la sua insostenibilità, il racconto dello scandalo del Csm serve a giustificare il ripristino dell’equilibrio perduto. E tutto sembra cambiare perché tutto torni come prima. I quattro casi qui citati hanno tempi, contesti, cause e conseguenze diverse, per natura e per gravità. Ma hanno un elemento in comune: dietro queste apparenti rivoluzioni di sistema c’è, in controluce, un cambio di potere o una restaurazione. O tutte e due. Vuol dire che la democrazia finge uno scatto in avanti, ma in realtà fa un passo indietro o, nel migliore dei casi, resta immobile. Con l’analisi di una vicenda estrema, questo libro vuol dimostrare che cosa si può arrivare a fare nel nostro Paese con un’inchiesta giudiziaria, e quanto un racconto che divorzia dalla realtà può allontanarsi da ciò che pure chiamiamo «giustizia». *giornalista, saggista (Pubblicato sul n.0 – “Ante Litteram” – dicembre 2023)

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BREVE NOTA A CASSAZIONE 1 OTTOBRE 2024, N. 36531: IMPUTABILITÀ E DISTURBO BIPOLARE, I PRINCIPI DELLA “RASO”

  di Marta Staiano* –  La recente sentenza della Corte di Cassazione, in quota di interesse, accoglie il ricorso dell’imputata dichiarata responsabile per il reato di molestie, confermando il principio di diritto per il quale «il giudice è tenuto ad accertare la capacità di intendere e di volere dell’imputato anche d’ufficio, quando vi siano elementi che facciano dubitare della sua imputabilità». La Corte è nuovamente chiamata a pronunciarsi su una tematica di estrema complessità, quale l’ampiezza dell’infermità mentale riferita all’esclusione dell’imputabilità, nonché il novero indiziario di dati che obbligano il giudice al suo accertamento. S’offre il destro a brevi puntualizzazioni sul tema. Già da tempo si afferma in dottrina che l’imputabilità è al tempo stesso nozione empirica e normativa[1]: in tal senso, pur avendo il legislatore previsto parametri predeterminati questi sono da ancorarsi ai progressi scientifici in tema di eziogenesi e manifestazione della patologia psichiatrica, dovendo il giudice soffermarsi con precipuo scrutinio del tema ogni qual volta ricorrano elementi da cui potenzialmente desumere una “deficienza” mentale, purché ne sia dimostrato il nesso eziologico con il fatto di reato. Risemantizzare è il luogo di costruzione dell’ermeneutica. In tal senso, le Sezioni Unite del 2005 – ricorrente Raso – con sentenza n. 9163, depositata in data 8 marzo 2005, si esprimevano compiutamente sui confini del concetto di infermità, ampliandone sensibilmente la portata: «anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o scemare grandemente, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere di un soggetto agente ai fini degli artt. 88 e 89 c.p., sempre che siano di consistenza, rilevanza, gravità e intensità tali da concretamente incidere sulla stessa». «Il concetto di infermità, quindi, si allarga, fino a comprendere non solo le psicosi organiche, ma anche i disturbi morbosi dell’attività psichica, come le psicopatie, le nevrosi, i disturbi dell’affettività: oggetto dell’indagine, quindi, non è più la persona – corpo, ma la persona – psiche». Nella evenienza sottoposta per individuazione di principio di diritto, le Sezioni Unite hanno annullato con rinvio la sentenza censurata: aveva erroneamente escluso il vizio parziale di mente sul rilievo che il disturbo paranoide dal quale, secondo le indicazioni della perizia psichiatrica, risultava affetto l’autore dell’omicidio, non rientrava tra le alterazioni patologiche clinicamente accertabili, corrispondenti al quadro di una determinata malattia psichica, per cui, in quanto semplice “disturbo della personalità”, non integrava quella nozione di “infermità” presa in considerazione dal codice penale. Al contrario la Corte, annullando con rinvio la sentenza impugnata, apriva la strada alla considerazione dei disturbi di personalità in materia di imputabilità, ripudiando la tradizionale concezione mono-causale di malattia. Per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le “anomalie caratteriali” o “disarmonie della personalità”, nonché gli “stati emotivi e passionali”, che non rivestano i suddetti connotati di inesione alla capacità di autodeterminazione del soggetto agente[2]. L’approdo convincente è in un “paradigma integrato” di malattia mentale – già da tempo sostenuto dalla scienza psichiatrica – che affianca alla diagnosi nosografica altri moduli interpretativi: viene inoltre riconosciuta la natura di “infermità”, rilevante in termini giuridici, anche ai disturbi dell’affettività e ai disturbi di personalità[3], sempre che essi abbiano influito in maniera significativa sulla funzionalità dei procedimenti intellettivi e volitivi del soggetto agente. Si riconosce, in altri termini, l’influenza sulla malattia mentale tanto di variabili biologiche, quanto di fattori extrabiologici, così recependosi la multifattorialità sia con riguardo alla genesi che al decorso della patologia[4]. È d’uopo precisare che, sebbene la sentenza Raso abbia ridisegnato i confini dell’infermità mentale oltre i tradizionali parametri organicistici, estendendone la portata anche ai disturbi di personalità (et altro) non inquadrabili nei rigidi margini della nosografia, la stessa Corte si mantiene ferma nel puntualizzare che questi debbano essere di gravità e intensità tali da escludere o scemare grandemente la capacità di intendere e di volere: si dice di «disturbo idoneo a provocare una situazione di assetto psichico incontrollabile e ingestibile […] che renda l’agente incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti, di conseguentemente indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto, di autonomamente, liberamente autodeterminarsi»[5]. Gravità e intensità diventano quindi per la Corte parametri di riferimento per tracciare una linea di confine, quindi discernere tra i disturbi che influenzano le capacità dell’individuo e quelli che rimangono irrilevanti in tema di imputabilità: così la “Raso” indica una terza via oltre le due antecedenti contrastanti visioni del disturbo di personalità e dell’affettività: l’una volta a ricondurre i disturbi in questione nell’alveo delle patologie della mente, l’altra nell’opposto perimetro delle c.d. anomalie non patologiche della personalità. Epperò, la sentenza in esordio significata riceve l’attenzione del giurista per tre ordini di ragioni: poiché aderisce al noto principio di diritto antecedentemente richiamato (cioè a dire la considerazione in termini di imputabilità dei disturbi dell’affettività e di personalità), indicando la condizione di variabilità dell’umore implicata da disturbo bipolare come potenzialmente escludente o diminuente la capacità di intendere e volere. A tal fine la difesa, censurando la mancata applicazione dell’art. 88 c.p., «richiama tanto le dichiarazioni di VR tanto quelle di AR che, pur non sapendo rispondere alle domande su eventuali patologie sofferte dalla F, hanno riferito di circostanze indicative di disagio psicologico (il primo parla di interventi dell’ASL con la camicia di forza, la seconda riferisce che le condizioni del figlio della donna la mettono in “queste condizioni”)». Nondimeno la sentenza in esame, in ossequio all’insegnamento del Supremo Collegio in merito all’incidenza in termini di infermità dei disturbi dell’affettività, ne rafforza la portata sul versante processuale, statuendo la sufficienza della certificazione Asl – nella specie di disturbo affettivo maggiore di tipo bipolare accompagnato a scompenso psicopatologico – quale indizio idoneo a far dubitare della imputabilità dell’imputato, così “obbligando” il giudicante a svolgere indagini «sull’incidenza che l’accertata patologia poteva avere sui comportamenti tenuti in occasione degli episodi descritti in imputazione». In mancanza di tale doveroso accertamento, la «lacuna inficia la decisione e impone il suo annullamento con rinvio perché si svolga nuovo giudizio al fine di approfondire, con piena libertà valutativa ma con ogni ausilio tecnico di

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MAFIE E RELIGIONI. METODI, EQUIVOCI, STORIA

 Domenico Bilotti (*) Nonostante autorevoli opinioni scientifiche sottovalutino la significatività del dato, l’agire mafioso ha a che fare con l’occupazione e l’usurpazione dei meccanismi di guadagno e di circolazione economica della società borghese[1]. Non c’è stata, in questo senso, nessuna specifica transizione, nessuna intenzionale evoluzione, perché il programma costitutivo del pactum scelerum ha sempre a che fare con un profitto strumentale. Per certi aspetti, perciò, le mafie si basano sulla normalizzazione e sulla razionalizzazione (meglio: sulla funzionalizzazione al profitto strumentale) della violenza. Non crei scandalo questo evidente corollario metodologico: la violenza è descritta, concretata e controllata da chi la esercita[2]. Questo esercizio peraltro, si tratti di soggetti pubblici o privati, leciti o illeciti, è strettamente connesso al programma e, conseguentemente, allo scopo che tramite il programma vuole realizzarsi. La linea di metodo nell’associazione mafiosa è molto chiara, sebbene presentino ancora pari interesse le letture che trattano della mafia come attore economico con tendenze egemoniche e che si interrogano sulla specifica scaturigine sociale del gruppo di appartenenza. Ci si permette soltanto di rimarcare come tali letture analizzino gli effetti, le diverse articolazioni contingenti, non il dato di fondo inscritto anche nell’accezione codicistica dell’associazione per delinquere di stampo mafioso: omertà e assoggettamento sono in radice componenti ontologiche dell’agire mafioso, a prescindere dalle modalità (più o meno concrete) che possano inverarle[3]. Nell’accostarsi alle organizzazioni criminali, c’è, di più, un sotteso sguardo dubitativo dell’interprete, che cade costantemente nel rischio di mitizzarne, espanderne e dissolverne i contorni, creando così il pericoloso paradosso che più si denuncia in genere la mafia e meno si riesce a darvi veste giudiziaria probante. All’interno di questa tecnica d’analisi, uno dei temi più incisivi è quello relativo all’uso simbolico della semantica religiosa nella struttura interna delle associazioni mafiose. È più prosaicamente da osservare come le mafie abbiano sempre saputo misurare, persino più degli organi statali che istituzionalmente si contrapponevano ad esse, i canali atti a garantire la coesione, la coercizione e il consenso. La mafia riesce, in sostanza, a creare un ambiente mafioso perché si basa su una saturazione compartimentata dei territori in cui agisce, ricorrendo anche all’abuso delle loro istituzioni culturali, se utili allo scopo. In questo campo, si sono fatti essenzialmente errori di due tipi. Si è creduto che la legittimazione parareligiosa della gerarchia mafiosa fosse fatto tipico delle organizzazioni italiane e che tale simbologia meritasse specificamente di essere investigata secondo il calco di canoni ermeneutici del diritto liturgico (affiliazioni, cariche, sanzioni). Il riduzionismo e l’assimilazionismo sono profondamente simili nel lavorare, in forme opposte, l’oggetto dello sguardo: nell’un caso lo rimpiccioliscono discrezionalmente, nell’altro lo dilatano fino a fargli coprire completamente l’obiettivo della camera. La realtà more solito non tollera né lo zoom né le inquadrature alla distanza: abbisogna piuttosto di una sana aderenza ai contorni della sagoma che è nel mirino. Quanto al primo aspetto, v’è forse da rimarcare la perdurante attualità di un indizio euristico individuato da Santi Romano[4]. Quegli sosteneva che anche la mafia fosse un ordinamento giuridico, senonché non pensava realmente a una statualità mafiosa: ordinamento giuridico “interno”, semmai, in quanto sistema normativo fondamentale che diventa istituzione durativa. Per secondare e implementare questo processo la componente rituale è fortissima: l’emulazione della lessicologia religiosa è stata perciò un formidabile formante aggregativo. Salvo che essa si è tuttavia saputa mescolare a qualsiasi orizzonte semiotico implicasse la coesione, la segretezza, l’ineluttabilità, l’avversione a tutto quello che non ne facesse parte. È innegabilmente vero che la “Sacra corona unita” rinvia a una sacralità dogmatica[5] e che le organizzazioni hanno sovente nei propri gradi “sacristi” e “vangeli” – cariche che si attribuiscono azione nella verità e verità nell’azione. Ciò non toglie che sin dalla loro origine le mafie autoctone italiane abbiano poi saputo prendere spunto dal patrimonio simbolico di qualunque forma di associazionismo segreto e parallelo: sette, confraternite, ma anche logge e associazioni carbonare. L’affiliazione massonica è in Calabria tratto distintivo dell’appartenenza e della contiguità ‘ndranghetistica da almeno un quarantennio: anche lì, però, il vincolo è strumentale e circostanziato; per nulla generalizzato o generalizzabile[6]. E così pure è avvenuto in Sicilia, in primo luogo nel Trapanese e nel Palermitano. Quanto al secondo punto, tutte le organizzazioni sulle quali si riesce a identificare il carattere di mafiosità, nazionale o internazionale che sia, rimandano costantemente a una ritualità indisponibile e a una sorta di blasfemia ultra-mondana, che si prende i simboli del cielo per seminare il panico in terra. L’Organizacija russa lo esprime attraverso i tatuaggi rituali e probabilmente, vistane la diffusione, se un codice originario unitario esisteva, è destinato a divenire più instabile, più evanescente, meno omogeneo[7]. Il corpo dei “ladri nella legge” non lesina templi, madonne e rosari – a un livello non intenzionale, sibbene meramente contestuale, la grandissima eredità visiva dell’iconografia ortodossa russa permea potentemente. Persino nelle culture non teistiche le mafie esprimono una caratteristica attitudinale rivolta alla capacità obbligante del rito, anche di quello ludico e non solo solenne. Nel primo senso, sia sufficiente il rimando alla Yakuza giapponese, il cui nome traduce in lingua nipponica il punteggio più basso di un gioco clandestino. Nel secondo, è notorio il caso delle Triadi cinesi. I riti affiliativi (perlomeno quelli locali) rimandavano al filosofo dell’arte militare Guan Yu. Quella branca del pensiero politico cinese ha sempre avuto una forte componente speculativa, metafisica, cosmologica. E codici e cariche interne della Triade ricalcano apertamente numeri e valori dell’I Ching, tra i più classici testi cinesi di spiritualità: per quanto questi rimandi siano opportunistici e devianti, essi conformano in profondità la modulazione del sodalizio[8].  Si traggano ora le conclusioni di quanto affermato. La simbologia religiosa è tradizionalmente usata dalle mafie autoctone italiane per tramandare regole, comportamenti e ruoli delle proprie realtà associative, ma non è l’unica. Ogni forma di comunicazione simbolica che saldi la struttura (anche ove scopertamente irreligiosa) è utilizzata se ha dimostrato di realizzare lo stesso scopo. Questo trasferimento metaforico non è un fenomeno solo italiano: appartiene, almeno empiricamente, a tutte le associazioni cui è stato attribuito ex post carattere di mafiosità. Ex ante, invece, non sarebbe possibile, perché a

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PROPOSITI DI RIFORMA DELLA CUSTODIA CAUTELARE: SPERANZE O PERPLESSITÀ?

di Domenico Nicolas Balzano – Avverto, in premessa, il dovere di scusarmi con quei lettori, i quali avranno la pazienza di leggere questo articolo, invece che cestinarlo, come meriterebbe, e lo faccio specificando che non ho potuto respingere il garbatissimo invito del mio amico e maestro Francesco Iacopino a scrivere un articolo per la rivista, della quale è responsabile, e che, affermatasi nell’ammirazione dell’Avvocatura nazionale, è orgoglio dell’intera, e a me tanto cara, Avvocatura calabrese. Un argomento, che m’è parso di grande interesse e meritevole di riflessioni comuni, è quello della custodia cautelare e dei suoi abusi, ritornato al centro dell’attenzione con l’annunzio del progetto di riforma del ministro Nordio, colto gentiluomo, anche di idee liberali – le Sue, non quelle di chi lo circonda – e, forse, ancora meritevole di fiducia. Il suo progetto di riforma si incentra su due aspetti: l’interrogatorio preventivo e la collegialità dell’ordinanza. È lecito avere speranze per l’avvio di una nuova stagione o è doveroso maturare perplessità a tal riguardo? Mi sembra che speranza – non molta – e perplessità – anche troppa – siano destinate a convivere. L’interrogatorio preventivo, cioè la possibilità di rappresentare preventivamente elementi idonei a scongiurare l’applicazione della misura, è verosimile sia destinato all’insuccesso e non solo per le numerose eccezioni, per le quali ad esso non si procede e che è prevedibile si estendano sino al punto da costituire un’eccezione il suo svolgimento, ma perché  si tratterebbe di un atto, asseritamente di natura garantista, che, però, contraddicendola, si svolgerebbe in condizioni di minorata difesa, salvo che l’indagato non disponga – ma è assai raro – di elementi decisivi: un inattaccabile alibi, la dimostrazione di un’omonimia e poco altro. Risulterà del tutto irrilevante quel che dirà l’indagato ad un organo giudicante che non dispone di poteri istruttori necessari per la verifica della tesi difensiva. È verosimile, pertanto, che la decisone risulterà identica a quella che sarebbe stata anche senza l’interrogatorio. Se però, tale atto, appare difficilmente idoneo a scongiurare custodie cautelari ingiustificate non è scevro da potenziali pregiudizi; ed è la ragione per la quale parlavo di minorata difesa. Quante concrete possibilità avrà di rappresentare un’argomentata e lucida tesi difensiva l’indagato che abbia conoscenza solo dell’ipotesi di addebito ma nessuna o quasi – ed altrettanto il suo difensore – del materiale investigativo raccolto spesso in numerosi e ponderosi faldoni? Il rischio che egli commetta peccati di ingenuità è reale. E quanta probabilità di ascolto avrà un difensore, il quale, per scongiurare tali peccati, consigli di avvalersi della facoltà di non rispondere, se il suo assistito affida proprio all’interrogatorio la sua speranza di evitare la misura? Peraltro, è noto quanto qualsiasi accusato sopravvaluti il peso delle sue tesi e la propria capacità di rappresentarle efficacemente. È dubbio, che quest’aspetto della riforma si traduca in un vantaggio per l’indagato ma è, invece, ben più probabile si traduca in un pregiudizio, anche irreparabile.   Anche il tema della collegialità dell’ordinanza impone riflessioni. Il principio che ispira la riforma è quello che tre teste ragionino meglio di una e garantiscano maggiore equilibrio. E non sempre è così. Anzi. Peraltro, si può, per davvero, essere certi che il provvedimento collegiale sia il risultato un confronto tra più intelligenze autonome ed equivalenti sotto il profilo dell’incidenza sul provvedimento? Come funzionino gli organi collegiali è noto a tutti gli Avvocati, i quali ben sanno che la vera collegialità è assai rara. Nella realtà c’è sempre un componente il collegio – il relatore – che ha maggiore conoscenza del fascicolo. Spesso è addirittura l’unico che ne abbia. La sua opinione condiziona l’asserita collegialità. Neppure è infrequente che nel collegio vi sia un componente il quale con maggiore determinazione si batte per imporre la sua tesi ed è molto spesso il più autorevole ma purtroppo il meno disponibile ad accedere alla tesi difensiva. Una presumibile falsa collegialità è destinata, dunque, a rivelarsi irrilevante quanto ad una significativa riduzione degli eccessi o addirittura degli abusi cautelari. Ma c’è un ulteriore aspetto di riforma, che, piuttosto che irrilevante, la renderebbe pericolosa e nociva. Il ministro, in occasione di un convegno a Napoli, ne parlò, ed, io, ascoltando agghiacciai. Egli disse che se l’emissione dell’ordinanza veniva sottratta alla competenza di un giudice monocratico e riservata ad un organo collegiale, non vi sarebbe più stata la necessità di affidarne la verifica di legittimità formale e sostanziale ad altro organo collegiale: il tribunale per il riesame. L’impugnazione del provvedimento sarebbe stata limitata al solo ricorso per cassazione. Se dovesse compiersi la riforma, anche con tale appendice, i risvolti negativi risulterebbero evidenti. Il ricorso per cassazione può essere proposto solo per ragioni di legittimità e non di merito. Queste ultime venivano rappresentate al tribunale per il riesame, ma non potrebbero essere proposte al giudice di legittimità. Di esse – se anche decisive – la difesa non potrà fare altro uso che quello di riassumerle in un’istanza al giudice che ha emesso la misura e in caso di rigetto, al tribunale per il riesame, nei tempi assai più lunghi previsti per tale peculiare procedura. Peraltro, il giudice della misura, monocratico che sia o collegiale che dovrebbe diventare – provvede “inaudita altera parte” – valuta le ragioni del p.m., non anche quelle difensive, anche se procede all’interrogatorio preventivo, nel quale parla l’indagato ma non il difensore. L’udienza di riesame è la prima – e spesso anche l’unica – occasione per la valutazione degli elementi addotti dalla difesa. Ed è quella, nella quale si completa il contraddittorio sulla misura, sino ad essa inesistente, per la presenza di un’unica voce e di nessuna risposta. Eliminarla, pertanto, in nome dell’inutilità di una seconda deliberazione collegiale significherebbe rinunziare al contraddittorio sulla misura ed espellere il difensore dal procedimento cautelare. Vi sarebbe poco da esserne lieti! Luci ed ombre, dunque, nella riforma annunziata, pallide le prime ed ancora spesse le seconde. È certamente una luce il fatto che il ministro abbia riconosciuto che la misura cautelare è spesso un abuso e un’emergenza che reclama una soluzione non più differibile. È ancora

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QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

 Avvocati Giovanni Fioresta e Piero Funaro –  Modello di eccezione di incostituzionalità degli articoli 168-bis del codice penale, 550 del codice di procedura penale e 73, comma quinto, decreto del presidente della repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, per violazione degli articoli 3 e 27, comma terzo della costituzione.        È necessario premettere che l’istituto della messa alla prova prevede la possibilità per l’imputato di ottenere l’estinzione  del reato, ponendo in essere condotte finalizzate all’eliminazione  delle conseguenze del reato, risarcendo il danno ed effettuando  lavori  di pubblica utilità. La messa alla prova dell’imputato può essere concessa solo  ove il giudice ritenga possibile formulare una prognosi favorevole circa la futura astensione da  parte  dell’imputato  dalla  commissione  di ulteriori reati e ancor prima non vi siano elementi per una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129  del  codice  di  procedura penale (art. 464-quater, comma 3 del codice di procedura penale). La recente modifica intervenuta sul quinto  comma  dell’art.  73 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990 (di cui all’art. 4, comma terzo, decreto-legge 20 marzo 2023, n. 123, convertito dalla legge 13 novembre 2023, n. 159), che ha innalzato il  limite  massimo di pena previsto per detta ipotesi delittuosa – portandolo da quattro anni di reclusione a cinque anni -, tuttavia, impedisce  all’imputato di accedere all’istituto della messa alla  prova,  in  quanto  l’art. 168-bis del codice penale lo consente per  i soli  reati  punti  con «pena edittale detentiva non superiore nel massimo  a quattro  anni, sola, congiunta o alternativa alla pena  pecuniaria»  oppure «per  i delitti indicati dal comma 2 dell’art. 550 del  codice  di  procedura penale» ovvero per i delitti per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio da parte del pubblico ministero. Come spesso accade negli ultimi anni, la iperproduzione di leggi, promulgate in fretta e senza le opportune analisi, lascia profondi buchi normativi, provocando gravissime disparità di trattamento anche evidenti, con conseguente necessità di attenzionare la Corte Costituzionale. A seguito della citata modifica, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 DPR 309/90 è stato escluso dall’alveo dei delitti per i quali è possibile definire il giudizio con le forme della messa alla prova, a causa della mancata previsione (mediante rinvio ai criteri sopra menzionati) nel novero dei reati per i quali l’art. 168-bis del codice penale può trovare applicazione, essendo soddisfatti tutti gli altri requisiti. L’esclusione dall’applicazione dal detto istituto estintivo appare incostituzionale, in quanto – per i motivi meglio esplicitati nel prosieguo – comporta una disparità di  trattamento  rispetto  a situazioni analoghe ovvero addirittura deteriori, oltre che a porsi in contrasto con la finalità rieducativa di cui all’art. 27 della Costituzione. Si ritiene infatti che la disciplina risultante dal combinato disposto degli articoli 168-bis  del  codice  penale  –  550  del  codice  di procedura penale – 73, comma quinto,  decreto  del  Presidente  della Repubblica n. 309/1990 sia contraria ai  principi  di  uguaglianza  e ragionevolezza (art. 3 della Costituzione) e di finalità rieducativa della pena (art. 27 della Costituzione). Quanto al principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, infatti, si evidenzia che la recente riforma introdotta con decreto legislativo n. 150 del 2022 aveva ampliato il novero dei reati per i quali può essere disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova, tra l’altro inserendo alla lettera c) del secondo comma dell’art. 550 del codice di procedura penale (casi di citazione diretta a giudizio) la fattispecie prevista  dall’art.  82, primo comma, decreto del Presidente della Repubblica n. 309/1990, proprio in materia di delitti concernenti le sostanze stupefacenti. Il delitto previsto dal primo comma del citato art. 82 punisce la condotta di chi «pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze,  ovvero  induce una persona all’uso medesimo» con la pena della reclusione da uno a sei anni, oltre alla multa. Risulta di lampante evidenza l’identità dei beni tutelati dalle due fattispecie suindicate (quella di cui all’art. 73 comma V e 82), anche perché poste nella medesima disposizione legislativa, a soli 9 articoli di distanza. Sotto altro profilo, colui il quale commetta il delitto ritenuto dal legislatore più grave, vale a dire quello di cui all’art. 82 dpr 309/90 alla luce della più elevata pena edittale, si troverà a godere del beneficio della messa alla prova, a differenza dei soggetti puniti per la condotta edittalmente più lieve commessa dopo l’entrata in vigore della riforma. Ne discende l’evidente disparità di trattamento tra le due fattispecie: benché aventi ad  oggetto  identico  bene  giuridico  e nonostante lo stesso legislatore abbia ritenuto più grave il delitto di cui all’art. 82 decreto del Presidente  della  Repubblica  citato, sanzionandolo con pena edittale maggiore, solo  per  quest’ultimo  sarà possibile accedere all’istituto della messa alla prova. Il citato irragionevole trattamento certamente è conseguenza del miope intervento legislativo volto, nell’ormai consueta ottica punitiva, a consentire l’irrogazione della custodia in carcere anche all’ipotesi lieve di cui in parola, senza considerare i risvolti applicativi delle ulteriori norme.    Prima della riforma del 2023 suindicata, infatti, il delitto di cui al comma V dell’art. 73 rientrava nei casi di citazione diretta a giudizio, mentre a seguito della riforma esso è stato escluso, sia in ragione dei nuovi limiti edittali che per l’omessa indicazione nella disposizione procedurale. Si tratta dunque di un effetto della riforma non immediatamente evidente, in quanto mero riflesso dell’aumento  della  pena  edittale massima. Tuttavia, quand’anche l’esclusione della fattispecie di cui si discute dal novero dei reati per i quali è  prevista  la  citazione diretta del p.m. e dei reati per i quali è consentita la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato fosse  frutto  di una precisa e consapevole scelta del legislatore, si osserva  che,  a mente del  principio  di  ragionevolezza  e  di  uguaglianza di cui all’art. 3 della  Costituzione,  tale  scelta  sarebbe   ugualmente incostituzionale, in quanto si tratterebbe di una scelta arbitraria e non già discrezionale. Non si intravvedono validi motivi, infatti, per cui il responsabile del più grave delitto di cui all’art. 82

QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE Leggi tutto »

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