di Massimo La Torre* –
I. Intendo qui intrattenermi su tre grandi esperienze della storia politica e giuridica occidentale. Si tratta della cittadinanza, della parresia, o libertà radicale di parola, e dell’avvocatura.
Inizio dunque con la cittadinanza. Il tema è immenso (invero tutte e tre le nozioni qui messe in gioco sono assai vaste).
Di cittadinanza, in genere, si parla in tre significati.
(i) La cittadinanza, dal punto di vista del diritto internazionale, si definisce come appartenenza, nazionalità.
(ii) Vi è poi una definizione più vicina al diritto costituzionale e più centrale per la filosofia politica e del diritto, che è quella della partecipazione alla decisione sulla legge in una comunità politica.
(iii) Vi è infine un terzo approccio alla cittadinanza, più sociologico, in cui la cittadinanza si definisce come appartenenza in termini sociali (gli inglesi parlano a tal proposito di “membership“, o “belonging“) o addirittura come appartenenza attiva, come coinvolgimento all’interno di una comunità dal punto di vista sociale, coinvolgimento relativo alla vita politica, impegno di partito od anche sindacale.
Ora, chi sparla ritiene (e crede che la posizione adottata trovi conforto nella storia della nozione e della pratica di questa) che il senso centrale, il cuore della nozione corrisponda al suo significato “politico” o “costituzionale”: la partecipazione come titolarità di diritti politici.
Mi sia consentito argomentare innanzitutto a contrario.
- La cittadinanza non è mera “titolarità di diritti umani”. Questo è un punto molto importante: la cittadinanza – purtroppo – non è solo appartenenza o titolarità di diritti umani. Non si lascia ridurre a queste due situazioni. Su ciò ha scritto in maniera intensa e radicale una delle filosofe più interessanti del Novecento qual è Hannah Arendt, autrice di uno splendido libro come Le origini del totalitarismo[1].
Arendt riflette sulla grande tragedia del Novecento, ed arriva a questa conclusione: guai ad essere solo titolari di diritti umani. Se si è titolari di soli diritti umani si è persi. Perché? Perché non si ha cittadinanza: ciò che ci offre protezione è la cittadinanza.
Ciò che ci protegge è fondamentalmente la comunità politica, la capacità di darsi delle leggi in un contesto istituzionale e di contribuire al darsi delle norme in tale contesto, unitamente alla capacità di poter rendere effettive queste norme. I diritti umani, purtroppo, non offrono nulla di ciò. Lo dà la cittadinanza. Ed ecco perché la cittadinanza viene inclusa tra i diritti umani: l’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo stabilisce che il diritto alla cittadinanza è un diritto umano fondamentale[2]. Ma se un soggetto è titolare di soli diritti umani e non gli viene concessa la cittadinanza è posto in una situazione di pregiudizio, di grave pericolo. Fondamentalmente è uno stateless, apolide, un “senza patria”.
(B) Ora, la cittadinanza non è nemmeno soltanto “capacità giuridica o soggettività giuridica”. Hannah Arendt sbaglia, allorché crede che la soggettività di diritto equivalga alla cittadinanza. Chi ha compiuto gli studi del primo anno di Giurisprudenza sa bene che la soggettività giuridica non equivale – fortunatamente – alla cittadinanza. Anche il non-cittadino è soggetto di pieno diritto: egli può stipulare un contratto, acquisire ed essere titolare di diritti reali, agire in giudizio etc. È possibile una qualche attività giuridica importante ed un riconoscimento della soggettività giuridica anche per il non-cittadino. C’è tuttavia chi non vuole questo, e forse ciò non era del tutto chiaro alla Arendt.
- La cittadinanza però non è mera “appartenenza”. Ché questa è un criterio spesso definito in termini etnici o comunitaristici, senza che ciò implichi alcuna qualità di soggetto autonomo padrone di un proprio progetto di vita. La sudditanza è anch’essa appartenenza, ma non è ovviamente cittadinanza, che rinvia ad una posizione di autonomia e dignità. Il suddito subisce l’appartenenza, il cittadino decide su di essa. Determinante per la vigenza di uno status proprio di cittadinanza è l’attribuzione di una competenza su competenza, come accade per la sovranità di cui la cittadinanza non è che un’altra faccia. Si è cittadini e v’è cittadinanza, e si è titolari del diritto di contribuire alla produzione ella norma sulla cittadinanza.
- La cittadinanza non è neppure “partecipazione”, là dove questa si intenda come partecipazione “non qualificata”, nel senso sociologico menzionato prima. Non basta essere membro di un sindacato o di un partito politico, o di un comitato di quartiere per avere cittadinanza: la cittadinanza è titolarità dei diritti politici, della possibilità di contribuire ed avere accesso alla produzione della legge, della norma giuridica. Ciò significa anche che cittadinanza e democrazia sono situazioni intimamente connesse. La cittadinanza è una delle due facce della moneta dell’ordine politico democratico. L’altra faccia è la sovranità, il potere di deliberare e di statuire la norma vincolante per la comunità di riferimento.
Giungo pertanto alla mia tesi centrale sulla cittadinanza. La definizione di cittadinanza che adotto non è propriamente “mia”, fa parte di una antica tradizione di pensiero. Questa di séguito ritengo sia la definizione corretta.
Il cittadino è membro partecipante di una comunità politica e lo è mediante l’accesso alla produzione delle norme giuridiche, tanto generali quanto individuali, vale a dire alla legislazione e – in particolar modo – anche alla giurisdizione. Questo è un punto chiave per l’idea che qui presento. Il cittadino deve poter accedere anche alla giurisdizione, alla produzione della norma individuale (utilizzando la terminologia kelseniana, adottando pertanto la differenza tra norma generale del legislatore e norma individuale contenuta nella sentenza, nella decisione giudiziale).
Il cittadino deve poter accedere a tale produzione di norme su un piede di uguaglianza con gli altri cittadini. Tale uguaglianza si specifica – questo è un punto fondamentale – nella comune libertà di chiedere e dare ragione. La cittadinanza implica il potere, una libertà, di chiedere ragioni e di dare ragioni per ciò che concerne tutti gli atti di autorità che si esige siano applicabili al cittadino stesso.
La cittadinanza si inventa in Grecia, fondamentalmente, e ad Atene in particolare. La tradizione politica e culturale degli Antichi, nonostante tutti i salti, i cambiamenti e le fasi di “quiescenza” del Cristianesimo (che sconvolge il mondo classico) e del Medioevo (che dimentica il greco antico) riemerge, però, nel Rinascimento. C’è una continuità di fondo in questa tradizione, ed una delle nozioni fondamentali che dà questa continuità alla cultura politica, e letteraria, euro-occidentale è proprio quella di cittadinanza. Ora, cos’è la cittadinanza nell’antica Grecia?
A mio parere la cittadinanza in Grecia può spiegarsi come la rielaborazione e trasformazione di quella che è una virtù privata (fondamentale per il pensiero) in una capacità pubblica. Qual è la virtù privata in questione? È la enkràteia [ἐγκράτεια]. Essa è la virtù che oggi potrebbe tradursi come “moderazione” o “temperanza”, una della quattro virtù cardinali. Cosa significa enkràteia? Kratos à “potere” o “controllo”; quindi self-control, “auto-controllo”, potrebbe essere una buona traduzione di enkràteia. Questa virtù[3], corrispondente al controllo di sé stessi od anche all’autonomia, se estesa dal piano individuale – che le è proprio – a quello collettivo la si rende come virtù collettiva, di modo che il controllo di sé stessi divenga il controllo della comunità su se stessa. E tale controllo, fondamentalmente, è la politeia. Questo termine viene tradotto in tanti modi (repubblica, Stato, costituzione) ma politeia è anche un modo per indicare la cittadinanza. Tale circostanza, nella lingua greca, è molto interessante: lo stesso termine, o nome, significa costituzione, città (a cui si riferisce anche polis [πόλις]) ma politeia è anche la cittadinanza. Può dirsi allora che l’auto-controllo collettivo, la gestione della cosa collettiva fatta dai membri, da coloro che sono interessati e coinvolti nella cosa collettiva, quindi dai membri della comunità, sia ciò in cui consiste la cittadinanza. Ed è il potere che i soggetti hanno sulla regolazione degli attori pubblici che li rende cittadini.
A questo proposito mi sia consentito far riferimento ad alcune riflessioni di Aristotele e ad una, fondamentale, di Platone. Aristotele parla della cittadinanza in vari luoghi, ma il luogo classico è il Libro III della Politica. Lo Stagirita dice varie cose sulla cittadinanza, quasi tutte di grande interesse ed attualità. Che cos’è la cittadinanza? La cittadinanza – afferma Aristotele – equivale a “partecipare della città”, ed in merito usa un termine adottato spesso, in maniera classica, dagli autori tragici per indicare il rapporto del cittadino con la città: metèchein, metèchein tes pò/eos [μετέχειν τες πόλεος], “partecipare della città”, rinvenibile nell’opera La Costituzione degli Ateniesi (xxvi, 3)[4]. Tale metèchein, μετέχειν, non è anodino. Platone e Aristotele sono grandissimi filosofi, filosofi generali, ed il problema fondamentale della filosofia è quello della realtà (riconducibile alla domanda “che cos’è la realtà?”) e quindi dei concetti, mediante i quali si “afferra”, ovvero si comprende e si spiega la realtà.
Pur non addentrandoci nella vastissima discussione (con particolare riferimento alla teoria dei concetti, che è la teoria della realtà), basti qui dire che quando si parla di concetti si afferma che la realtà delle cose, quindi la loro essenza, dà la natura alla cosa. E la cosa è quello che è perché partecipa dell’essenza. Entrambi, sia Platone che Aristotele – pur nella loro diversità -, talvolta utilizzano in tal senso l’espressione metèchein [μετέχειν], la “partecipazione”. Pertanto, quando si dice che la cittadinanza partecipa della città, si sta affermando che la città si dà mediante la cittadinanza: è la cittadinanza l’essenza della città, è essa la costituzione della città. Non mi soffermo oltre sul punto, che richiederebbe una trattazione ben più estesa.
Qual è la definizione di cittadinanza? Nella Politica, sempre nel Libro III, Aristotele dice: «Cittadino in senso assoluto non è definito da altro che dalla partecipazione alla funzione di giudice e alle cariche» (III, 1275a, 22-25)[5]. Va ricordato poi un passo delle Leggi di Platone, molto importante per l’argomentazione della tesi qui articolata. La cittadinanza, per Platone, è immediatamente connessa alla partecipazione alla giurisdizione ed al potere giudiziario. Il riferimento letterale, pertanto, va al passo menzionato delle Leggi (VI, 768a): «le accuse di delitti – dice Platone – contro la città devono essere innanzitutto giudicate con la partecipazione del popolo – infatti nel caso di un’offesa recata da qualcuno alla città, gli offesi sono tutti e tutti giustamente a malincuore sopporterebbero d’essere esclusi dalla partecipazione a queste sentenze»[6].
II. Adesso rivolgo la mia attenzione al tema della parresia.
La parresia è per certi versi un tema quasi misterioso. Per tanto tempo è stata poco studiata. Di parresia fondamentalmente si ridiscute oggi soprattutto grazie agli studi di Michel Foucault, che alla parresia ha dedicato alcuni corsi di un’intelligenza folgorante.
La parresia ha una sua storia (è termine del greco antico) ed una sua evoluzione. La parresia, in un primo tempo, significa qualcosa, poi – si vedrà – altro ancora, e ciò avviene eminentemente a causa dell’evoluzione, del passaggio dalla città classica alla fase dell’Ellenismo, e poi dalla cultura ellenistica al greco ed al lessico utilizzato dal primo Cristianesimo. Tutta una serie di termini, com’è noto, si modificano: basti pensare a doxa, che è l’opinione, e che diventa la gloria, finanche la gloria di Dio. O ad ekklesia, che da termine che indica l’assembla della città di Atene in cui si riuniscono e deliberano tutti i cittadini diviene la Chiesa di Cristo. O ancora ad episkopos, guardiano, sorvegliante, sentinella, poi vescovo, Si assiste ad una evoluzione simile, ad uno slittamento di significato anche nel caso della parresia.
C’è una preistoria della parresia, e che è quella che si rinviene nell’Iliade nell’episodio tra Ulisse e Tersite. Nell’Iliade – lo si ricorderà – v’è questa assembla dei re Achei, convocata da Agamennone per discutere attorno alla sua proposta di far ritorno in patria ed abbandonare il campo di battaglia di Troia. Ulisse si dice contrario alla proposta di tornare alle navi, facendo ritorno in patria, e l’opposizione del re di Itaca dà vita a una discussione, a dei discorsi. A quel punto interviene un soggetto estraneo a quel consesso: Tersite, un umilissimo soldato, un fante, al cospetto di re come Agamennone – capo dell’esercito Acheo e “re dei re” – ed Ulisse. Tersite vuole intervenire per dire delle cose ma Ulisse lo interrompe dicendogli: «Tersite lingua confusa» [Thersit’ akritòmythe –Θερσίτης ακριτόμϋθε]» (Iliade, II, 244)[7], e lo colpisce con lo scettro che aveva preso ad Agamennone (il simbolo del potere regale), mandandolo via poiché non ha diritto di parola. Una delle cose che si rimprovera a Tersite, oltre al fatto di essere d’umili origini, gerarchicamente un inferiore, è di parlare in maniera “disordinata”. Il termine usato a tal proposito è quello di non parlare katà kosmon, ovvero in maniera ordinata, secondo l’ordine.
La “parresia”, come vocabolo, però nell’Iliade non c’è. Il termine ha invece due ricorrenze, peraltro dense, e che corrispondono a due frammenti della letteratura greca antica. Purtroppo, lo sappiamo, la grande cultura greca ci è pervenuta mediante frammenti, “cocci”; non abbiamo tante opere complete, tanti “vasi”, della letteratura greca, ma per l’appunto spesso solo “cocci”. Questi, nondimeno, rivelano la grandezza della cultura greca. E di questi frammenti luminosi ve ne è uno riconducibile a Democrito.
Democrito, lo sappiamo, è filosofo odiatissimo da Platone, il quale addirittura pare proponesse di bruciarne i libri. Platone non aveva un bel carattere e, fondamentalmente, aveva uno spirito autoritario ed antidemocratico. Mentre il grande filosofo della democrazia greca è Democrito per l’appunto, di cui purtroppo ci sono rimasti solo frammenti, cocci. Ora, il frammento 226, che si riporta in greco, recita: «Oikèion eleutheries parresie [οικέιον ελευθεριες παρρεσιε]». Sono tre parole. Ma che significa? «La parresia è ciò che è proprio della libertà» — si traduce. Ma cosa è la parresia? E qui ci è d’ausilio un altro frammento, di Euripide, il 737, dalle Temenidi, in cui si legge: «kalon g’alethès k’atenès parresia». Su questo frammento si è esercitata la sapienza dei filologi. Si potrebbe allora proporre la traduzione seguente: «cosa bella e buona è la parresia, vera ed ostinata». Sulla base di una serie di considerazioni che qui non possono svilupparsi appieno, ma che sul piano filologico poggiano sull’utilizzo del dizionario di H.G. Liddell e R. Scott[8], sarebbe possibile tradurre anche nel modo seguente: «è cosa bella e buona la sfida della parola che produce libertà e tensione». La parresia è qui tradotta come la sfida della parola che, provocando conflitto, libera.
V’è un riferimento molto bello nello Ione di Euripide: «Se uno straniero giunge in una città di stirpe pura, per quanto lo si dica abitante della città [che è astòs, αστòσ non polites, πολιτεσ] deve frenare la lingua e non ha libertà di parola» (Ione, 671-672)[9]. Questa traduzione può proporsi a partire dalla lettura del testo greco (quanto all’enunciato “non ha libertà di parola”): «ouk echei parresìan [ουκ εχει παρρεσìαν]»; non ha la parresia. Allorché Giocasta, nelle Fenicie, domanda a suo figlio Polinice quale sia la cosa più terribile che definisce la condizione di esule, di non-cittadino, e che più lo tormenta, si sente rispondere da Polinice: «una è la cosa più grave, non ha la libertà di parola»[10]. «Ouk echei parresìan [ουκ εχει παρρεσìαν]».
La parresia nel tempo è utilizzata in vari contesti, tra cui quello ellenistico e neo-testamentario. Nel contesto ellenistico c’è una ricorrenza della parresia che è particolarmente importante; si ritrova nella prima traduzione greca della Bibbia (la Bibbia cosiddetta dei Settanta. Ad un certo punto, nel Levitico 26-13, si rinviene questa frase, che riporto in italiano seguendo la traduzione cinquecentesca- la più bella a parere di chi scrive – di Giovanni Diodati: «Io sono il signore Iddio vostro, che vi ho tratti fuor del paese degli egizi, acciocché non foste loro servi; e ho spezzate le sbarre del vostro giogo e vi ho fatto camminare a capo erto»[11]. E leggo la traduzione di Calvino, che ha tradotto la Bibbia in francese: «]e suis le Seigneur votre Dieu qui vous ai retirés du pays d’Egypte, afin que vous ne fussiez serfs; j’ai rompu les cordes de votre joug, et vous ai fait cheminer la tete levée». Come è tradotta l’espressione «la tete levée» nella Bibbia dei Settanta? Si traduce con metà parresias [μετά παρρεσιας], con parresia o anche, forse, verso la parresia. Quindi ciò che per Calvino si volge come «la tete levée», ovvero – in italiano – “a capo erto”, viene tradotta da Lutero in «aufrecht», diritto, e nella Biblia Del Oso, la prima versione in castigliano, «el rostro alto. Nella Bibbia inglese di Re ]ames si dice «upright». Ma com’è nell’originale ebraico? Nella Bibbia dei Settanta è metà parresias [μετά παρρεσιας], mentre nell’originale ebraico figura un participio che è «qom’mijjut» che significa dritti, o eretti. Dunque il termine parresia rende, in questo contesto, “con la testa in alto”, “stando dritti”.
L’analisi della parresia – seppure con una certa rapidità, per cui ci si scusa – si conclude qui, e l’argomentazione volge ora lo sguardo alla figura dell’avvocato.
III. Com’è noto, l’avvocatura è una figura istituzionalmente e normativamente problematica, controversa, a differenza di quella del giudice.
Perché è problematica? Perché vi è una doppiezza di ruolo dell’avvocato: egli è attore pubblico e, allo stesso tempo, soggetto privato. Difende gli interessi della parte ma è al contempo orientato alla realizzazione dei princìpi di giustizia. Questa doppiezza è registrata da vari codici deontologici, ad esempio da quello europeo, ma soprattutto da quello emanato in àmbito americano.
Gli avvocati americani hanno un codice deontologico, emanato dal Consiglio Nazionale Forense (American Bar Association, A.B.A.); questo si chiama Model Rules of Professional Conduct, e contiene un Preambolo. Cito ora da tale Preambolo: «A lawyer, as a member of the legal profession, is a representative of client, an officer of the legal system and a public citizen having special responsibility for the quality of justice». Si noti come queste tre qualifiche o funzioni dell’avvocato, (i) rappresentante del cliente, (ii) funzionario del sistema giudiziario, e (iii) cittadino con una specifica responsabilità pubblica, possono essere – e sono – tra loro in essenziale conflitto. La figura dell’avvocato ha una lunga storia, al cui interno si assiste alla divaricazione tra una posizione ottimista ed una pessimista intorno al ruolo di questa figura professionale.
La posizione ottimista-moralista dell’avvocato ritiene che possa esistere l’uomo buono che sia capace di difendere l’interesse del cliente e nel contempo i princìpi di giustizia, the good lawyer[12]. Ma la prospettiva prevalente è, tendenzialmente, quella della concezione pessimista-amoralista, la quale si ritrova nella letteratura in autori quali Dickens, il nostro Manzoni, o Shakespeare (basti pensare al “grido” rinvenibile nell’Enrico VI, parte II, che si sostanzia nella famosa frase «let’s kill all the lawyers [uccidiamo tutti gli avvocati]»).
Qui gli avvocati sono visti come agenti non di giustizia ma di ingiustizia, giacché non mirano al bene comune ma semplicemente all’interesse – egoistico, spesso ingiusto – del proprio cliente, e finanche al proprio interesse di arricchimento come professionisti. Questa è anche, in qualche modo, la posizione del Platone delle Leggi e la si ritrova nella potente narrativa Charles Dickens (che si sofferma sulla figura dell’avvocato in particolare in Bleak House, “Casa desolata”, ché desolato è per il romanziere inglese il panorama che offre il sistema giuridico inglese). Dickens, attraverso la descrizione di alcuni personaggi propri della professione, dice cose terribili sull’avvocato. Ascoltiamo Huriah Heep, un personaggio specialmente infame, avvocato anche lui: «Lawyers, sharks, and leeches are not easily satisfied»[13]; avvocati, squali, e sanguisughe non si soddisfano facilmente.
Non è questa però la posizione di Balzac. Sia Dickens che Balzac sono stati praticanti di studi legali, entrambi hanno dedicato anni alla pratica forense. Balzac è influenzato dalla tradizione francese in cui l’avvocato ha una sua storia positiva, poiché figura artefice della Rivoluzione Francese: Danton è avvocato, così come Robespierre, Desmoulins, e molti altri ancora. Tant’è che Napoleone, alla fine, ché tra l’altro era sospetto- so verso la Rivoluzione («La révolution est finie»[14]), parla degli avvocati come di un “mucchio di chiacchieroni” (ce tas de bavards). È noto che la Rivoluzione Francese, alla fine, elimina la figura istituzionale del Consiglio dell’Ordine e chiude le Facoltà di Giurisprudenza.
Balzac dedica tante opere alla figura dell’avvocato ed una tra queste, in particolare, è Le Colonel Chabert. In questa opera c’è una figura nobile di avvocato, o avoué (si ricordi la distinzione tra avoué ed avocat nella tradizione forense francese). Si tratta dell’avvocato Derville che difende le ragioni e gli interessi del povero colonnello Chabert. E qui aggiunge Balzac questa consierazione: «Les avoués ne sont-ils pas en quelque sorte des hommes d’Etat chargés des affaires privés? [Gli avvocati non sono in qualche modo degli uomini di Stato incaricati di affari privati?]»[15].
Ora, per l’avvocato la libertà di parola, la capacità di chiedere ragione all’autorità od all’altra parte, è qualcosa di fondamentale. Senza questa libertà il suo ruolo non potrebbe esercitarsi con efficacia. Ed anche questa attività produce tensione e conflitto, che però è essenziale alla sua funzione. Si può anche rammentare che in uno scritto ellenistico di Luciano di Samosata, Il pescatore, o i redivivi (Anabiountes e halieus), compare un personaggio chiamato Parresiade la cui professione è proprio quella dell’avvocato.
Giungo alla conclusione di questa mia relazione. Dove può rinvenirsi il legame tra cittadinanza ed avvocatura? L’avvocato rende possibile la cittadinanza, rende operativa la capacità del cittadino di aver accesso alla produzione della norma giuridica, in particolare di quella individuale (ossia la partecipazione alla giurisdizione). E fa ciò, tra l’altro, e in buona sostanza, mediante la parresia.
L’avvocato serve a rimediare ad una serie di debolezze o deficienze della cittadinanza dinanzi al sistema giuridico.
- L’avvocato rimedia innanzitutto all’insufficiente conoscenza giuridica del cittadino; gli apre le porte del papere giuridica è il gate keeper, dicono gli Americani, del territorio giuridico così ignoto e aspro per il cittadino comune e l’uomo della strada.
- L’avvocato evita anche o cerca di evitare la possibile eccesiva egocentricità della parte che gli si rivolge per avere assistenza. L’individuo, il cittadino, da solo può facilmente cadere nell’abuso del diritto. L’avvocato diviene indispensabile perché pone al cittadino uno specchio davanti a sé; l’avvocato è una sorta di camera di raffreddamento della deliberazione della parte, evitandone la precipitazione e radicalizzazione e, per certi versi, l’immoralità ed ingiustizia. L’avvocato offre un surplus di prudenza e saggezza all’assistito.
L’avvocato dunque è una sorta di speculum rei, un parresiasta che dice la verità non soltanto al giudice, e che non sfida solo quest’ultimo ma anche la parte. Ecco perché nella deontologia professionale la sua virtù principale è rinvenuta nella indipendenza, piuttosto che nella imparzialità.
(c)L’avvocato rimedia alla presunzione di colpa dell’imputato, ed alla condizione di sottomissione e debolezza in cui esso si trova (si pensi all’imputato nel processo penale) poiché gli fa “rialzare la testa”. L’avvocato serve a far rialzare la testa all’imputato, metà parresias.
(d) L’avvocato, infine, rimedia alla solitudine della parte, del cittadino-imputato, e rappresenta il legame tra l’imputato e la sua comunità. E rimedia alla solitudine del cittadino rispetto a se stesso.
Credo che tutto ciò, seppure argomentato in maniera molto rapida e sintetica, giustifichi la possibile definizione dell’avvocato come paradigmaticamente parresiasta.
* Emerito di filosofia del diritto nell’UMG di Catanzaro
[1] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, 2009 (1° ed. it. 1967; ed. orig. The Origins of Totalitarianism, New York, 1951).
[2] «Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza».
[3] Per Platone è questa la virtù centrale, mentre è noto che per Aristotele la virtù più importante, quantomeno dal punto di vista sostanziale e non procedurale, sia la giustizia. Per Platone la virtù fondamentale è la enkràteia, la “temperanza”, anche se tale termine non pare rendere bene la nozione. Per una disamina più approfondita della questione si veda, su tutti, M. La Torre, Libertà di parola. Cittadinanza e avvocatura, Roma, 2021, soprattutto p. 22 ss.
[4] Tra le opere dello Stagirita è quella ritrovata più di recente: lo scritto è rimasto perduto per secoli e venne rinvenuto solo negli anni Quaranta dello scorso secolo.
[5] Cfr. Aristotele, Politica, in Id., Opere, vol. 9, trad. it. a cura di R. Laurenti, Roma-Bari, 1973, p. 72.
[6] Trad. mia. Il testo greco, nella sua versione originale, è il seguente: «Οι κατηγορίες για εγκλήματα κατά της πόλης πρέπει πρώτα να κριθούν με τη συμμετοχή του λαού στην πραγματικότητα, στην περίπτωση ενός αδικήματος που προκλήθηκε από κάποιον στην πόλη, οι προσβεβλημένοι είναι όλοι και όλοι δικαίως θα άντεχαν απρόθυμα να αποκλειστούν από τη συμμετοχή σε αυτές τις αποφάσεις». Si veda in merito M. La Torre, Libertà di parola, cit., pag. 26., in cui si opera il riferimento a Platone, Leggi, in Id., Opere, vol. 7, trad. it. di A. Zadro, Bari-Roma, 1979, p. 196.
[7] Cfr. Omero, Iliade, trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, 1951.
[8] Cfr. H.G. Liddell, R. Scott, Dizionario illustrato greco-italiano, a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi e F. Di Benedetto, Milano, 1975.
[9] Cfr. Euripide, Ione, trad. it. di M.S. Mirto, Milano, 2016, p. 151. Sul punto, per una disamina di più ampio respiro, si veda M. La Torre, Libertà di parola, cit., p. 38 ss.
[10] Cfr. Euripide, Fenicie, trad. it. a cura di E. Medda, Milano, 2010. L’intero enunciato, nel testo greco, recita: « εν μεν μηγιστον ουκ εχει παρρεσìαν [hen men mègiston ouk echei parresìan]». Per una più ampia disamina cfr. M. La Torre, Libertà di parola, cit., p. 39.
[11] Cfr. La Sacra Bibbia, ossia L’Antico e il Nuovo Testamento, 1995, Roma, p. 140.
[12] Cfr., su tutti, D. Luban, The Good Lawyer: Lawyers’ Roles and Lawyers’ Ethics, Totowa, 1984.
[13] Ch. Dickens, David Copperfie/d, a cura di ]. Tampling, Penguin, London, 1996.
[14] «Citoyens, la révolution est fixée aux principes qui l’ont commencée, elle est finie», è la framosa fase del Bonaparte resa in occasione del 18 Brumaio, il 9 novembre, del 1799
[15] Cfr. H. de Balzac, Le Colonel Chabert, a cura di P. Berthier, Paris, 1999, p. 111.