di Vittoria Bossio –
RIDUZIONE DI 1/6 AD OPERA DEL GIUDICE DELLA ESECUZIONE DELLA PENA IRROGATA IN CASO DI MANCATA IMPUGNAZIONE DELLA SENTENZA EMESSA A SEGUITO DELLA DEFINIZIONE DEL PROCEDIMENTO NELLE FORME DEL RITO ABBREVIATO
La disposizione dell’art. 442 cod. proc. pen. è stata modificata mediante l’introduzione del comma 2-bis, per effetto dell’art. 24, lett. c), d.lgs. n. 150 del 2022, in conseguenza del quale quando l’imputato o il suo difensore non propongono impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena irrogata è ulteriormente ridotta nella misura di un sesto dal giudice dell’esecuzione. Tale disposizione veniva introdotta in ossequio all’art. 1, comma 10, lett. b), n. 2, legge 27 settembre 2021, n. 137, recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari», che imponeva al legislatore delegato di «prevedere che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione». Nella stessa direzione, inequivocabilmente deflattiva, occorre richiamare la previsione dell’art. 1 comma 10, lett. a), n. 1, legge n. 137 del 2021, che impone al legislatore delegato di «modificare le condizioni per l’accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata a un’integrazione probatoria, ai sensi dell’articolo 438, comma 5, del codice di procedura penale, prevedendo l’ammissione del giudizio abbreviato se l’integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un’economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale».
MODALITÀ PER RICHIEDERE LA RIDUZIONE PREVISTA DALL’ARTICOLO 442 COMMA 2 BIS CPP
La nuova formulazione dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. prevede: «Il giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2- bis cpp. In questo caso, il giudice procede d’ufficio prima della trasmissione dell’estratto del provvedimento divenuto irrevocabile». La disposizione in questione, dunque, esclude dalla disciplina dell’art. 676, comma 1, cod. proc. pen., che prevede il procedimento di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen. la materia della diminuente esecutiva, che colloca in un diverso e autonomo ambito processuale, nel quale non vi è alcun riferimento esplicito al procedimento de plano.
Ne discende che il trasferimento in una sede processuale diversa da quella originaria – ovvero quella disciplinata dal novellato art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen. – della regola attributiva della competenza, relativa alle ipotesi di cui all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., in assenza di richiami espressi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., non consente di ritenere applicabile la procedura de plano per concedere la diminuente esecutiva in esame.
Ne discende che deve ritenersi affetta da nullità assoluta, rilevante ai sensi dell’art. 179, comma 1, cod. proc. pen. e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione, provvedendo de plano, respinga un’incidente di esecuzione presentato al di fuori dei casi espressamente previsti dall’art. 666 cod. proc. pen. Cfr. Cass. Pen. Sezione I sentenza n. 07356/2025.
APPLICABILITÀ DELLA RIDUZIONE SOLO IN CASO DI MANCATA PROPOSIZIONE DELL’APPELLO E NON NEL CASO DI RINUNCIA ALL’APPELLO PROPOSTO.
La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 51180/2023 ha stabilito che la riduzione di 1/6 della pena consegue solo alla mancata impugnazione e non anche alla rinuncia di quella già presentata.
La Suprema Corte premette che appare opportuno richiamare, condividendolo, l’orientamento ermeneutico maturato in sede di legittimità in merito alla portata dell’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., come introdotta nell’ordinamento dall’art. 24 d.lgs. n. 150 del 2022, con entrata in vigore alfine fissata al 30 dicembre 2022.
La norma, collocata nell’alveo dell’art. 442 cod. proc. pen., volto a disciplinare la fase della decisione di primo grado nel rito abbreviato, stabilisce che quando né l’imputato né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente (rispetto alla riduzione per il rito a prova contratta fissata nel comma 2) ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione.
Si è, al riguardo, precisato che la condizione processuale che ne consente l’applicazione è costituita dall’irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione ed essa, in quanto soggetta al principio del tempus regit actum, è ravvisabile solo rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150 del 2022, pur se pronunciate antecedentemente.
Per vero, la ratio dell’intervento riformatore si profila individuabile nel perseguimento dello scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione della causa dopo l’emissione della sentenza di primo grado, così da evitare l’ingresso del procedimento stesso nella fase delle impugnazioni, quali che l’ordinamento in concreto consenta nel singolo caso, allorquando – trattandosi di sentenza di condanna, emessa all’esito di giudizio assoggettato al rito abbreviato – l’imputato e il difensore valutino come non sorretta da un apprezzabile interesse la prospettiva di sottoporre a nuova verifica la decisione emessa dal primo giudice e considerino, proprio in virtù della nuova opportunità offerta dalla norma, più conveniente rinunciarvi al fine di assicurare all’imputato stesso la riduzione – ulteriore rispetto a quella determinata dalla scelta del rito – pari alla frazione di un sesto della pena irrogata.
È, dunque, la radicale mancanza dell’impugnazione – e soltanto essa – che, determinando l’effetto deflattivo perseguito, integra il presupposto necessario per fruire della riduzione ulteriore della pena contemplata dal comma 2-bis della norma.
Conferma tale approdo la scelta che la norma ha operato per individuare il giudice competente a sancire la riduzione e, conseguentemente, il procedimento occorrente per la relativa determinazione: a provvedere deve essere il giudice dell’esecuzione; e ciò esige l’instaurazione del procedimento esecutivo, secondo le forme proprie che, in questa sede, non è necessario approfondire.
Certo è che, avendo previsto l’esclusiva competenza del giudice dell’esecuzione per l’applicazione della riduzione, la norma corrobora l’approdo ermeneutico secondo cui soltanto la mancanza dell’impugnazione avverso la sentenza di primo grado integra la condizione legittimante la riduzione stessa.
Se il legislatore avesse inteso applicare questa riduzione premiale alla diversa fattispecie della rinuncia all’impugnazione già proposta, non avrebbe incontrato ostacolo ad individuare il giudice competente per l’applicazione di essa nello stesso giudice della cognizione che vi avrebbe provveduto nel medesimo contesto provvedimentale dichiarativo dell’inammissibilità sopravvenuta dell’impugnazione.
In definitiva, alla mancata impugnazione non può equipararsi la rinuncia all’impugnazione già proposta, poiché essa – non determinando l’effetto pienamente deflattivo perseguito dal riformatore – non è stata ritenuta condizione adeguata ad assicurare all’imputato rinunciante il conseguimento del beneficio in esame.
L’ANTICIPAZIONE IN SENTENZA DELLA RIDUZIONE DI UN SESTO PER L’ABBREVIATO È DA CONSIDERARSI IRRITUALE MA NON DETERMINA ALCUNA NULLITÀ
Qualora il giudice della cognizione preveda, in subordine alla determinazione della pena ai sensi dell’art. 442 c.p.p., il ricalcolo della stessa, decurtata di un sesto secondo la previsione di cui all’art. 442, comma 2-bis, c.p.p. per l’ipotesi della mancata proposizione dell’impugnazione avverso la medesima sentenza pronunciata all’esito del giudizio abbreviato, non si verifica alcuna nullità e l’imputato condannato non ha interesse a contestare la decisione che, seppure irrituale, non ne viola il diritto di intervento, di assistenza e rappresentanza ex art. 178, lett. c), c.p.p., e non comporta pregiudizi in termini di corretto computo della pena.
La Corte di Cassazione Prima Sezione Penale, con la sentenza n. 28917/2024 aveva respinto il ricorso avverso il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell’esecuzione, aveva rigettato la richiesta di riduzione, ex art. 442, comma 2 bis, c.p.p., della pena irrogata all’esito del rito abbreviato e, nel contempo, di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
Nel caso di specie, l’imputato era stato condannato con la riduzione del rito abbreviato alla pena di anni due, mesi quattro ed euro 6.000,00 di multa. In calce al dispositivo emesso con la sentenza, il medesimo giudice aveva espressamente disposto che, in caso di mancata impugnazione, la pena inflitta avrebbe dovuto essere ridotta di un ulteriore sesto.
Il pubblico ministero, divenuta irrevocabile la pronuncia in assenza di impugnazione, aveva emesso l’ordine di esecuzione per la pena inflitta così come determinata con la riduzione, aveva rigettato l’istanza di applicazione della sospensione condizionale della pena e dichiarato inammissibile l’istanza di riduzione della pena di un sesto in quanto questa era stata già applicata.
Avverso tale provvedimento veniva interposto ricorso per cassazione e veniva altresì avanzata la richiesta alla Corte di Cassazione di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 442, comma 2 bis, cod. proc. pen., 667 e 676 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 3, 25 e 111 cost. nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’esecuzione, applicata la riduzione di 1/6, possa concedere la sospensione condizionale della pena; in secondo luogo, veniva contestato che la procedura seguita per applicare la riduzione della pena sarebbe stata errata in quanto a questa vi aveva proceduto il giudice della cognizione e non, come previsto, quello dell’esecuzione; infine veniva censurata l’omissione da parte del giudice dell’esecuzione della pronuncia in merito alla richiesta di scarcerazione.
Ha ricordato la Corte come gli articoli 665 cod. proc. pen. e seguenti disciplinino la fase dell’esecuzione.
L’art. 666 cod. proc. pen. regola il procedimento di esecuzione ordinario, previsto in via generale per le competenze indicate negli artt. 668, 669, 670, 671, 672, 673, 674 e 675 cod. proc. pen.; in tale procedimento il giudice dell’esecuzione può emettere, se ritiene che la richiesta sia a prima lettura inammissibile, decreto motivato impugnabile con il solo ricorso per cassazione oppure, in esito al contraddittorio camerale previsto per il giudizio ordinario di esecuzione, ordinanza anch’essa impugnabile con ricorso per cassazione.
Per alcune competenze specifiche, tassativamente stabilite negli artt. 667 e 676 cod. proc. pen., il giudice procede ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., ovverossia de plano con ordinanza, solo comunicata e notificata all’interessato, il quale può proporre opposizione: a seguito dell’opposizione, il giudice procede con le forme di cui all’art. 666 cod. proc. pen. e si pronuncia con ordinanza ricorribile per cassazione.
La Corte ha rigettato le censure mosse, escludendo in primo luogo sia l’irragionevolezza della mancata attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di verificare la possibilità di concedere o meno i benefici di legge nel caso di applicazione della riduzione prevista dall’art. 442, comma 2 bis, cod. proc. pen., sia la disparità di trattamento con riferimento al potere allo stesso riconosciuto dall’art. 671 cod. proc. pen. .Ciò in quanto la norma recentemente introdotta ha natura strettamente processuale e, proprio al fine di consentire all’imputato (poi condannato) di poter assumere le proprie determinazioni in anticipo, prevede una riduzione in misura fissa; il giudice dell’esecuzione, cui è quindi sottratta ogni valutazione circa la congruità o meno della pena e del rapporto tra questa e il reato e la personalità del condannato, non ha alcun potere discrezionale paragonabile a quello che gli è invece riconosciuto nella diversa ipotesi prevista dall’art. 671 cod. proc. pen., allorché gli è attribuito eccezionalmente il compito di rideterminare complessivamente la pena ai fini del riconoscimento del concorso formale o della continuazione.
Tale scelta, ha sottolineato la Corte, non risulta neanche irragionevole in termini generali di sistema in quanto il giudizio in ordine alla quantificazione della pena e circa la concessione o meno dei benefici è coerentemente demandato al giudice della cognizione, cui questo è attribuito in via ordinaria, senza che possa su questo incidere la circostanza, del tutto eventuale, che l’ulteriore riduzione di un sesto comporti l’applicazione di una pena finale inferiore ai due anni e, come tale, sospendibile condizionalmente.
Quanto alle ulteriori censure proposte dalla difesa, la Suprema Corte ne ha dichiarato l’infondatezza, precisando che il giudice dell’esecuzione avrebbe solo errato nel rigettare la richiesta di applicazione della sospensione condizionale (non rientrante nella sua competenza) anziché dichiararla inammissibile con decreto motivato ricorribile in cassazione secondo quanto dispone l’art. 666, comma 2 cod. proc. pen.
Anche la dichiarazione di inammissibilità della richiesta di fissare un’udienza al fine di discutere nel merito della riduzione da operare a seguito della mancata impugnazione e circa la concedibilità o meno della sospensione condizionale della pena, è stata ritenuta corretta dal momento che la parte non ha alcun interesse a discutere in ordine alla riduzione della pena di un sesto, già disposta, sia pure irritualmente, dal giudice della cognizione.
Nel caso di specie, infatti, il giudice aveva inteso anticipare una determinazione a contenuto vincolato che avrebbe dovuto essere assunta una volta formatosi il giudicato ma ciò non comporta alcuna conseguenza in danno del condannato che, sul punto, non ha alcun concreto e specifico interesse a muovere contestazioni per avere ottenuto una ulteriore riduzione della pena in termini più favorevoli e in conformità alla norma dell’art. 442, comma 2 bis cod. proc. pen.
Con la citata sentenza è stato dunque formulato il seguente principio di diritto secondo cui: «qualora il giudice della cognizione preveda, in subordine alla determinazione della pena ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen., il ricalcolo della stessa, decurtata di un sesto secondo la previsione di cui all’art. 442, comma 2 bis, cod. proc. pen. per l’ipotesi della mancata proposizione dell’impugnazione avverso la medesima sentenza pronunciata all’esito del giudizio abbreviato, non si verifica alcuna nullità e l’imputato condannato non ha interesse a contestare la decisione che, seppure irrituale, non ne viola il diritto di intervento, di assistenza e rappresentanza ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen. e non comporta pregiudizi in termini di corretto computo della pena».
LA DIVERSA SOLUZIONE ESEGETICA CONTENUTA NELLA SENTENZA N. 208/2024 DELLA CORTE COSTITUZIONALE.
La Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 442, comma 2-bis , del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.
La Consulta ha anche dichiarato in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice dell’esecuzione può concedere altresì la sospensione della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena allora determinata era superiore ai limiti di legge che consentono la concessione di tali benefici.
La Corte ha chiarito, anzitutto, che i principi costituzionali evocati dal giudice impongono effettivamente di riconoscere al giudice dell’esecuzione il potere di valutare se sussistano i presupposti per la concessione dei due benefici, ogniqualvolta la pena da eseguire sia ridotta entro il limite dei due anni per effetto della riduzione prevista dalla riforma.
La Corte ha sottolineato la funzionalità alla finalità rieducativa della pena dei benefici in esame, entrambi di antica tradizione nel nostro ordinamento. In particolare, la sospensione condizionale mira, da un lato, ad evitare gli effetti criminogeni e desocializzanti della pena detentiva breve, dall’altro, essa intende prevenire la commissione di nuovi reati da parte del condannato attraverso la minaccia di revoca del beneficio, e a favorirne il percorso di risocializzazione attraverso gli obblighi riparatori, ripristinatori o di recupero che possono essere associati al beneficio.
In conformità al principio costituzionale della finalità rieducativa, il legislatore ha previsto in generale che le pene detentive che non superino i due anni possano essere sospese.
Ciò deve valere, ha ritenuto la Corte, anche quando la determinazione finale della pena costituisca il risultato degli sconti di pena stabiliti dal legislatore in cambio di scelte processuali, con cui l’imputato volontariamente rinuncia a garanzie che formano parte integrante dei suoi diritti costituzionali di difesa in giudizio (come il diritto di proporre appello contro la sentenza di condanna che lo riguarda), fornendo così un contributo al più rapido ed efficiente funzionamento del sistema penale nel suo complesso.
Secondo la Corte, il giudice avrebbe potuto concedere i benefici al condannato anche sulla base della legge oggi vigente, interpretata in conformità ai principi costituzionali. Poiché, tuttavia, due recentissime pronunce della Corte di cassazione hanno interpretato in senso opposto la disciplina normativa, la Corte costituzionale ha ritenuto opportuno intervenire per assicurare la certezza del diritto in materia processuale, dichiarando costituzionalmente illegittima la mancata espressa previsione della possibilità per il giudice dell’esecuzione di concedere i due benefici, quando il giudice della cognizione non abbia potuto provvedervi perché la pena originariamente determinata era superiore ai relativi limiti di legge.
Oggetto della pronuncia costituzionale è la possibilità di applicare, in sede esecutiva, la sospensione condizionale della pena a valle della riduzione della pena applicata con giudizio abbreviato di un ulteriore sesto, per mancanza di impugnazione. Il meccanismo di applicazione della diminuente trova disciplina nel nuovo comma 2-bis dell’art. 442 c.p.p., introdotto dall’art. 24, lett. l), D.lgs. n. 150/2022 (Riforma Cartabia), con evidente scopo deflattivo: «Quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione».
La disciplina è completata, sul piano processuale, dal comma 3-bis dell’art. 676 c.p.p.:“Il giudice dell’esecuzione è, altresì, competente a decidere in ordine all’applicazione della riduzione della pena prevista dall’articolo 442, comma 2-bis. In questo caso, il giudice procede d’ufficio prima della trasmissione dell’estratto del provvedimento divenuto irrevocabile.”
Dubbi di legittimità costituzionale della norma, posti in relazione al potere del giudice dell’esecuzione di applicare la pena sospesa all’esito della riduzione di un sesto della pena, erano stati dissipati dalla Suprema Corte nella sentenza n. 28917 del 26/03/2024. La Corte aveva escluso profili di irragionevolezza nel mancato riferimento, nell’art. 442, comma 2-bis cod. proc. pen., al potere del giudice dell’esecuzione di concedere i benefici rispetto alla espressa previsione di questo potere nel terzo comma dell’art. 671 c.p.p. in seguito al riconoscimento della continuazione in sede esecutiva.
A sollevare la questione di legittimità costituzionale è stato il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Nola, investito, in sede esecutiva, dell’istanza, ex art. 676, comma 3-bis, c.p.p., di un condannato con giudizio abbreviato alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione in cui venivano chiesti anche i benefici della sospensione condizionale e della non menzione, non concessi in fase di cognizione solo in ragione della misura della pena. In esito alla riduzione della pena di un sesto, che l’aveva ricondotta nei limiti dell’art. 163 c.p., in assenza di altri elementi ostativi, in effetti il condannato avrebbe potuto fruire dei benefici.
Nel silenzio del legislatore, il giudice remittente si riteneva tuttavia privo del potere di concederli. Né una tale possibilità, a suo avviso, poteva discendere dalla applicazione analogica dell’art. 671, comma 3, c.p.p. che conferisce al giudice dell’esecuzione il potere di concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando ciò consegue al riconoscimento del concorso formale o della continuazione, in quanto norma eccezionale, in contrasto con il principio dell’intangibilità del giudicato, come espressamente affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 4687 del 20/12/2005 (dep. 2006), Catanzaro.
La Corte ha ritenuto fondate tutte le questioni, in relazione a tutti i parametri costituzionali indicati dal remittente. Prendendo le mosse dal segnalato contrasto con il terzo comma dell’art. 27 Cost., ha richiamato il ruolo “chiave” giocato dalla sospensione condizionale e dalla non menzione della condanna nel certificato penale nell’attuazione della funzione rieducativa della pena. Pensata come «funzionale ad assicurare nel condannato per reati di non particolare gravità un effetto di monito associato alla sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, risparmiandogli tuttavia, in particolare nel caso di prima condanna, l’esperienza del carcere», evitando al condannato le implicazioni criminogene e desocializzanti delle detenzioni brevi, la sospensione condizionale della pena mira alla prevenzione della recidiva, anche attraverso la minaccia della revoca del beneficio e la previsione di obblighi restitutori e ripristinatori. Parallelamente, la non menzione evita al condannato di subire uno stigma potenzialmente foriero di difficoltà nel reinserimento sociale, con maggiore rischio di ricadere nel crimine.
La Corte ha inoltre ricordato come il legislatore, prevedendo un limite edittale per l’applicabilità dei due benefici, abbia inserito la valutazione del giudice sulla eseguibilità della pena e sulla pubblicità della condanna nella generale attività di “commisurazione in senso lato” della pena, che si svolge a valle della adesione dell’imputato ad uno dei meccanismi premiali di riduzione di pena connesso a scelte processuali con effetti deflattivi per il processo.
Tra questi meccanismi premiali, il legislatore ha previsto all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen., la possibilità per l’imputato condannato in primo grado con rito abbreviato di beneficiare di una ulteriore riduzione di un sesto della pena, oltre al terzo per la scelta del rito, qualora rinunci alla impugnazione nei termini di legge.
La peculiarità della scelta del legislatore – derivante dall’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza a seguito della rinuncia all’impugnazione – è nell’aver affidato al giudice dell’esecuzione, anziché a quello della cognizione, la competenza a ridurre la pena, senza però pronunciarsi sul suo potere (o dovere) di applicare i benefici della pena sospesa e della non menzione, ove per l’effetto della riduzione la pena rientri nei limiti di cui all’art. 163 cod. pen.
Secondo il giudice delle leggi, dare al quesito una soluzione negativa si porrebbe in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e funzione rieducativa della pena.
In primo luogo, ciò avrebbe un effetto discriminatorio nei confronti di coloro che, dopo aver già rinunciato al dibattimento per ottenere uno sconto di pena, rinuncino anche al diritto alla impugnazione per ottenere un ulteriore sconto, rispetto a coloro che scelgano di avvalersi di altri meccanismi premiali prima del passaggio in giudicato della sentenza.
Peraltro una tale soluzione appare distonica rispetto alla regola di sistema vigente nel nostro ordinamento, che pone la valutazione del giudice sulla concedibilità della pena sospesa e non menzione al termine dell’intera operazione di commisurazione della pena, compresa di riduzioni premiali per scelte processuali deflattive dell’imputato. Detta disposizione, connessa alla scelta del legislatore di « assicurare al condannato per reati non gravi, specie se alla prima condanna, una chance di sottrarsi agli effetti desocializzanti propri delle pene detentive brevi e all’effetto stigmatizzante derivante dall’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale», si pone come strumento attuativo delle finalità di rieducazione del condannato perseguite dal legislatore attraverso i due istituti della pena sospesa e della non menzione, predisposti «in adempimento del preciso mandato costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.». La Corte ha aggiunto, inoltre, che la scelta di impedire l’applicazione dei benefici e di destinare alla esecuzione una pena, pur ricompresa nei limiti di cui all’art. 163 cod. pen., proprio al momento in cui la pena finale viene determinata nel suo preciso ammontare, verrebbe a contrastare anche con il principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, che esige ogni sforzo di individualizzazione della sanzione rispetto al singolo fatto di reato e alla situazione del singolo condannato.
La Consulta ha poi richiamato l’evoluzione giurisprudenziale che, negli ultimi anni, ha progressivamente riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di rideterminare la pena, e soprattutto «di concedere la sospensione condizionale della pena in conseguenza di tale rideterminazione, una volta rimosso l’ostacolo normativo che aveva impedito al giudice della cognizione di provvedervi. E ciò anche in assenza di uno specifico appiglio normativo come quello rappresentato dalla formula presente nell’art. 673 cod. proc. pen.».
A quest’ultimo proposito, la Consulta ha richiamato la decisione della Corte di Cassazione Sez. I, n. 16679 del 01/03/2013, Corlando, Rv. 254570 – 01, sui poteri del giudice dell’esecuzione che abbia rideterminato la pena dopo l’annullamento senza rinvio di un solo capo della sentenza di condanna, nonché la sentenza emessa Cassazione Sez. U., n. 37107 del 26/02/2015, Marcon, Rv. 264859 – 01, sui poteri – non stabiliti in modo espresso da alcuna norma processuale – del giudice dell’esecuzione di rideterminare la pena nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale dei limiti edittali di pena previsti per una fattispecie criminosa.
Il giudice delle leggi ha, infine, citato la sentenza emessa dalla Suprema Corte di Cassazione Sez. I penale, n. 51692 del 30/10/2018, Terenzi, Rv. 274547–01 – sul potere del giudice della esecuzione di disporre la sospensione condizionale della pena, nel rideterminare la pena applicata con sentenza irrevocabile ex art. 444 cod. proc. pen., divenuta illegale a seguito di una dichiarazione di illegittimità costituzionale – per concludere che «un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata sarebbe stata praticabile. Ciò non solo in considerazione del silenzio serbato sul punto dal legislatore (e dunque dell’assenza di dati testuali incompatibili con tale interpretazione), ma anche alla luce dei principi gradatamente enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, dai quali emerge che tra i poteri del giudice dell’esecuzione – fondati che siano su espresse disposizioni normative, su applicazioni analogiche di tali disposizioni ovvero su un’analogia iuris che muova dal principio generale del necessario adeguamento del titolo esecutivo a fatti sopravvenuti al giudicato stesso – rientra il potere di effettuare ogni valutazione conseguente alla rideterminazione della pena irrogata nella sentenza irrevocabile, a sua volta imposta dalle disposizioni di legge di volta in volta rilevanti.»
Tuttavia, per esigenze di certezza giuridica e in considerazione di un orientamento recentemente emerso nella Corte di Cassazione (Sez. I n. 28917 del 26/03/2024 e Cass. Pen. Sez. I, n. 37899 del 09/07/2024), la Consulta ha ritenuto opportuno accogliere la questione sollevata intervenendo sulla disposizione censurata con una pronuncia additiva.
In considerazione delle già segnalate esigenze di maggiore certezza giuridica, ha poi opportuno estendere in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la medesima dichiarazione di illegittimità costituzionale parziale anche all’art. 676, comma 3-bis, cod. proc. pen., che detta un’espressa disciplina dei poteri del giudice dell’esecuzione nell’ipotesi di cui all’art. 442, comma 2-bis, cod. proc. pen.