di Aurora Matteucci*
Nel marzo del 2023 è uscito, per Einaudi, il libro di Antonella Lattanzi, “Cose che non si raccontano”. Un’introspezione spietata, senza sconti, a tratti violenta, mani e piedi dentro l’ossessione di un desiderio che non si realizza – quello di diventare madre – incastrato nei territori ameni della medicalizzazione esasperata. Una vertiginosa ricerca del sé, in costante bilico tra esigenza di affermazione professionale, clessidre che scorrono senza sosta, idee e desideri che cadono in frantumi di fronte alla dissociazione tra la dimensione biologica del tempo e quella sociale. Lattanzi racconta, attraverso la sua esperienza, quella di molte altre donne che (legittimamente) hanno sorvegliato per anni il desiderio di maternità considerandolo rimandabile ad un dopo indefinito che non arriva più.
Una storia, la sua, che lascia senza fiato, ma che al contempo restituisce ossigeno per raccontare le cose che non si ha il coraggio di raccontare, estraendole, una ad una, dalla polvere dei molti cliché che segnano, con il marchio dell’ipocrisia, ampia parte di quel che ruota intorno alla maternità e, più in generale, alla genitorialità.
Quando si ha a che fare, poi, con la gestazione per altri (il c.d. utero in affitto secondo una scelta lessicale spudoratamente negativa) il dibattito è ridotto ad una sfida tra assolutismi etici, slogan urlati, luoghi comuni tanto più odiosi quanto più irrispettosi delle implicazioni umane che ne sono coinvolte: si pensi alle difficoltà di un’intera generazione sul piano riproduttivo; o ancora alle strettoie ideologiche che impediscono alle coppie omosessuali di realizzare un progetto di famiglia alternativo a quello tradizionale. Molte persone, per ragioni diverse, di fronte al bivio tra impossibilità di fare altrimenti e tentativo di realizzare un desiderio, ricorrono all’estero, nei paesi in cui è consentita, per affidarsi alla gpa[1]. Questo perché in Italia è un reato.
Tra i molti luoghi comuni che alitano le ragioni del divieto assoluto contro la gpa (e che la filosofa Chiara Lalli nel suo podcast “Affittasi Utero” per Fandango ha rigorosamente smascherato) ve n’è uno che suona quasi come un rimprovero cui dovrebbe corrispondere persino un senso di colpa: perché non ricorrere all’adozione?
Perché, al netto della libertà di ognuno di decidere come e se diventare genitore, la strada dell’adozione è un labirinto esasperante riservato alle sole coppie sposate o conviventi stabilmente da almeno di 3 anni. Eterosessuali, si intende.
Qualsiasi analisi dell’esistente che abbia a che fare con il tentativo di regolamentare fenomeni complessi come quello del far venire al mondo qualcuno, attraversati, più di altri, da implicazioni biologiche, antropologiche, etiche, sociali e politiche, deve inevitabilmente fare i conti con la straordinaria varietà delle biografie che ne costituiscono il presupposto, deve numerarle, nominarle, identificare i percorsi della vita che, ad un certo punto, finiscono sull’orlo di decisioni laceranti: condurre un’esistenza segnata dal lutto di un desiderio irrisolto, provare altrimenti a superarlo e vivere, ugualmente, una vita felice, oppure affidarsi alle possibilità che l’evoluzione scientifica offre? Sono domande, queste, completamente dimenticate nel discorso pubblico ormai dominato, non solo in questo settore, da un ipertrofico ricorso al divieto, alla sanzione, alla criminalizzazione di scelte etiche non in linea con il pensiero dominante.
È quello che è accaduto nel dibattito politico che ha condotto, lo scorso 4 novembre 2024, all’approvazione della legge 169 che ha esteso la criminalizzazione del ricorso alla surrogazione di maternità anche a quella commessa all’estero da cittadino italiano.
Una pesante mannaia che non tiene in considerazione almeno due aspetti.
Anzitutto esiste, anche per coloro che ricorrono alla gpa e che non contribuiscono alla gestazione con il proprio patrimonio genetico (dunque per i c.d. genitori d’intenzione, non biologici), il diritto alla piena realizzazione di una famiglia. Diritto che la Corte europea, nel noto parere consultivo del 10.4.2019[2], ritiene ricadente entro il raggio di azione dell’art. 8 Cedu, purché connesso sempre al riconoscimento del c.d. best interest of child.
Si sa bene, per carità, che in Italia questo diritto viene dosato con il contagocce, affidato com’è al percorso tortuoso dell’adozione in casi particolari. Eppure, non è revocabile in dubbio. Le due sentenze a Sezioni unite della Cassazione civile (la n. 12913 del 2019 e la n. 38162 del 2022) stanno lì a ricordarci che, seppur declinato come interesse del minore alla propria famiglia (e non del genitore intenzionale), questo diritto esiste, salvo sempre il limite – moloch inscalfibile – dell’ordine pubblico (sic!)[3].
Ma il divieto assoluto, universale, del ricorso alla gpa dimentica anche che le donne non sono un corpo muto (prendo in prestito la felice espressione di M. Nicchi, Una donna non è un corpo muto, in CRS, 20.4.2023) e che silenziare la voce di chi decide, consapevolmente e scientemente, di disporre del proprio corpo per la realizzazione di desideri altrui, non porta a niente di buono. Men che meno usare il diritto penale massimo per tutelare una dignità che la titolare, quando è libera di autodeterminarsi, non ritiene in alcun modo offesa.
Occorrerebbe, invece, – secondo la lezione di Luigi Ferrajoli- fare ricorso al diritto penale in misura “minima”, usarlo con l’unico scopo di offrire uno strumento di minimizzazione della violenza e dell’arbitrio che, in sua assenza, si produrrebbero.
Un approccio, questo, decisamente soppiantato dall’uso egemonico del diritto penale, onnivoro catalizzatore di istanze repressive e strumento di regolamentazione a senso unico – mediante il divieto e la sanzione- dei fenomeni sociali.
Che il punire sia passione contemporanea (per citare D. Fassin) è questione nota e da tempo oggetto di acute critiche e riflessioni. Non è il caso di attardarsi su questo, se non per sottolineare come, anche con l’estensione territoriale dell’incriminazione del reato di surrogazione di maternità, punito oggi urbi et orbi ad opera della L. 169/2024, si è inteso agitare lo strumento penale a dispetto di una regolamentazione seria della materia, capace di interagire in modo più adeguato con le numerose domande che solleva, inevitabilmente, il ricorso a questa pratica e che hanno a che fare con desideri complessi, con il dolore dei fallimenti riproduttivi, con le potenzialità, non sempre a misura umana, della scienza e della medicina.
È una domanda che mi faccio spesso: quale violenza e quale arbitrio si è inteso minimizzare estendendo la giurisdizione italiana fuori dai confini nazionali allo scopo di punire, ovunque sia realizzata, la pratica della gestazione per altri/e? Ammesso, ma lo vedremo dopo, che sia consentito, stando almeno all’abc della teorica penalistica, etichettare come reato universale il ricorso alla maternità surrogata.
Riavvolgiamo il nastro.
L’art. 12, comma 6, della L. 40/2004 sul quale è intervenuta la novella del 2024, già puniva <chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione dei gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità> con la pena della reclusione da 3 mesi a 2 anni e con la multa da 600.000 a 1 milione di euro. Dunque, nel nostro ordinamento, il ricorso al coinvolgimento di una donna nel solo percorso generativo ma non in quello genitoriale, era già considerato penalmente rilevante. Anche 20 anni fa si era privilegiata la strada del divieto assoluto rispetto a quella, adottata altrove, di una regolamentazione delle ipotesi lecite (magari limitando il ricorso alla sanzione ai casi di sfruttamento delle condizioni di bisogno in cui versano alcune donne che si trovano costrette da condizioni economiche disagiate a farsi strumento dei desideri altrui).
Del resto, già nel 2017, con la sentenza n. 272, la Corte costituzionale aveva stigmatizzato la surrogazione di maternità con parole durissime: «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina in profondo le relazioni umane», annidandosi sempre «il rischio di sfruttamento della vulnerabilità di donne che versino in situazioni sociali ed economiche disagiate». Una concezione oggettiva e assoluta di dignità che impartisce indicazioni non bilanciabili, non negoziabili su cosa può essere degno o meno per una donna.
Perché allora l’esigenza di estensione della punibilità anche quando la pratica della gestazione per altri è commessa all’estero?
Anzitutto perché – si legge nella proposta di legge n. 306 (prima firmataria on.Le Meloni)[4] – la punibilità entro i soli confini nazionali non sarebbe stata idonea a perseguire il c.d. turismo procreativo «[…] cioè quel fenomeno per cui coppie italiane che non possono avere figli si avvalgono della tecnica della surrogazione di maternità in un Paese estero in cui è consentita. […] Le pratiche della surrogazione di maternità costituiscono un esempio esecrabile di commercializzazione del corpo femminile e degli stessi bambini che nascono attraverso tali pratiche, che sono trattati alla stregua di merci».
La scelta delle parole non è mai neutra: etichettare, facendo di tutta l’erba un fascio, come turismo procreativo, il desiderio di diventare genitore anche quando non si esprime attraverso il ricorso allo sfruttamento o alla schiavitù di donne vittime di condizioni contrattuali inique, significa affidarsi, come ormai sovente accade, a slogan posticci che elevano la propaganda a ratio legis, finendo con l’annullare la straordinaria varietà umana che questo fenomeno sottende per criminalizzarlo in toto, senza distinzioni.
È già successo con l’aborto: vietarlo lo ha solo reso clandestino. Succede ogni qual volta il legislatore si fa interprete delle paure e non delle evoluzioni sociali che corrono a ritmi incessanti, talmente rapidi, che non sarà un divieto, quand’anche universale, a fermarne il corso.
Evidentemente l’obiettivo dei conditores era quello, almeno, di potenziare l’efficacia dissuasiva di una norma, l’art. 12, comma 6, L. 40/2004, rimasta per lo più inapplicata, come dimostrano gli scarsi repertori giurisprudenziali di cui disponiamo. Non è un caso, infatti, che – sempre nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge n. 306- si faccia riferimento anche all’esigenza di non lasciare soli i nostri tribunali, impegnati nella ricerca di soluzioni che, stando ai numeri di chi ogni anno si reca all’estero, non hanno costituito un solido argine di deterrenza.
E infatti, lo spiega bene il Prof. Padovani ( in Pqm, n. 42, Il Riformista) intervistato dagli avv. Eriberto Rosso e Lorenzo Zilletti, con la precedente versione della L. 40/2004 <dal punto di vista della punibilità, se si fosse trattato di un fatto commesso all’estero […] al cittadino presente nel territorio dello Stato si sarebbe applicato il comma 2 dell’art. 9 del codice penale che subordina la procedibilità alla richiesta del Ministro della Giustizia>.
Nel 2020 la Corte di cassazione (sez. III, 28/10/2020, n.5198) era intervenuta sostenendo che <la consumazione all’estero, non solo della gravidanza, ma anche delle attività preparatorie per realizzare una maternità surrogata comporta l’improcedibilità in Italia della persecuzione del reato> restando esclusa la giurisdizione italiana se nel territorio nazionale non si verificano attività specifiche e necessarie alla realizzazione del reato (come il mero invio di alcune mail organizzative di attività poi interamente eseguita all’estero). Peraltro, in quel caso, il Procuratore generale aveva impugnato una sentenza di proscioglimento del Tribunale di Pescara che, ancorandosi ad un’interpretazione rigorosa del termine realizza (da identificarsi solo con quelle condotte eziologicamente rilevanti sul piano della realizzazione del fatto tipico e funzionali allo scopo, così da circoscrivere e da delimitare il contenuto della fattispecie tipica entro limiti di riconoscibilità e prevedibilità delle conseguenze) aveva ritenuto interamente commesso all’estero il reato e, per ciò stesso, improcedibile in Italia ex art. 9, comma 2, c.p., per difetto della richiesta del Ministro della Giustizia.
Ancora, quattro anni prima, nel 2016, era stata la V sezione della Cassazione (con sentenza del 10.3.2016, n.13525) ad escludere la punibilità del ricorso alla pratica di gestazione per altri all’estero stavolta sulla base del difetto del requisito della doppia incriminazione, atteso che la condizione di procedibilità (ancorché con firma di un sottosegretario e non del Ministro della Giustizia) era stata ritenuta comunque legittimamente effettuata. Decisione di indubbio interesse che ruota attorno alla garanzia protettiva dell’ignoranza scusabile del precetto penale, laddove una coppia intenda affidare il proprio progetto procreativo a cliniche operanti in paesi in cui tale pratica è lecita. <Non sussiste> – per la Cassazione – <il reato di cui all’art. 12, comma 6, l. n. 40 del 2004 in caso di ricorso alla procedura di surrogazione di maternità in uno Stato dove esso sia consentito. La questione se, per punire secondo la legge italiana il reato commesso all’estero, sia necessario che si tratti di fatto previsto come reato anche nello Stato in cui fu commesso (cosiddetta doppia incriminabilità) è controversa in giurisprudenza. Tale circostanza assume sicuro rilievo ai fini della consapevolezza della penale perseguibilità della condotta, in quanto l’errore investe la portata applicativa dell’art. 9 c.p. L’errore sul precetto è inevitabile nei casi di impossibilità di conoscenza della legge penale da parte di ogni consociato dovuta alla mancanza di riconoscibilità della disposizione normativa oppure alle incertezze di interpretazione giurisprudenziale>.
Né il ricorso al reato di alterazione di stato (art. 567 c.p.), contestato in caso di trascrizione del certificato di nascita straniero che indica come genitore quello intenzionale, ha avuto maggior successo. Nota la posizione assunta dalla Corte di legittimità ( tra le ultime, sez. VI, 13.10.2020, n. 31409), secondo la quale <ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 567, comma 2, c.p., è necessaria un’attività materiale di alterazione di stato che costituisca un “quid pluris” rispetto alla mera falsa dichiarazione e si caratterizzi per l’idoneità a creare una falsa attestazione, non potendosi considerare ideologicamente falso il certificato conforme alla legislazione del paese di nascita del minore, neppure nel caso in cui la procreazione sia avvenuta con modalità non consentite in Italia>. Tale principio conserva, per la Corte, la sua validità persino a seguito della sentenza delle Sez.U. civili n. 12193 del 2019, che, senza toccare il tema della sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del reato, ha ritenuto la contrarietà all’ordine pubblico del riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero che abbia accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato in Ucraina mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore cittadino italiano.
Verrebbe da dire, allora, che non è proprio vero che i nostri tribunali siano stati lasciati soli nell’affrontare la materia ma che abbiano, piuttosto, fatto ampio ricorso ai principi generali che questa legge vorrebbe soppiantare «introducendo nell’ordinamento una norma ad pompam» (l’espressione è del Prof. Padovani, cit.) che di universale non ha un bel nulla, se non l’etichetta con cui è stata confezionata e lanciata sui media.
Non solo perché, vivaddio, si è persa per strada l’idea, aberrante, di poter punire in Italia il cittadino straniero che avesse realizzato una surrogazione di maternità nel paese in cui tale pratica fosse considerata lecita limitando, oggi, l’incriminazione ai soli cittadini italiani che si rechino all’estero[5].
Ma anche perché il principio di universalità del diritto penale, da contrapporre a quello di territorialità, evoca la necessità di implementare la risposta punitiva, estendendone l’efficacia persino fuori dai confini nazionali, in base ad una sorta di accordo generalmente riconosciuto sull’esistenza di c.d. crimina iuris gentium, puniti ovunque e da chiunque perché lesivi di diritti umani universalmente riconosciuti. Ne sono un esempio i reati di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità a cui si riferiscono, non a caso, molteplici trattati internazionali (sul tema molto interessante il contributo di F Gallo, F. Re, R. D’Andrea, A. Cicatelli, E. Ardito, M Miceli, L.M.R. Negri, P. Stringa, La gravidanza per altri in Italia: dal divieto universale alle proposte di regolamentazione. Riflessioni a margine del progetto di legge “Meloni” e della proposta di legge dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, Gp, 2022, 7).
In questo ambito si potrebbe, al più, discutere se lo sfruttamento della maternità surrogata possa essere considerato, in sé, reato universale. In questa direzione sembra essersi mossa la Direttiva UE 2024/1712 del 13.6.2024[6] del Parlamento europeo e del Consiglio che al paragrafo 6 del considerando esplicita la necessità di far rientrare nell’ambito di applicazione dei reati relativi alla tratta di esseri umani anche lo sfruttamento della maternità surrogata, concentrando l’incriminazione «su coloro che costringono o convincono con l’inganno le donne a prestarsi come madri surrogate».
Tuttavia, lo evidenzia molto bene la dott.ssa Maria Grazia Giammarinaro ( La stigmatizzazione della maternità surrogata all’ombra della tratta, CRS, 2.11.2023) anche tale iniziativa si rivela sostanzialmente inutile rispondendo solo alla tendenza di «“gonfiare”la definizione di tratta per fini esclusivamente retorici»: in tal caso la retorica riguarda l’incapacità di concepire come titolari di autodeterminazione le donne che decidono di prestare il proprio corpo a fini riproduttivi, etichettandole solo e soltanto come vittime. Approccio, questo, «fondato sull’idea patriarcale che per proteggere le donne dalla mercificazione del corpo, bisogna evitare che, con le loro decisioni libere, esse si espongano alla violenza e/o allo sfruttamento».
Ad ogni modo, pur ammettendo che il termine “sfruttamento” non sia di immediata e perspicua interpretazione, e pur condividendo le perplessità di Giammarinaro, va pur detto che il legislatore italiano non pare essere stato minimamente sfiorato neppure dal dubbio se fosse o meno opportuno almeno operare una tale distinzione per restringere il campo di intervento penale alle situazioni in cui lo squilibrio contrattuale trasforma davvero le donne in schiave, facendo credere, invece, di aver realizzato una fattispecie di reato universale valevole anche per le pratiche realizzate in paesi che le considerano lecite (a riprova, almeno, del fatto che non vi è alcun accordo nella comunità internazionale, per incriminare tutte le ipotesi di surrogazione di maternità) bypassando, così, la condizione di procedibilità imposta dall’art. 9, comma 2, c.p.
Escamotage mal riuscito tuttavia. Lo ricorda, ancora una volta il Prof. Padovani. Ad una superficiale lettura potrebbe oggi ritenersi che l’incriminazione ultraterritoriale del ricorso alla gestazione per altri trovi il suo precipitato nella norma di chiusura dell’art. 7, numero 5, c.p. secondo il quale, come noto, è punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero «[…] ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l’applicabilità della legge italiana». E siccome la legge italiana con la l. 169 del 2024 stabilisce, claris verbis, che il cittadino italiano è punito secondo la legge italiana se i fatti di cui al periodo precedente con riferimento alla surrogazione di maternità sono commessi all’estero, ecco confezionato il tassello mancante.
Non più disquisizioni sulla condizione di procedibilità: il fuoco dell’incriminazione oggi posa, stando alle intenzioni del legislatore, sul più ampio e rassicurante spazio riservato dall’art. 7 c.p.
Ma – avverte il Prof. Padovani – «è una mia opinione (non proprio un’opinione qualsiasi) che la disposizione appena approvata non modifichi le regole sulla procedibilità. Se si fosse voluto spostare sotto la disciplina dell’art. 7, numero 5, la punibilità della maternità surrogata commessa all’estero la previsione non doveva limitarsi ad evocare l’applicabilità della legge italiana. Quest’ultima consiste proprio nella vigente disciplina dell’art. 9, derogabile soltanto alle condizioni a sua volta stabilite nell’art. 16 “le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilite altrimenti”. Conseguenza è che, per procedere, continuerà ad essere necessaria la richiesta ministeriale».
Un’ inutile propaganda, quindi.
Speriamo solo che sia più inutile che dannosa.
*Past President della Camera Penale di Livorno
[1] Secondo una stima empirica pubblicata dal Corriere della Sera il 23.3.2023 il 90% delle coppie che si affidano all’estero a percorsi di gpa sono eterossesuali.
[2] Consultabile anche qui: https://lc.cx/p3V6Py
[3] Non è possibile, in sostanza trascrivere nei registri di stato civile italiani l’atto di nascita straniero che indica, in conformità alle norme di quel paese, il genitore intenzionale. Ma tant’è. Confidare in un ripensamento è speranza da non perdere.
[4] Per la verità, il favore per l’introduzione del reato universale di gestazione per altri ha riscosso sostegni trasversali, provenienti dai banchi opposti delle aule parlamentari ed è sostenuto anche da movimenti non allineati all’odierna maggioranza parlamentare. Basti qui ricordare l’appello “stop surrogacy now” rilanciato in Italia da Snoq/libere.
[5] Sul punto il ddl 306 differiva dal coevo ddl 2599 a firma dell’onorevole Carfagna che limitava l’incriminazione al solo cittadino italiano.
[6] Di modifica della precedente Direttiva (UE) 2011/36 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.