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RIPARAZIONE PER (IN)GIUSTA DETENZIONE: I LIMITI AL RISTORO PER LA CUSTODIA CAUTELARE “AL DI QUÀ” DEL RAGIONEVOLE DUBBIO

di Domenico Commodaro[1] e Gessica Veronica Golia[2]  Sommario 1. Inquadramento normativo – 2. Profili procedurali – 3. L’ingiustizia della custodia nella forma o nella sostanza – 3.1. L’ingiustizia formale – 3.2. L’ingiustizia sostanziale – 3.2.1. Gli incerti contorni della colpa grave – 3.2.2. Riparazione e diritto al silenzio – 3.3. Erroneo ordine di esecuzione – 4. Il quantum dell’indennizzo. 1. Inquadramento normativo. La prima elaborazione di istituti di natura riparatoria a tutela dei cittadini, rispetto all’operato delle Autorità, si deve alla dottrina illuministica e, in particolare, ai criminalisti francesi che ne individuavano il fondamento nel patto sociale, fonte, com’è noto, di obbligazioni reciproche tra lo Stato e i cittadini, donde una responsabilità sostanzialmente “contrattuale”. Senza indugiare in poco utili ricostruzioni storiche, è sufficiente ricordare che l’addentellato costituzionale della riparazione in esame si individua nell’art. 24 co. 4 Cost. e che l’istituto odierno della riparazione per ingiusta detenzione è disciplinato dagli artt. 314 e 315 c.p.p. Tale disciplina è stata introdotta dal Legislatore italiano nel 1988, in ottemperanza all’obbligo posto dall’art. 5 par. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, a mente del quale «Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione a una delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione». Detto principio fa eco all’art. 9 par. 5 del Patto Internazionale dei diritti civili e politici[3] («Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha pieno diritto a un indennizzo»), il quale, a sua volta, riecheggia nell’art. 85 dello Statuto della Corte Penale internazionale (“Chiunque sia stato vittima di un arresto o di una detenzione illegale ha diritto a un risarcimento effettivo”). Dunque, per fronteggiare l’ineliminabile alea che caratterizza la giurisdizione penale, ogni ordinamento è tenuto a dotarsi di strumenti rimediali che, ex post, garantiscano una qualche forma di ristoro al cittadino che finisca per l’incappare in tale alea. Con l’istituto di cui agli artt. 314 e 315 del codice di rito, l’Italia, dunque, segue tali coordinate sovranazionali, tuttavia discostandosene, a ben vedere, in una duplice direzione: per un verso, ampliandone l’ambito di applicazione (con la figura della c.d. ingiustizia sostanziale); per altro verso, ponendo requisiti più stringenti per l’effettiva concessione del ristoro[4].   2. Profili procedurali. La giurisprudenza non ha esitato a definire la riparazione per ingiusta detenzione come un’azione sostanzialmente civilistica, che si svolge in sede penale per ragioni di opportunità. Sul piano procedurale, la domanda deve essere proposta, a pena di inammissibilità, entro 2 anni dalla data di irrevocabilità della sentenza di proscioglimento (o di condanna, nel caso di custodia cautelare sofferta in eccesso rispetto alla pena irrogata), o dalla data di notifica del provvedimento di archiviazione. Competente è la Corte d’Appello penale del distretto in cui si trova l’Autorità Giudiziaria che ha emanato il provvedimento applicativo della misura cautelare, di cui si chiede il ristoro; il procedimento si svolge con il rito camerale di cui all’art. 127 c.p.p. A proposito dei soggetti legittimati, occorre aggiungere che nel caso in cui l’interessato sia deceduto prima della irrevocabilità della sentenza assolutoria, l’indennizzo – in forza del rinvio operato dall’art. 314 c.p.p. alla disciplina dell’errore giudiziario – può essere successivamente richiesto anche dai congiunti elencati nell’art. 644, comma I, c.p.p., i quali sono legittimati iure proprio, e non iure hereditario, a presentare la relativa domanda[5]. Non differente è l’ipotesi in cui, in luogo di una sentenza di assoluzione, venga in rilievo un provvedimento di archiviazione, richiamato in subiecta materia dal comma 3 dell’art. 314 c.p.p.[6] Fa eccezione, invece, l’ipotesi in cui l’interessato sia deceduto prima che il giudice di merito pervenga ad una sentenza assolutoria nei suoi confronti, sicché, con riferimento alla sua posizione, il processo si sia concluso con un provvedimento di archiviazione per morte del reo. Con riferimento a tali evenienze, la Corte Costituzionale, con sentenza 23 dicembre 2004 n. 413, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina della riparazione per ingiusta detenzione, ha affermato il principio per cui la di-sposizione di cui all’art. 314 co. 3 c.p.p. deve essere letta nel senso che “il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per ‘morte del reo’, qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato” [7](v. Corte Cost. n. 413/2004). Orbene, a proposito degli attori coinvolti, a latere debitoris, sia consentito rilevare come la difesa erariale, che rappresenta ex lege il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nella prassi, sia solita non opporsi alla domanda di equa riparazione (quale che sia la vicenda sottesa all’istanza, quali che siano i fatti di reato contestati, quale che sia il compendio probatorio)[8], limitandosi a chiedere la integrale compensazione delle spese[9]. Maggiormente significativo si rivela invece, solitamente, l’apporto conferito al giudizio dalla Procura Generale. 3.L’ingiustizia della custodia nella forma o nella sostanza. Il legislatore italiano ha ideato una forma di ristoro per rimediare alla privazione della libertà personale, subita per l’applicazione di una misura cautelare che sia stata inflitta in assenza dei presupposti previsti dalla legge (c.d. ingiustizia formale), o a cui, comunque, abbia fatto seguito una sentenza di assoluzione (c.d. ingiustizia sostanziale), purché l’imputato non abbia dato causa o concorso a dare causa alla detenzione con dolo o colpa grave. La riparazione di cui trattasi ha natura di indennizzo, e non già di risarcimento (per come pure in passato talvolta è stato sostenuto), non essendo originata da un atto illecito: diversamente opinando, peraltro, sul ricorrente peserebbe un onere probatorio decisamente gravoso, dovendo provare tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, di cui all’art. 2043 c.c.[10]. D’altro canto, potrebbe ravvisarsi un atto viziato solo nell’ordinanza di custodia cautelare adottata in difetto dei presupposti di cui agli artt. 273 e 280 c.p.p., che integra la c.d. ingiustizia formale, con cui inizierà la nostra breve trattazione.   3.1. L’ingiustizia formale. Ai sensi dell’art. 314 co. II c.p.p., si definisce affetta da c.d. “ingiustizia formale” la custodia cautelare disposta con un provvedimento emesso o mantenuto in assenza delle condizioni di applicabilità di cui agli artt.

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SAN GIORGIO SESSANTAQUATTRO ANNI DOPO, TRA SOGNO E REALTÀ. PARLA GIORGIO SPANGHER

di Angela La Gamma* – È innegabile che l’attuale sistema processuale di tipo accusatorio sia in profonda crisi: il codice di procedura penale del 1988, a causa delle continue interpolazioni e riforme asistematiche, ha perso la sua connotazione accusatoria, per assumere, pian piano, una inquietante veste inquisitoria.  Al fine di arginare tale deriva, l’UCPI ha pensato di elaborare, attraverso l’opera di una commissione istituita ad hoc, una bozza di legge-delega contenente proposte di riforma dell’attuale codice di procedura penale. Queste proposte di riforma sono state presentate nel corso di un evento che si è svolto il 14 e il 15 marzo scorsi sull’isola di San Giorgio Maggiore (Venezia), presso la Fondazione Giorgio Cini. La scelta del luogo non è stata casuale: nel 1961, infatti, nei locali della predetta fondazione studiosi del calibro di Carnelutti, Vassalli, De Marsico, Foschini, solo per citarne alcuni, gettarono le basi del nuovo codice accusatorio, in riforma di quello inquisitorio all’epoca vigente. Stante la rilevanza dell’evento, nonché della tematica ad essa sottesa, abbiamo pensato di offrire ai nostri lettori il punto di vista di uno dei massimi procedural-penalisti italiani, il professor Giorgio Spangher, il quale ci ha illustrato la sua visione prospettica in merito alla possibile riforma del codice di procedura penale; un piccolo inciso, l’intervista al professore è stata permeata ed infiammata da quel sacro fuoco della passione per la materia che lo anima da una vita e che è veramente un peccato non possa trasparire nello scritto. Professore, Le chiedo, innanzitutto quale è la sua impressione a caldo sull’evento del 14 e 15 marzo scorsi? «Sicuramente è stata una bella esperienza che è andata anche al di là delle aspettative, perché all’inizio si pensava potesse essere solo una mera ricognizione delle criticità. Orbene; è noto che il processo penale italiano sia un processo assolutamente dissestato su cui si è intervenuto con modifiche occasionali ed a-sistematiche; si tratta di un sistema che non riesce ad avere alcuna organicità. Ed allora, in un simile contesto, l’idea di Venezia, di riprendere l’esperienza del 1961 da cui era nato il seme del sistema accusatorio dell’88 è stata una idea vincente, anche perché, con gli anni, i problemi si sono accresciuti. Nel 1961, ad esempio, non c’era la criminalità organizzata, non c’era il sistema delle fonti attuale; l’evento di Venezia, quindi, è stato un’esperienza e un’occasione di confronto interessante, perché, quantomeno, si è tracciata la direzione di una possibile riforma, che poi è quella di un sistema accusatorio che non può essere quello dell’88, ma che, certamente, deve avere nell’accusatorietà i suoi cardini fondamentali di base». Scendiamo ora nello specifico delle proposte riformatorie, partendo dalle indagini preliminari e dalle questioni ad esse connesse, alcune proposte avanzate e illustrate a San Giorgio prevedono, ad esempio, di limitare e regolamentare le proroghe delle indagini,  o per quel che concerne le misure cautelari personali, di individuare un giudice funzionalmente competente ovvero di eliminare ogni presunzione legale di sussistenza delle esigenze cautelari o di limitare la custodia cautelare disposta per le esigenze di cui alla lett. C) dell’art. 274 c.p.p. solo a casi determinati. Con riferimento alle misure cautelari reali, invece, si è proposto di porre dei limiti ai sequestri attraverso, ad esempio, la previsione di gravi indizi di concreta sussistenza del fatto. Orbene, queste proposte, una volta che dovessero essere inserite nell’impianto codicistico, determineranno una maggiore garanzia dei diritti della persona indagata?  «Allora partiamo da un dato. Nelle riforme del processo penale si usa l’espressione “tutto si tiene”; cioè, non è che si può intervenire, ad esempio, sulle impugnazioni, senza tenere in considerazione la fase dibattimentale e prima ancora quella delle indagini, ma occorre che la riforma sia organica e ricostruisca un sistema che organico, ormai, non lo è più. Naturalmente non è possibile mandare le lancette dell’orologio indietro fino all’88 perché l’idea di una indagine preliminare snellissima non è sostanzialmente più praticabile; e però occorre cercare di ridimensionare la fase dell’indagine da quel gigantismo che ha assunto. E le proposte di riforma, che mirano a vincolare maggiormente il pubblico ministero a tempistiche determinate ed a favorire un controllo del giudice, soprattutto sulla inazione del p.m., appaiono importanti. Già una riduzione dei termini di durata delle indagini era stata operata dalla riforma Cartabia, ora si cerca di ridurli ulteriormente, ma si fa un’operazione aggiuntiva. Il giudice non sarà più il giudice dell’atto, il famoso giudice dell’88 e non sarà neanche il giudice del procedimento. Sarà il giudice del fascicolo e ciò gli consentirà di controllare quello che fa il pubblico ministero senza intervenire. Al giudice viene attribuito un ruolo di garante, di vigile, per evitare l’inerzia del PM e le proroghe chieste dopo mesi di inattività. Così come, per quanto riguarda le limitazioni all’incidente probatorio, sarebbe opportuno che lo stesso si svolgesse, non innanzi al Gip, bensì dinnanzi al giudice chiamato a decidere: solo così può essere ripristinato il canone dell’immediatezza. L’art. 392 c.p.p. è scritto male e va riformulato con riferimento non ad un giudice qualsiasi, bensì al giudice del contraddittorio e della decisione. Altra proposta rilevante, passando alla tematica delle misure cautelari, è l’individuazione di un giudice della cautela, così come sono importanti, a mio avviso, gli ulteriori limiti che vengono previsti per l’applicazione delle misure custodiali. E ciò sia per ciò che concerne gli interventi sull’ultimo periodo della lettera C) dell’art. 274 c.p.p., sia per quel che riguarda la volontà di eliminare le presunzioni di cui all’art. 275 c.p.p. che non c’erano nel codice dell’88. Stessa cosa per le misure reali; anche in questo caso la previsione espressa di limiti, finora solo individuati dalla Cassazione ma mai esplicitati in una norma, è utile per garantire le legalità anche nel c.d. “processo alle cose”. Certo, un qualche spiraglio di garantismo si è iniziato a vedere nella giurisprudenza della Suprema Corte da quando è Presidente Margherita Cassano, la quale, a differenza di Giovanni Canzio, è più legata al dato normativo e meno all’efficientismo; Canzio vedeva il processo come una macchina che deve funzionare. E invece Margherita Cassano è più orientata

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IL DIRITTO,LA PROVA E I COSTI: DIVAGAZIONI

di Fabrizio Cosentino* 1. Uno dei punti fondamentali di ogni ordinamento giuridico riguarda le prove da ritenere ammissibili e il loro grado di sufficienza ai fini di una pronuncia di condanna, civile o penale. L’importanza delle procedure, per la salvaguardia dei diritti delle parti contrapposte – ma al contempo come direttiva per il giudice – è sempre stata posta all’attenzione del legislatore, perché non basta affermare un diritto, se non si sa in che modo lo si può far valere: l’accertamento di un diritto e l’imposizione di una sanzione riuscirebbero impossibili se  non si sapesse come compiere l’accertamento e come imporre la sanzione. Così avvertiva Antonio Azara, presidente di sezione della Corte di Cassazione, all’epoca delle nostre – tuttora vigenti – codificazioni, aggiungendo: L’evoluzione degli istituti di diritto sostanziale procede nel complesso di pari passo con quello degli istituti di diritto processuale quando manca la sincronia d’insieme il vero progresso si arresta… La difficoltà per la formazione di un buon codice di procedura sta nel trovare un giusto mezzo nella tutela del diritto fra la rapidità e la sicurezza. La meticolosità e la sovrabbondanza di norme si presta ai cavilli e porta lungaggini di giudizi che sono grandemente dannose; l’eccessiva brevità ristrettezza può determinare incertezza di applicazione nei casi pratici rigore e plasticità che sono requisiti essenziali della norma procedurale non vanno facilmente insieme ma sono certo accordabili è un buon sistema di diritto processuale deve dare alle parti la possibilità di un pronto accertamento del diritto e di una sicura protezione e al giudice la possibilità di giungere presto a una chiara e precisa decisione con piena cognizione di causa ([1]). 2. Nei sistemi basati sul contraddittorio, spetta a chi promuove il giudizio, la parte o il P.M., fornire la prova dei fatti costitutivi fondamentali del diritto dedotto o della pretesa punitiva fatta valere con la richiesta di condanna (art. 2697 c.c.; arg. ex artt. 187 e 190 comma primo, prima parte). Vale pertanto il criterio generale, per cui ciascuna delle parti in causa è tenuta a provare i fatti che implichino l’applicazione di una norma sfavorevole all’altra parte. Il bilanciamento e la distribuzione dell’onere della prova da parte del legislatore sono operazioni estremamente delicate.  In un giudizio penale, ad es., l’accusa è tenuta a provare il tenere o l’agevolare il gioco d’azzardo e il prenderne parte, senza esserne mero connivente, e – ai fini dell’aggravante – anche dell’entità della posta in gioco (art. 718, 720 c.p.). In tal modo, si diminuisce il rischio che l’imputato venga condannato benché innocente, ma si aumenta contemporaneamente il rischio che l’imputato venga assolto, benché colpevole. La fondamentale presunzione di non colpevolezza sino alla condanna definitiva (art. 27 comma secondo, Cost.) in presenza di (almeno) un doppio grado di giurisdizione, comporta analoghi effetti, anche se non è esente da aporie: un secondo giudizio potrà correggere gli errori del primo, in un senso (condanna) o nell’altro (assoluzione), ma lascerà lo spazio – soprattutto nell’opinione pubblica – al dubbio (chi ha visto bene, il primo o il secondo giudice?). Il sistema americano, per i reati basati sul verdetto di una giuria, non conosce questo problema, poiché l’appello può essere fondato soltanto su elementi di procedura (in primis, le corrette istruzioni date dal giudice ai giurati) ([2]). Anche le rigide regole procedurali pongono evidenti problemi: quid iuris in presenza, ad es, di una intercettazione illegale, o di una confessione acquisita in violazione dei c.d. “Miranda warnings” ([3]), che pure provino con schiacciante evidenza la commissione del fatto da parte dell’imputato, in assenza di altri elementi agli atti? Si impone l’assoluzione, a tutela di tutti gli innocenti che incappano nelle maglie della giustizia e a protezione degli abusi, secondo il principio “meglio un colpevole in più in libertà che un solo innocente in carcere”, eppure la coscienza comune istintivamente soffre (in questo caso, è la ragione che prevale) ([4]). La presunzione di innocenza, inoltre, sembra soffrire un vulnus, laddove il singolo incolpato viene inserito in processi dai grandi numeri, rischiando di venire schiacciato dalla mole processuale, e dalla difficoltà di cogliere ogni singolo aspetto individuale, e quindi di “individualizzare” il giudizio: le camere penali puntano il dito sul tasso di sommarietà e di errore che i processi di massa recano inevitabilmente con sé, senza contare che nei “grandi” processi, i costi di difesa possono diventare insopportabili per gli imputati marginali. 3. È evidente che la legge, prima di fare certe scelte, ne valuta i costi. Condannare una persona senza aver raggiunto un’apprezzabile soglia di evidenza costa (dal punto di vista morale ed economico), in quanto comporta il rischio di punire chi non ha commesso il fatto, minando, al margine, la forza produttiva della società, e imponendo i costi dell’esecuzione della pena. Spingersi sino a richiedere la prova “diabolica” della colpevolezza parimenti ha un costo, perché vi è il rischio di un intollerabile tasso di assoluzioni e, al limite, nessun colpevole potrebbe essere condannato, nemmeno il reo confesso, compromettendo gravemente l’ordine pubblico. Il punto di giusto equilibrio non è definito, e non può essere definito, se non con un margine di incertezza. Vi sono alcune “regole”, anche non scritte, quotidianamente in uso da parte dei giudici per raggiungere il convincimento su determinati fatti, riguardo ad esempio al nesso causale (tipicamente il c.d. giudizio controfattuale), ma occorre fare i conti con i pregiudizi logici, i c.d. bias cognitivi, che possono influenzare negativamente le decisioni. Ai fini dell’applicazione di una misura cautelare personale o della stessa condanna, ad es., il giudice può farsi influenzare dai precedenti penali dell’imputato (più sono, e più sono specifici, più viene ritenuto probabile che l’imputato abbia nuovamente delinquito) o dai proprio convincimenti personali circa il particolare fatto da giudicare: in determinati reati, ad es., gioca il pregiudizio contro o a favore della donna, o nei confronti degli orientamenti di genere; nei reati concernenti gli stupefacenti, in quelli commessi da immigrati o da persone di etnia diversa, un’eventuale accentuata avversione personale, o al contrario un’eccessiva propensione alla tutela del diverso. La regola del ritenere la

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IL CONSIGLIO D’EUROPA ADOTTA UNA CONVENZIONE STORICA PER LA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DEGLI AVVOCATI

 a cura di M. Valeria Ferrara* – Il 13 marzo 2025, il Consiglio d’Europa ha adottato una convenzione internazionale senza precedenti, finalizzata a tutelare la professione forense a livello internazionale. La Convenzione risponde a un aumento preoccupante di attacchi, intimidazioni e interferenze nella professione forense, che minano l’indipendenza della toga, il diritto alla difesa e spesso anche la sfera privata. Nel 2024, infatti, si è registrato un incremento del 40% dei casi di minacce e violenze contro gli avvocati in Europa rispetto all’anno precedente, con un allarme crescente in alcune regioni come l’Europa dell’Est e il Sud Italia. In Italia, il Consiglio Nazionale Forense ha recentemente riportato che il 45% degli avvocati ha subito almeno una forma di minaccia o intimidazione nel corso della propria carriera, con un aumento del 20% nel 2024 rispetto al 2023. Questa proposta prevede che gli Stati membri adottino misure concrete per tutelare gli avvocati da aggressioni fisiche, minacce e molestie, e che garantiscano indagini efficaci in caso di violazioni. Inoltre, stabilisce che le associazioni professionali possano operare in modo autonomo e indipendente per combattere il fenomeno. La firma ufficiale del trattato è prevista per il 13 maggio 2025, durante la riunione dei Ministri degli Esteri del Consiglio d’Europa a Lussemburgo. Per entrare in vigore, la Convenzione dovrà essere ratificata da almeno otto Paesi, di cui sei membri del Consiglio d’Europa. La conformità agli standard stabiliti sarà monitorata da un gruppo di esperti e da un comitato delle parti. Leonardo Arnau, coordinatore della Commissione Diritti Umani del Consiglio Nazionale Forense, ha espresso soddisfazione per l’adozione del trattato, sottolineando l’importanza di difendere l’indipendenza degli avvocati, soprattutto in questo periodo storico in cui le minacce e intimidazioni sono in aumento. La Convenzione è vista come un passo cruciale nella lotta per garantire il libero esercizio della professione legale in tutto il continente europeo, ma tanto si può ancora fare. A livello globale, infatti, paesi come Cina, Iran, Honduras, Filippine, Colombia, Messico e Pakistan sono considerati tra i più pericolosi per gli avvocati. Ci si augura, pertanto, che la firma di questa Convezione sul tema possa essere solo la prima di altri provvedimenti concreti in tutto il mondo.   *Osservatorio Avvocati Minacciati

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L’ENTICIDIO DELLA PERSONNE MORALE MAFIOSA: ANALISI E PROBLEMATICHE

 I componenti dell’Osservatorio 231/2001 della Camera Penale “A. Cantafora” di Catanzaro* –   “Non furono, di regola, speculatori temerari e senza scrupoli, nature di avventurieri economici, quali se ne incontrano in tutte le epoche della storia dell’economia, o semplicemente gente molto danarosa; coloro che crearono questa trasformazione esternamente invisibile ma decisiva per l’affermazione del nuovo spirito nella vita economica: ma sibbene uomini formati nella dura scuola della vita, calcolatori ed audaci al tempo stesso, ma soprattutto riservati e costanti, completamente dedicati all’oggetto della loro attività, con opinioni e principi severamente borghesi”.  Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1922.   La costante elaborazione dottrinale in ordine al fenomeno dell’ingerenza mafiosa nell’economia a libero mercato, ha negli anni realizzato un’accurata sintesi delle differenti prospettive analitiche di approccio alla questione, essenzialmente incentrate sullo studio delle relazioni e degli scambi tra attori economici e realtà consortili (Sciarrone e Storti 2019), sulle caratteristiche dell’imprenditore colluso con le organizzazioni criminali (Dalla Chiesa 2013) ovvero sui vantaggi delle imprese mafiose (Arlacchi 1983) evidenziando in particolare come la gestione di transazioni complesse, interazioni economiche e attività lecite e illecite a livello globale, proprie dei sodalizi di tale natura, richieda ingenti risorse finanziarie, basi operative e logistiche decentrate e una organizzazione coerente con tali necessità in modo da coniugare efficacia, efficienza e segretezza. È chiaro che dinanzi a tali esigenze, come emerso giudizialmente (si pensi più di recente e fra le altre, alle dinamiche trapelata nel contesto dell’indagine Aemilia), irrompe la potenzialità delle strutture imprenditoriali ad attirare l’attenzione degli ambienti criminali, così favorendo l’avvicinamento tra questo tipo di associazioni e le società commerciali. Del resto, tali dinamiche, erano note sin dai lavori preparatori alla Legge “Rognoni-La Torre”. Nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge si sostiene, infatti, la necessità di «misure che colpiscano la mafia nel patrimonio, essendo il lucro e l’arricchimento l’obiettivo di questa criminalità che ben si distingue per origini e funzione storico-politica dalla criminalità comune e dalla criminalità politica strettamente intesa. L’espansione dell’intervento mafioso e l’articolazione complessa della mafia, che, mentre non trascura alcun settore produttivo e di servizi, trova nell’intervento pubblico la sua principale committenza, esigono oggi più puntuali strumenti proprio nell’ambito di arricchimenti illeciti e dei reati finanziari. La mafia, peraltro, opera ormai anche nel campo delle attività economiche lecite, e si consolida l’impresa mafiosa, che interviene nelle attività produttive forte dell’autofinanziamento illecito […], e mira all’accaparramento dell’intervento pubblico […] scoraggiando la concorrenza con la sua forza intimidatrice» (Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. Sup. Mag., 1982, 3, 243), con ciò intendendosi la manifesta volontà di arginare quella peculiare vocazione imprenditoriale che siffatte organizzazioni avevano già palesato. Sicché il nuovo reato associativo fu considerato strumento di repressione certamente più efficace rispetto alla fattispecie “semplice”, esonerando l’autorità inquirente dalla prova di un programma criminoso cui riconnettere il possibile arricchimento dalla societas sceleris e pertanto rendendo sufficiente, per la punibilità del fatto associativo secondo il paradigma dell’art. 416 bis c.p., la sola dimostrazione del metodo mafioso utilizzato dall’organizzazione criminale e la prova della sua preordinazione all’ottenimento di profitti (o anche solo vantaggi) ingiusti. Astenendosi da considerazioni più prettamente sociologiche o storiografiche, quel che rileva in questa sede è che il predetto accostamento speculativo tra enti leciti e enti illeciti, ha di fatto indotto l’ingresso di un terzo gruppo di soggetti nel rapporto bilaterale, di pura lotta, tra lo Stato e il cd. “Antistato”, indentificato negli enti collettivi che nascono dall’iniziativa privata e che si propongono originariamente di realizzare fini non solo penalmente irrilevanti, ma costituzionalmente garanti, tra i quali si annoverano le società commerciali, soggetti collettivi che trovano la loro ragion d’essere nel libero esercizio, appunto, dell’iniziativa economica. Proprio la potenziale intersezione, ai limiti sovente della identificabilità, tra associazioni avente stampo mafioso e società commerciali ha determinato una ferma risposta legislativa, finalizzata a reprimere – o prevenire – le differenti forme di cointeressanza tra i due contesti. Nell’impossibilità di esplorare ogni aspetto della materia d’interesse, saranno nello specifico valorizzate quelle misure – di recente introduzione – per le quali all’accertamento della sussistenza di un’attività economica funzionale al perseguimento di finalità illecite mafiose, consegua finanche la liquidazione – latamente intesa – dell’attività reputata insanabile tramite un procedimento definito in dottrina “enticidio”[1] in una chiara e netta logica distruttiva evidentemente divergente con quella posta a fondamento del complessivo impianto ordinamentale riservato alla responsabilità amministrativa dei soggetti collettivi. L’art. 24 ter d.lgs. n. 231/2001, sul punto, pone non pochi problemi interpretativi. In primo luogo, il richiamo operato alla circostanza per la quale debba applicarsi la sanzione pecuniaria o l’interdittiva qualora l’ente sia chiamato a rispondere della consumazione di reati associativi (artt. 416 e 416-bis c.p.) e dei delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso ovvero al fine di agevolare l’attività dell’associazione criminosa o mafiosa, richiede senza dubbio la prodromica individuazione, non sempre agevole, delle effettive modalità di estrinsecazione di tale agire ovvero della pervicacia intimidatoria propria del metodo in questione sì da delineare adeguatamente il delitto presupposto, fra una molteplicità di fatti integranti la condotta tipica, idoneo all’applicazione dell’imperativo. Ma ancor più decisa si palesa la scelta riportata all’ultimo comma della disposizione che precisa come l’ente lecito – o la sua unità organizzativa – debba essere sanzionato con la dissolution prevista dall’art. 16, comma 3 del medesimo decreto, qualora si accerti che sia stato «stabilmente utilizzato allo scopo unico di consentire o agevolare la commissione dei reati indicati nei commi 1 e 2», quindi, tra gli altri, del reato associativo mafioso. Innegabile la portata innovativa del precetto, lo stesso diverge in modo assoluto tuttavia – si è detto – con il complessivo impianto sotteso alla normativa del 2001, rivolta generalmente a forme di criminalità d’impresa occasionale da “responsabilizzare” e redimere sul sentiero della legalità, ossia ad enti – o a formazioni ad essi assimilabili – ordinariamente agenti in contesti leciti e solo in parte deviati da cellule criminali. A riscontro dell’assunto, la circostanza che già precedentemente all’introduzione della norma in parola, il Decreto dedicava un unico cenno all’art. 16, comma III,

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UN PRINCIPIO DISABITATO: L’UMANITÀ DELLE PENE

di Vittorio Manes* – I costituenti non avrebbero potuto essere più chiari: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, recita senza indugi la prima parte dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, a cui fa eco l’art. 3 della CEDU, vietando perentoriamente, oltre la tortura, tutte le “pene o i trattamenti inumani e degradanti”. Ma questo basilare canone di civiltà – scolpito in molte costituzioni e carte dei diritti nel panorama internazionale – è molto più risalente, ed è parte dei presupposti stessi del legittimo esercizio della potestà punitiva, ossia dei minima moralia – per così dire – che il Leviatano deve sempre rispettare: regola di esclusione, dunque, ed al contempo condizione di legittimazione dello ius puniendi. Nel suo nucleo assiologico, esso ci ricorda che la pena non può mai essere barbarie, che lo Stato non deve mai abbassarsi al livello del crimine, anche dell’autore del reato più efferato, spregevole e odioso: ed anzi, ammonisce che, in una democrazia matura, il potere deve sempre avere il coraggio di combattere persino la criminalità più spietata – come scrisse il presidente della Corte suprema israeliana Aharon Barak – con una mano legata dietro la schiena. Anche e soprattutto durante la fase esecutiva della pena, quando il reo è consegnato nelle mani dello stato, ed è privato delle sue libertà più intime e primordiali: ma non per ciò può essere privato di quel valore che non si acquista per meriti né può perdersi per demeriti, la dignità umana, appunto. È questa soglia insuperabile, che vieta di rispondere alla brutalità con la brutalità, alla violenza con la violenza, alla crudeltà con crudeltà, che separa, del resto, “pena” e “vendetta”. E che incarna l’essenza stessa dello stato di diritto, dove il potere assoggetta se stesso alla preeminenza del diritto. È appena il caso di rammentare quante e quanto significative siano le implicazioni di questo fondamentale limite al potere di punire, rappresentando un argine insuperabile – ad esempio – contro pene corporali come contro la pena detentiva perpetua, dove il divieto di trattamenti inumani è posto in corrispondenza biunivoca con il diritto alla speranza (right to hope), rendendo ammissibile l’ergastolo solo se de iure e de facto “riducibile” con la liberazione condizionale; ed offrendo anche fondamentali indicazioni di senso in ordine ai “parametri minimi di umanità” che devono essere rispettati nella fase di esecuzione della pena detentiva (in termini di spazio vitale in cella, di salubrità dell’ambiente, di contatti affettivi, etc.), conformemente a quanto del resto stabilisce l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario (l. n. 354 del 1975), secondo il quale “[i]l trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”. Sennonché, a dispetto del suo lignaggio e della sua portata “grandangolare”, a noi pare che questo principio sia rimasto in ombra, e per molti aspetti sia stato dimenticato: peggio, forse, che sia dato quasi per scontato. Anche dalla Corte costituzionale, e dalla sua giurisprudenza, dove la finalità rieducativa ha via via guadagnato sempre maggior spazio, mentre il principio di umanità della pena – fondamento e limite della pena pubblica – fatica a trovare una compiuta valorizzazione. Ne è prova la stessa, coraggiosa sentenza sulla c.d. affettività in carcere, la sentenza n. 10 del 2024, che non ha nemmeno considerato questo parametro (pur evocato dal giudice rimettente). Olimpica indifferenza ovvero ossequio formale nei confronti di una livrea che si ritiene troppo altisonante per essere scomodata? Eppure dovremmo chiederci se questo principio, così carico di possibili eccedenze assiologiche e di potenziali ricadute ermeneutiche, sia oggi davvero rispettato. L’attuale situazione delle carceri ed un tasso di sovraffollamento tornato a livelli intollerabili, con il crescente ed assillante numero dei suicidi, sono lì a ricordarci, dolenti, la distanza siderale da ogni canone di umanità.  E le condizioni nei centri di permanenza per i rimpatri sono testimonianze non meno dolorose. Una analoga distanza, del resto, è segnata dalla tolleranza ormai diffusa per le misure perennemente emergenziali che accompagnano il c.d. carcere duro, spesso al prezzo di una “desertificazione affettiva” che considera, di fatto, il detenuto come un “microbo sociale”; o dalla triste assuefazione collettiva per pene infamanti, afflittive non solo dell’immagine ma della stessa dignità della persona, come la spettacolarizzazione mediatica della condanna prima del processo. Dobbiamo prendere atto, in realtà, di una distanza non solo dai principi, ma dalla cultura che li cementa: il lessico della politica, del resto, evoca ormai quotidianamente il carcere come luogo di marcescenza, piuttosto che come luogo di recupero del reo, e ciclicamente invoca – di fronte alle più crude vicende di violenza di genere – trattamenti contrari al senso di umanità, come la sterilizzazione farmacologica di funzioni biologiche essenziali o la c.d. “castrazione chimica”. Serve, dunque, una rinnovata consapevolezza, giuridica e prima ancora culturale, forse proprio partendo dal lessico delle garanzie e dei diritti: dove il principio di umanità ambisca ad essere concepito e riconosciuto come diritto fondamentale ad una pena umana. Non si tratta, è chiaro, di una palingenesi puramente estetica o didascalica. A questo diritto dovrebbe infatti corrispondere un obbligo positivo di tutela da parte dello Stato: obbligo giuridicamente vincolante per il suo primo e principale garante ed immediatamente giustiziabile davanti alle corti, di fronte alle sue conclamate violazioni. Con gli avvocati che dovranno essere lì, pronti a sorvegliarlo e a denunciarne le ferite.   *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Bologna – Direttore di “Diritto di difesa” (pubblicato su Ante Litteram n. 2 – settembre 2024)

UN PRINCIPIO DISABITATO: L’UMANITÀ DELLE PENE Leggi tutto »

BENEFICIO PREMIALE DISCENDENTE DALLA MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO AVVERSO LA SENTENZA DI CONDANNA EMESSA ALL’ESITO DI GIUDIZIO ABBREVIATO. L’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP, APPRODI GIURISPRUDENZIALI E PROFILI DI ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE

di Vittoria Bossio – RIDUZIONE DI 1/6 AD OPERA DEL GIUDICE DELLA ESECUZIONE DELLA PENA IRROGATA IN CASO DI MANCATA IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA EMESSA A SEGUITO DELLA DEFINIZIONE DEL PROCEDIMENTO NELLE FORME DEL RITO ABBREVIATO La disposizione dell’art. 442 cod. proc. pen. è stata modificata mediante l’introduzione del comma 2-bis, per effetto dell’art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022, in conseguenza del quale quando l’imputato o il suo difensore non propongono impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena irrogata è ulteriormente ridotta nella misura di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Tale disposizione veniva introdotta in ossequio all’art. 1, comma 10, lett. b), n. 2, legge 27 settembre 2021, n. 137, recante  «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», che imponeva al legislatore delegato di «prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione». Nella stessa direzione, inequivocabilmente deflattiva, occorre richiamare la previsione dell’art. 1 comma 10, lett. a), n. 1, legge n. 137 del 2021, che impone al legislatore delegato di «modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, ai sensi dell’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale».   MODALITÀ PER RICHIEDERE LA RIDUZIONE PREVISTA DALL’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP La nuova formulazione dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede: «Il giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2- bis cpp. In questo caso, il giudice procede d’ufficio prima della trasmissione dell’estratto del provvedimento divenuto irrevocabile». La disposizione in questione, dunque, esclude dalla disciplina dell’art. 676, comma 1, cod. proc. pen., che prevede il procedimento di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. la materia della diminuente esecutiva, che colloca in un diverso e autonomo ambito processuale, nel quale non vi è alcun riferimento esplicito al procedimento de plano. Ne discende che il trasferimento in una sede processuale diversa da quella originaria – ovvero quella disciplinata dal novellato art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. – della regola attributiva della competenza, relativa alle ipotesi di cui all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., in assenza di richiami espressi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., non consente di ritenere applicabile la procedura de plano per concedere la diminuente esecutiva in esame. Ne discende che deve ritenersi affetta da nullità assoluta, rilevante ai sensi dell’art. 179, comma 1, cod. proc. pen. e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, provvedendo de plano, respinga un’incidente di esecuzione presentato al di fuori dei casi espressamente previsti dall’art. 666 cod. proc. pen. Cfr. Cass. Pen. Sezione I sentenza n. 07356/2025.   APPLICABILITÀ DELLA RIDUZIONE SOLO IN CASO DI MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO E NON NEL CASO DI RINUNCIA ALL’APPELLO PROPOSTO. La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 51180/2023 ha stabilito che la riduzione di 1/6 della pena consegue solo alla mancata impugnazione e non anche alla rinuncia di quella già presentata. La Suprema Corte premette che appare opportuno richiamare, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in sede di legittimità in merito alla portata dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., come introdotta nell’ordinamento dall’art. 24 d.lgs. n. 150 del 2022, con entrata in vigore alfine fissata al 30 dicembre 2022. La norma, collocata nell’alveo dell’art. 442 cod. proc. pen., volto a disciplinare la fase della decisione di primo grado nel rito abbreviato, stabilisce che quando né l’imputato né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente (rispetto alla riduzione per il rito a prova contratta fissata nel comma 2) ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Si è, al riguardo, precisato che la condizione processuale che ne consente l’applicazione è costituita dall’irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione ed essa, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, pur se pronunciate antecedentemente. Per vero, la ratio dell’intervento riformatore si profila individuabile nel perseguimento dello scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione della causa dopo l’emissione della sentenza di primo grado, così da evitare l’ingresso del procedimento stesso nella fase delle impugnazioni, quali che l’ordinamento in concreto consenta nel singolo caso, allorquando – trattandosi di sentenza di condanna, emessa all’esito di giudizio assoggettato al rito abbreviato – l’imputato e il difensore valutino come non sorretta da un apprezzabile interesse la prospettiva di sottoporre a nuova verifica la decisione emessa dal primo giudice e considerino, proprio in virtù della nuova opportunità offerta dalla norma, più conveniente rinunciarvi al fine di assicurare all’imputato stesso la riduzione – ulteriore rispetto a quella determinata dalla scelta del rito – pari alla frazione di un sesto della pena irrogata. È, dunque, la radicale mancanza dell’impugnazione – e soltanto essa – che, determinando l’effetto deflattivo perseguito, integra il presupposto necessario per fruire della riduzione ulteriore della pena contemplata dal comma 2-bis della norma. Conferma tale approdo la scelta che la norma ha operato per individuare il giudice competente a sancire la riduzione e, conseguentemente, il procedimento occorrente per la relativa determinazione: a provvedere deve essere il giudice dell’esecuzione; e ciò esige l’instaurazione del procedimento esecutivo, secondo le forme proprie che, in questa sede, non è necessario approfondire. Certo è che, avendo previsto l’esclusiva competenza del giudice dell’esecuzione per l’applicazione della riduzione, la norma corrobora l’approdo ermeneutico secondo cui soltanto la mancanza dell’impugnazione avverso la sentenza di primo grado integra la condizione legittimante la riduzione stessa. Se il legislatore avesse inteso applicare questa riduzione premiale alla diversa fattispecie della rinuncia

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VIETARE È IL CONTRARIO DI REGOLAMENTARE: A PROPOSITO DI REATI UNIVERSALI E GPA E DEL FALLIMENTO (ENNESIMO) DEL DIRITTO PENALE MASSIMO

di Aurora Matteucci* Nel marzo del 2023 è uscito, per Einaudi, il libro di Antonella Lattanzi, “Cose che non si raccontano”. Un’introspezione spietata, senza sconti, a tratti violenta, mani e piedi dentro l’ossessione di un desiderio che non si realizza – quello di diventare madre – incastrato nei territori ameni della medicalizzazione esasperata. Una vertiginosa ricerca del sé, in costante bilico tra esigenza di affermazione professionale, clessidre che scorrono senza sosta, idee e desideri che cadono in frantumi di fronte alla dissociazione tra la dimensione biologica del tempo e quella sociale. Lattanzi racconta, attraverso la sua esperienza, quella di molte altre donne che (legittimamente) hanno sorvegliato per anni il desiderio di maternità considerandolo rimandabile ad un dopo indefinito che non arriva più. Una storia, la sua, che lascia senza fiato, ma che al contempo restituisce ossigeno per raccontare le cose che non si ha il coraggio di raccontare, estraendole, una ad una, dalla polvere dei molti cliché che segnano, con il marchio dell’ipocrisia, ampia parte di quel che ruota intorno alla maternità e, più in generale, alla genitorialità.  Quando si ha a che fare, poi, con la gestazione per altri (il c.d. utero in affitto secondo una scelta lessicale spudoratamente negativa) il dibattito è ridotto ad una sfida tra assolutismi etici, slogan urlati, luoghi comuni tanto più odiosi quanto più irrispettosi delle implicazioni umane che ne sono coinvolte: si pensi alle difficoltà di un’intera generazione sul piano riproduttivo; o ancora alle strettoie ideologiche che impediscono alle coppie omosessuali di realizzare un progetto di famiglia alternativo a quello tradizionale. Molte persone, per ragioni diverse, di fronte al bivio tra impossibilità di fare altrimenti e tentativo di realizzare un desiderio, ricorrono all’estero, nei paesi in cui è consentita, per affidarsi alla gpa[1]. Questo perché in Italia è un reato. Tra i molti luoghi comuni che alitano le ragioni del divieto assoluto contro la gpa (e che la filosofa Chiara Lalli nel suo podcast “Affittasi Utero” per Fandango ha rigorosamente smascherato) ve n’è uno che suona quasi come un rimprovero cui dovrebbe corrispondere persino un senso di colpa: perché non ricorrere all’adozione? Perché, al netto della libertà di ognuno di decidere come e se diventare genitore, la strada dell’adozione è un labirinto esasperante riservato alle sole coppie sposate o conviventi stabilmente da almeno di 3 anni. Eterosessuali, si intende.  Qualsiasi analisi dell’esistente che abbia a che fare con il tentativo di regolamentare fenomeni complessi come quello del far venire al mondo qualcuno, attraversati, più di altri, da implicazioni biologiche, antropologiche, etiche, sociali e politiche, deve inevitabilmente fare i conti con la straordinaria varietà delle biografie che ne costituiscono il presupposto, deve numerarle, nominarle, identificare i percorsi della vita che, ad un certo punto, finiscono sull’orlo di decisioni laceranti: condurre un’esistenza segnata dal lutto di un desiderio irrisolto, provare altrimenti a superarlo e vivere, ugualmente, una vita felice, oppure affidarsi alle possibilità che l’evoluzione scientifica offre? Sono domande, queste, completamente dimenticate nel discorso pubblico ormai dominato, non solo in questo settore, da un ipertrofico ricorso al divieto, alla sanzione, alla criminalizzazione di scelte etiche non in linea con il pensiero dominante. È quello che è accaduto nel dibattito politico che ha condotto, lo scorso 4 novembre 2024, all’approvazione della legge 169 che ha esteso la criminalizzazione del ricorso alla surrogazione di maternità anche a quella commessa all’estero da cittadino italiano. Una pesante mannaia che non tiene in considerazione almeno due aspetti. Anzitutto esiste, anche per coloro che ricorrono alla gpa e che non contribuiscono alla gestazione con il proprio patrimonio genetico (dunque per i c.d. genitori d’intenzione, non biologici), il diritto alla piena realizzazione di una famiglia. Diritto che la Corte europea, nel noto parere consultivo del 10.4.2019[2], ritiene ricadente entro il raggio di azione dell’art. 8 Cedu, purché connesso sempre al riconoscimento del c.d. best interest of child. Si sa bene, per carità, che in Italia questo diritto viene dosato con il contagocce, affidato com’è al percorso tortuoso dell’adozione in casi particolari. Eppure, non è revocabile in dubbio. Le due sentenze a Sezioni unite della Cassazione civile (la n. 12913 del 2019 e la n. 38162 del 2022) stanno lì a ricordarci che, seppur declinato come interesse del minore alla propria famiglia (e non del genitore intenzionale), questo diritto esiste, salvo sempre il limite – moloch inscalfibile – dell’ordine pubblico (sic!)[3]. Ma il divieto assoluto, universale, del ricorso alla gpa dimentica anche che le donne non sono un corpo muto (prendo in prestito la felice espressione di M. Nicchi, Una donna non è un corpo muto, in CRS, 20.4.2023) e che silenziare la voce di chi decide, consapevolmente e scientemente, di disporre del proprio corpo per la realizzazione di desideri altrui, non porta a niente di buono. Men che meno usare il diritto penale massimo per tutelare una dignità che la titolare, quando è libera di autodeterminarsi, non ritiene in alcun modo offesa. Occorrerebbe, invece, – secondo la lezione di Luigi Ferrajoli- fare ricorso al diritto penale in misura “minima”, usarlo con l’unico scopo di offrire uno strumento di minimizzazione della violenza e dell’arbitrio che, in sua assenza, si produrrebbero.  Un approccio, questo, decisamente soppiantato dall’uso egemonico del diritto penale, onnivoro catalizzatore di istanze repressive e strumento di regolamentazione a senso unico – mediante il divieto e la sanzione- dei fenomeni sociali. Che il punire sia passione contemporanea (per citare D. Fassin) è questione nota e da tempo oggetto di acute critiche e riflessioni. Non è il caso di attardarsi su questo, se non per sottolineare come, anche con l’estensione territoriale dell’incriminazione del reato di surrogazione di maternità, punito oggi urbi et orbi ad opera della L. 169/2024, si è inteso agitare lo strumento penale a dispetto di una regolamentazione seria della materia, capace di interagire in modo più adeguato con le numerose domande che solleva, inevitabilmente, il ricorso a questa pratica e che hanno a che fare con desideri complessi, con il dolore dei fallimenti riproduttivi, con le potenzialità, non sempre a misura umana, della scienza e della medicina. È una

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SOLIDARIETÀ AL COLLEGA NATALE MORRONE

La Camera Penale di Catanzaro e l’Osservatorio Avvocati Minacciati esprimono la loro più sincera solidarietà all’Avvocato Natale Morrone, vittima della grave aggressione avvenuta nel suo studio a Corigliano-Rossano, nel cosentino. Il professionista è stato accoltellato da un cliente, con il quale aveva concordato un appuntamento. Durante il colloquio, quest’ultimo ha estratto un coltello dalla tasca e ha colpito l’Avvocato. Dopo il vile gesto, il soggetto si è inizialmente dato alla fuga, per poi costituirsi poche ore dopo presso la Questura di Cosenza. Le condizioni cliniche del Collega sono apparse subito gravi ma, fortunatamente, sono in netto miglioramento e non è in pericolo di vita. In questo momento difficile, siamo vicini al Collega aggredito e alla sua famiglia, esprimendo il nostro sostegno e augurandogli una pronta e completa guarigione.

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USURA E REATI “A DUPLICE SCHEMA”: QUANDO IL TENTATIVO È GIÀ CONSUMAZIONE. UN MODELLO ALTERNATIVO È POSSIBILE?

di Pietro Luigi Riillo* – SOMMARIO: 1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie – 2. Il tentativo – 3. Un modello alternativo – 4. La replicabilità del modello nelle fattispecie corruttive, ma non in quella concussiva o di induzione indebita ex art. 319 quater c.p. – 5. Conclusioni.   1. Natura, connotati e struttura oggettiva della fattispecie Il reato di usura, disciplinato all’art. 644 c.p., può essere delineato attraverso due aspetti caratterizzanti: il primo relativo alla fissazione di una soglia legale oltre la quale è da ritenersi integrata la presunzione di usurareità del tasso; il secondo, invece, concerne l’eliminazione – attraverso l’iter riformatore degli anni ‘90 – del requisito dell’approfittamento dello stato di bisogno del soggetto passivo (e delle sue condizioni di difficoltà economiche), rinvenibile ora nella circostanza aggravante di cui all’art. 644, comma 5, n. 3, c.p. La norma punisce chiunque “si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità[i], interessi o altri vantaggi usurari”. Prima dell’entrata in vigore della L. 7 marzo 1996 n. 108, dottrina e giurisprudenza fissavano la consumazione del delitto di usura attraverso la “stipula” dell’accordo usurario[ii]. L’effettivo versamento degli interessi, d’altra parte, rappresentava una (eventuale) consecutio post-factum. Di diverso avviso – a seguito dell’introduzione dell’art. 644-ter c.p.[iii] – la giurisprudenza formatasi in ordine al momento consumativo della fattispecie. Difatti, qualora alla promessa seguisse poi una dazione “effettiva” (anche se rateale), quest’ultima – in quanto porzione del fatto – deve essere considerata parte integrante della fattispecie concreta[iv]. Alla luce di ciò, parrebbe giustificata l’adozione dottrinal-giurisprudenziale circa la natura a duplice schema del delitto in esame, potendosi configurare sia un “modello unitario” della condotta, allorquando alla promessa di versare interessi o vantaggi usurari (ed alla relativa accettazione) non seguisse la dazione vera e propria, e sia attraverso il modello “a condotta frazionata” (di natura eventuale), incidente sul calcolo della prescrizione e, conseguentemente, pure in ordine al tempus commissi delicti[v]. Sul medesimo schema distintivo si incastona, altresì, la duplice natura di reato di pericolo o di danno della fattispecie in esame. La struttura oggettiva del reato, difatti, alla luce del proprio carattere mutevole, fa dipendere la propria realtà naturalistica in ordine alla possibilità che la condotta si sia limitata alla sola accettazione della promessa da parte dell’agente (in tal caso ci si troverebbe di fronte ad un reato di pericolo), o all’eventualità che, dopo l’accettazione della promessa, sia avvenuta la dazione vera e propria (in un’unica soluzione o ratealmente), di tal guisa si avrebbe la tramutazione, post-factum, in reato di danno. Il legislatore, pertanto, ha scelto di punire già la fase (strumentale) della stipulazione dell’accordo, quale momento perfezionante la fattispecie, a nulla rilevando, in termini di punibilità, se ad essa seguisse (o addirittura potesse seguire), la dazione economica vera e propria. Il disvalore perseguito dalla norma risiede, dunque, semplicemente nella dazione o nell’accordo di corrispondere interessi o vantaggi usurari, supportato sul piano soggettivo dalla consapevolezza (dolo generico) dell’agente di superare il tasso soglia stabilito dalla legge (usura “in astratto”) o dalla sproporzione tra la prestazione fornita e la controprestazione richiesta (usura “in concreto”). Questo avviene a prescindere dall’iniziativa del reo nel promuovere l’operazione illecita di finanziamento e dall’eventuale accettazione volontaria delle condizioni usurarie da parte della vittima. Più articolato appare, peraltro, eseguire una ricognizione in ordine al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Non è univoco, difatti, capire quale sia il bene che la norma ha inteso porre alla sua tutela anticipata. Sul punto, la questione non ha trovato soddisfacimento neppure a seguito della riforma del 1996. Secondo un orientamento dottrinale prevalente, occorre ritenere come il bene giuridico non debba individuarsi nel patrimonio individuale della persona – fisica o giuridica[vi] che sia – bensì nella tutela del mercato creditizio[vii] o, in alternativa, nella correttezza dei rapporti economici[viii] o delle obbligazioni nascenti dai rapporti di credito al fine di porre un limite al costo del denaro[ix]. Inoltre, prendendo le mosse dal testo normativo dell’art. 644 c.p., la Corte di Cassazione, Sez. II, ha osservato[x] come “ai fini dell’integrazione del delitto di usura non è richiesta una condotta induttiva da parte di chi pone in essere la condotta usuraria, rilevando unicamente l’usurareità oggettiva delle condizioni pattuite”. All’interno del provvedimento dei giudici di legittimità, è stato pertanto escluso che ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo della fattispecie, ricorra la necessità che il soggetto agente debba realizzare una qualche condotta “preparatoria” di natura induttiva, neppure di tipo intimidatorio[xi]. Di tal guisa, è l’accordo tra le parti a rappresentare l’elemento costitutivo della fattispecie. Sul punto, il Supremo Consesso – nella medesima pronuncia – teneva a precisare come “il nucleo essenziale dell’elemento oggettivo consiste ora nel «farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità»” e che “nonostante il fatto che la formulazione legislativa «si fa dare o promettere» sembri presupporre l’iniziativa dell’usuraio, non rileva neppure il fatto che l’iniziativa di dare il via alla negoziazione usuraria sia stata presa dal soggetto che ha necessità del prestito”. Pertanto, esclusa dalla condotta tipica ogni genere di attività “pre-contrattuale” – l’attuale struttura oggettiva del reato di usura si sviluppa attraverso diverse fasi, alcune delle quali penalmente irrilevanti ed altre, invece, determinanti l’effettiva consumazione del reato.  La fase preliminare può consistere sia nell’attività di procacciamento – ossia nella ricerca attiva del soggetto agente, disposto a concedere denaro a condizioni usurarie – e sia nell’attività di ricerca del capitale a interessi usurari da parte del “soggetto debole” del contratto. Tali attività, pur essendo potenzialmente sintomatiche di un contesto illecito, non hanno rilevanza penale diretta, sebbene possano giustificare l’applicazione di misure di sicurezza nei confronti del soggetto agente. Successivamente, si verifica la fase della trattativa, nella quale le parti avviano un negoziato circa le condizioni del contratto usurario. Anche in questa fase, l’ordinamento non attribuisce rilevanza penale alla condotta, trattandosi di una mera negoziazione priva di effetti giuridici vincolanti, fatta sempre salva l’applicabilità di misure di sicurezza nei confronti dell’agente. La successiva

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