di Domenico Bilotti* –
La più stimolante contraddizione nel vissuto telesiano consiste nella sua afferenza a un mondo di relazioni sociali ancora in gran parte profondamente derivativo, rispetto alla demografia e ai rapporti civili in opera, e nella schietta rivendicazione di un orizzonte di senso meno ipostatizzato e conservatore delle mode del periodo. Ciò certo non fa di Bernardino Telesio un rivoluzionario, sicuramente non nel senso che al lemma hanno attribuito il diritto costituzionale e la dottrina dello Stato negli ultimi due secoli. Ne individua la teoresi, tuttavia, in una interlocuzione critica coi saperi e in una modalità tutta nuova di secondarne la diffusione. Sul piano dell’analisi giuridica serve adesso comprendere se quella spinta controtendenziale abbia avuto, o meno, riflessi empiricamente riscontrabili, nel metodo della discussione giudiziaria e delle sue categorie operative di riferimento.
Dal punto di vista redazionale, il De Rerum Natura Iuxta Propria Principia precorre la manualistica dei secoli successivi, anche sul piano della stesura – per altro verso, secondo una modalità di scrittura molto frequente nell’accademia meridionale. Telesio portava con sé una sorta di set di appunti, per le dispute, le lezioni e i dibattiti cui partecipava, e mano a mano certosinamente ingrossava il blocco, conferendogli struttura più rifinita. Il primo libro dell’opera è pubblicato a Roma soltanto nel 1565: da oltre un ventennio, però, era ben nota l’elaborazione telesiana e, almeno dal decennio precedente, sia a Napoli sia in Roma è probabile circolassero appunti e sintesi del più vasto opus telesiano. Che il primo libro monografico dell’A. appaia quando ormai è ultracinquantenne dimostra invero l’ulteriore processo di composizione dell’opera, secondo una sua coerenza interna, ma anche tramite un iter progressivo fatto di revisioni continuative. Il De Rerum Natura è in sostanza (esattamente come per i grandi dottrinari della scienza privatistica nel Novecento) un libro noto quanto ai suoi orientamenti di fondo, ben prima che sia integralmente pubblicato. Probabilmente, anzi, hanno un ruolo a che sia presto edita anche la seconda sezione del volume, solo cinque anni più tardi, a Napoli, le pressioni entusiastiche di un mondo culturale interessato a leggere finalmente a sistema le tesi del filosofo cosentino, non bastando più la singola circostanza oratoria nella quale volta per volta fossero state presentate, nella sede di un dibattito specialistico.
È probabile, ancora, che Telesio stesso sia addivenuto a questa decisione per almeno tre ordini di motivi. Il primo, quello più comprensibile agli occhi della posterità, è che avere una fonte ufficiale, scritta e finanche vistata dal suo autore, avrebbe consentito di eliminare interpolazione esterne, garantendo così una più salda e attendibile circolazione della stessa. Su Telesio poi gravavano singolari sospetti per posizioni strutturalmente eterodosse, rispetto alla linea ufficiale del magistero ecclesiastico e alla tradizione teologica che ne sostanziava, nella pratica, la dottrina e il consenso. Da questo punto di vista, come ogni oppositore al sentire comune del suo tempo, che però accetta di non violarne le istituzioni, Telesio è un singolare tipo di umanista, eppure non tanto di nuovo conio. Proviene da una famiglia altolocata, nella quale il rapporto con le autorità ecclesiastiche è sempre stato radicato, risalente e solido. Come si è precedentemente osservato, per quanto non lo fosse in senso stretto, talvolta Telesio era definito dalle fonti un chierico. Se chierico era, tuttavia, lo era soprattutto nel senso storico-etimologico e socio-culturale delle esperienze dei clerici vagantes, a base della nascita del sistema universitario europeo: pensatore itinerante, spirito acceso, di abilità pedagogico-persuasiva. Non invece nel senso strettamente giuscanonistico che ancora modellava lo strumentario intellettuale del giurista di rango, per il tramite dell’utrumque ius nella dottrina privatistica (che a quella straordinaria fase di significazione interordinamentale, tra digesto e corpus, ancora guardava, per formazione, se non per convinzione) e del diritto inquisitoriale nelle procedure criminali. Telesio aveva viepiù prole legittima e una moglie alla quale era affezionatissimo: è lo stato vedovile che rende plausibile la proposta di Pio IV; in assenza di quello, il diritto vigente cinquecentesco avrebbe potuto far qualificare Telesio anche come consigliori ecclesiastico, giammai quale vescovo o porporato.
En passant, la tanto vituperata inquisizione, certo esecrabile sul piano delle condanne emesse e delle ragioni giustificative e apologetiche delle medesime, tuttavia fu, alla stregua di quanto oggi notano internazionalisti e processualisti, la prima base per configurare una giurisdizione generale alternativa al primato delle sovranità territoriali. Lì, e ieri, promossa in ragione dell’universalismo teologico; qui, e oggi, legittimata de facto da una governance e da una petizione sui diritti umani non più demandabile alla sola cornice statuale, dove anzi più spesso le violazioni avvengono.
Quale che ne sia stato l’impatto, la tardiva pubblicazione del De Rerum Natura è così bilanciamento tra il mantenere una posizione esteriore il più possibile cautelata, rispetto alle rimostranze canoniche, e l’opportunità di rendere però chiaro (senza travisamenti esterni) quanto l’analisi telesiana andava svolgendo e sviluppando. Ed è proponibile un terzo ordine di motivi, per cui finalmente l’inesausto Telesio scelse finalmente di pubblicare i risultati delle sue ricerche e delle sue riflessioni: il fatto, da un lato, che fosse mano a mano più convinto della piattaforma gnoseologica avanzata e che, dall’altro, esistesse ormai sia nell’ambiente partenope, che in quello pontificio un pubblico interessato all’opera.
I tempi per la gestazione matura del testo integrale si rivelano, del resto, autenticamente telesiani: il primo volume è del 1565, l’edizione completa è del 1586 – napoletana, e questa è conseguenza biografica. Nel primo periodo romano, la protezione di curia ha un peso; negli ultimi due decenni di vita, sono i nobili Carafa di Nocera a garantire al filosofo favori e consensi. È il periodo nel quale Telesio diventa in un certo senso l’intellettuale di riferimento in un certo tipo di convivi e simposi. Gli sono amici il drammaturgo e numismatico Annibal Caro – nonostante il petrarchista fosse teoreticamente ancora devoto al vetusto verbo aristotelico – e il grande letterato Torquato Tasso, che personalmente consola Telesio per il dramma del figlio ucciso.
Perché Telesio non è percepito dalla cultura, prossima, successiva come un fautore del riformismo giuridico? Bisogna ammettere che giurista professionale non è; la sua formazione è nella fisica. Quando arriva a incarichi amministrativi, non è per la sua specializzazione, bensì per la sua autorevolezza. Il suo illustre predecessore alla guida dell’Accademia cosentina è Aulo Giano Parrasio, filologo e umanista che alla cognizione delle fonti romanistiche arriva per l’esegesi latina; il successore di Telesio è Sertorio Quattromani, che pubblica la prima monografia su Bernardino Telesio nella storia della letteratura europea. È una dissertazione, ancora una volta napoletana, su aspetti civili del pensiero telesiano, che ne danno una lettura parzialmente diversa da come Telesio venne reinterpretato dal canone empirista anglosassone: una lettura, in un certo senso, più politica e mediterranea, più concentrata sull’aspetto etico e comunitaristico – a differenza dei cultori inglesi, che ne amplificarono l’importanza nel dibattito sui diritti de libertatibus. Quale che sia l’interpretazione corretta, manca in sostanza nel background telesiano quell’elemento di immediata pertinenzialità alla sfera giuridica che almeno de relato trovasi in Sertorio e Giano.
Gli oppositori del tempo di Telesio sono inoltre molto più interessati a vedere in lui non il riformatore del diritto, ma il riformato nella fede: sono tempi e luoghi nei quali “luterano” è contemporaneamente offesa e, talvolta, reato. Se un fratello di Telesio è ucciso da una congiura di vassalli, che aveva artatamente iscritto il nobile nel filone dei convertiti alla Confessione di Augusta del 1530 (atto giuridico-teologico fondativo dei movimenti religiosi protestanti, assai più che l’affissione delle tesi luterane di tredici anni precedente), persino il Telesio vescovo è accusato, per la sua impostazione vagamente liberale, di essere un assertore nascosto della Riforma. In fondo, la curia cosentina è a quel tempo in ebollizione: si vocifera di sette, eresie, confraternite esoteriche. L’episcopo sta vigilando, o il Santo Uffizio proprio contro di lui dovrà procedere? In vita, Bernardino è frequentemente avversato per non aver chiarito adeguatamente il tema dell’immortalità dell’anima – nel suo lemmario, le parole dello spirito e dell’anima hanno a che fare, giuridicamente parlando, più col concepimento e, al limite, con quello che i giuristi chiamano “capacità”, non certo con l’elaborazione escatologica. Eppure, si dimostra favorevole ad abiurare tutte quelle proposizioni che rischino di andare contro la dottrina dell’immortalità dell’anima: non è solo calcolo, è che non è sicuro di poter addivenire a risposta definitiva. E già la cultura del dubbio si innalza a criterio dell’inchiesta.
Nel decennio successivo alla scomparsa di quello scienziato, in parte conservatore quanto intrinsecamente al di fuori di ogni oscurantismo di potere, il De Rerum Natura è messo all’Indice dei libri proibiti. Le edizioni circolanti più note nell’Europa dei due secoli successivi proverranno da Magonza (feudo della Riforma) e da Ginevra (l’ambiente fecondo che conduce a prime istanze storico-moderne e storico-contemporanee di tolleranza e pluralismo religioso).
L’azione giudiziaria penale, nel pacifico antidogmatismo telesiano, non può però essere mai più quella inquisitoria: se l’esperienza abbevera la conoscenza, i criteri d’imputazione non possono desumersi dal pensiero o dalla qualità autoriale, bensì dal nudo fatto; la manifestazione del pensiero e l’acquisizione dei dati di scienza non possono essere vessati da interdetti che sorvegliano l’opinione, e non la prosperità della res publica. Il formalismo processuale stesso acquisisce un senso solo se riveste di garanzia un conflitto di tesi che deve svolgersi nella segnalazione della prova pertinente al processo decisionale. Il contraddittorio così emerge quale algebra del conflitto, in condizioni di pariteticità per il bene comune. È, insomma, evidente che la metodologia telesiana, applicata alla biografia e alla giurisprudenza, è tutto fuorché estranea alla formazione di un sentire sulla dignità umana, anche attraverso il filtro della validazione procedurale. Telesio ebbe a dire in fondo che suo scopo primario era quello di istituire una filosofia essenzialmente “umana”. Appunto.
*Docente di diritto ecclesiatico nell’Università Magna Graecia di Catanzaro
(Pubblicato in Ante Litteram n.1 – aprile 2024)