di Antonio Baudi –
1.Il tema ed il movente.
Il tema evocato nel titolo ha per oggetto le cause di giustificazione, argomento problematico, particolarmente discusso nella dottrina penalistica, sia sostanziale che processuale: è discusso sul piano sostanziale perché concernente l’inquadramento dell’istituto nella struttura dell’illecito penale; ed è discusso sul piano procedurale perché concernente la formula corretta da adottare nel dispositivo della sentenza.
Il movente del presente studio si riconduce al precedente scritto nel quale sono stati trattati i casi giudiziari di Giorgio Welby e di Marco Cappato, i cui rispettivi giudicabili, imputati, nel primo caso, per il delitto di omicidio del consenziente (ex art. 579 c.p.) e, nel secondo caso, per istigazione al suicidio (ex art. 580 c.p.), hanno conseguito un risultato processuale favorevole proprio in virtù della ritenuta incidenza di una esimente.
I relativi esiti vanno rievocati in sintesi.
Quanto al caso Welby il giudizio, proseguito davanti al giudice per l’udienza preliminare, si concluse nel luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato, il dott. Mario Riccio, perché “non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento del dovere” in quanto la condotta tenuta rientrava nella causa di non punibilità di cui all’articolo 51 del codice penale. Il giudicante ha ritenuto di affrontare in via preliminare il giudizio di responsabilità penale esplicitando che il delitto sarebbe stato configurabile in tutti i suoi elementi, sia oggettivo che soggettivo, se non fosse intervenuta l’esimente dell’adempimento del dovere, qualificata come “causa di non punibilità”.
Pertanto la decisione mostra di aderire all’orientamento dottrinario secondo il quale:
• la valutazione di globale illiceità del fatto commesso è pregiudiziale rispetto all’operatività della causa di giustificazione;
• in particolare non avrebbe senso giustificare un fatto che non è colpevole perché commesso senza dolo e senza colpa.
Secondo tale impostazione di pensiero si richiede che prima sia compiuto il giudizio sulla sussistenza del reato e sulla potenziale responsabilità, solo in seguito occorrendo valutare la rilevanza, oppositiva, dell’esimente, nel caso di specie identificata nell’adempimento del dovere.
Ne deriva che le esimenti, inquadrate tra le cause di non punibilità, sono esterne rispetto al giudizio sul fatto di reato, la cui illiceità è comprovata oggettivamente e soggettivamente.
Quanto al caso Cappato, va rammentato che per effetto della nota sentenza della Corte costituzionale il disposto dell’art. 580 cod. pen. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Alla luce di tale pronuncia la Corte di Assise di Milano, con la sentenza 23 dicembre 2019 n. 8, ha definito il processo a carico di Marco Cappato con assoluzione piena per l’imputato “perché il fatto non sussiste”.
Interessante la motivazione che, per quel che interessa in questa sede, si riporta testualmente:
“Ritiene la Corte di non poter ignorare gli argomenti prospettati dalle parti in ordine alla formula assolutoria da adottare, pur non ritenendo di svolgere sul punto una trattazione teorica che esulerebbe dai limiti della sentenza. La pronuncia della Corte Costituzionale non ha definito in modo esplicito se l’area di non punibilità necessaria per escludere l’applicazione di una sanzione penale per le condotte di aiuto al suicidio che presentano i requisiti più volte richiamati, debba intendersi come riduzione dell’ambito oggettivo della fattispecie incriminatrice, riducendone la portata, ovvero se le circostanze definite nei quattro requisiti configurino una scriminante. Ritiene la Corte di aderire all’orientamento espresso dalla pubblica accusa e da uno dei difensori dell’imputato, secondo il quale la pronuncia di incostituzionalità riduce sotto il profilo oggettivo la fattispecie, escludendo che configuri reato la condotta di agevolazione al suicidio che presenti le caratteristiche descritte. È il meccanismo di riduzione dell’area di sanzionabilità penale che non opera come scriminante ma incide sulla struttura oggettiva della fattispecie. In definitiva, il discorso sugli effetti dell’intervento della Corte interessa più gli studiosi del diritto penale che pubblici ministeri, avvocati e giudici, perché l’affermazione di non punibilità è elemento che incide in ogni caso sul piano oggettivo anche con riguardo alle cause di giustificazione (ritenute dalla dottrina elementi negativi della fattispecie nel suo profilo oggettivo). Tanto ciò è vero che, secondo l’orientamento tripartito della fattispecie penale, la formula assolutoria è quella della insussistenza del fatto.
La corte giudicante, a prescindere dal chiaro refuso riguardante l’ultimo riferimento alla concezione tripartita, mostra di intendere la “causa di non punibilità”, così qualificata dalla Consulta, come riferita al fatto, ritenuto insussistente perché non tipico e comunque giustificato.
Pare necessario chiarire il significato del termine “fatto” utilizzato in sentenza.
Se il termine si riferisce al fatto storico, esso, chiaramente ricostruito come commesso dall’imputato, non può dirsi “insussistente”.
Se invece, ferma restando la ricostruzione e descrizione del caso concreto, il termine è stato riferito alla fattispecie penale, come delimitata a seguito della pronuncia di incostituzionalità, ne consegue che, certamente escluso il richiamo alle condotte di determinazione ed istigazione, occorre chiarire come la corte giudicante abbia inteso il terzo profilo della condotta descritta dalla norma, cioè l’aiuto strumentalmente commesso in favore del suicida: tale comportamento penalmente resta illecito e punibile salvo che non ricorrano in concreto le condizioni in presenza delle quali la condotta di aiuto secondo la valutazione della Consulta “non è punibile”. Ricorrendo tale situazione che integra la sussistenza storica del fatto che la Consulta ha sottratto dalla sfera delittuosa della previsione normativa la formula adottata, di insussistenza del fatto, sembra mostrare adesione alla teoria della bipartizione, stante la presenza di un fatto commesso ma oggettivamente atipico o comunque giustificato.
Il raffronto tra le due pronunce evidenzia l’adozione di due formule finali differenti, addirittura opposte, e, nella parte in cui hanno riferimento a cause di giustificazione (certamente la prima, subordinatamente la seconda) sono sostenute da ragionamenti differenti, in tal modo ribadendo la problematicità dell’istituto delle esimenti quali “cause di non punibilità”.
2.La questione nel merito
Trattare di esimenti e, per riflesso, di antigiuridicità coinvolge inevitabilmente le fondamenta del diritto penale e la teoria del reato, tematiche di vastità tale e di diffusa problematicità da scoraggiare ogni intento analitico.
Ne deriva che il merito della questione va affrontato criticamente ma con impegno di essenzialità e di sintesi.
E’ noto che le cause di giustificazione, variamente denominate in dottrina, esimenti, scriminanti o cause di liceità, sono definite generalmente come particolari situazioni in presenza delle quali un fatto che altrimenti sarebbe reato non acquista tale carattere perché la legge lo impone o lo consente.
La definizione richiede il dovuto approfondimento sotto un duplice profilo:
a) in cosa consistano fattualmente dette “cause” o “situazioni”;
b) quale sia la loro rilevanza rispetto alla struttura del reato ed all’effetto punitivo.
È necessario, all’uopo, il riferimento alla disciplina normativa opportunamente interpretata sul piano letterale e teleologico, in primis avuto riguardo alle fattispecie descritte negli artt. da 50 a 54 del codice penale, tutte qualificate pacificamente esimenti e, per chiaro argomento letterale, inquadrate nella più ampia categoria delle cause di non punibilità.
L’impostazione sistematica del legislatore è chiara:
a) la norma penale si compone di un fatto e di un effetto;
b) l’effetto sul piano normativo è la punibilità in forma tipica;
c) il fatto, comprendente tutti gli elementi costitutivi, si qualifica come reato, illecito penale punibile, identificato attraverso il tipo della corrispondente pena (principale).
Il legislatore disciplina nella parte generale gli elementi costitutivi del reato, distinti in elementi oggettivi ed elementi soggettivi, la cui positiva ricorrenza è produttiva dell’effetto punizione.
Il reato è illecito, termine che secondo la teoria generale è un fatto offensivo e colpevole, offensivo perché commesso in violazione di diritti ed interessi legittimi, e colpevole, perché doloso o colposo: l’archetipo di illecito è quello descritto nell’art. 2043 del codice civile.
Il reato è illecito penale, qualificato in base al tipo di pena, e, in quanto fatto, si caratterizza più specificamente per la sua stretta tipicità fattuale.
Il reato, per configurarsi come illecito penale punibile, richiede una verifica complessa ed ordinata, prima oggettiva e poi soggettiva.
Sempre aderendo alla terminologia legislativa la verifica circa la ricorrenza dei due elementi prende avvio da “un fatto preveduto dalla legge come reato”; tale è l’espressione di esordio dell’art. 40 cod. pen., ma tale ipotesi di partenza (combinatamente fattuale e normativa), per essere ritenuta come reato esige una strutturata indagine attiva, una ricerca integrata da elementi positivi, perché occorre sussistano in concreto.
Tale requisito, della positiva ricorrenza (per cui il reato sussiste se ricorrono gli elementi che lo costituiscono), è convertito dal legislatore nella doppia negatività: il fatto di reato “non è punibile se non ricorre …” quasi a rafforzarne il rigore.
Sul piano oggettivo occorre: (a) un evento dannoso o pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato; (b) una azione od omissione; (c) un legame conseguenziale.
L’evento consiste in quel che si constata come successo, la situazione oggettiva separata dalla condotta umana.
La condotta è dimensionata in attiva (l’aver tenuto un comportamento che la norma vietava di tenere) ed omissiva (non aver tenuto quel comportamento che la norma imponeva di tenere).
La conseguenzialità consiste nel nesso causale che avvince i due termini, di comportamento e di evento.
I succitati componenti essenziali, che integrano l’esteriorità dell’illecito penale, sono quelli che la comune dottrina riconduce ai principi di materialità e offensività.
L’offensività esalta la rilevanza del requisito di disvalore elevato a principio ed è evidenziata dai qualificativi di dannosità o di pericolosità che connotano l’evento.
Il principio di materialità si è imposto storicamente per escludere la perseguibilità di pensieri illeciti e quindi per valorizzare l’esigenza che impone come necessaria la presenza di una condotta apprezzabile fenomenicamente ed esteriormente, ma tale requisito non appare corretto posto che la condotta omissiva esteriormente è inconsistente; ancor più incisivo appare il rilievo secondo cui il principio privilegia il profilo storico del fatto trascurando quello normativo mentre è chiaro che la verifica fattuale concreta sarebbe “cieca” senza una delimitazione di rilevanza normativa, e la verifica normativa sarebbe “vuota” senza il necessario riferimento al caso. Sarebbe quindi più pertinente qualificare il principio come di giuridicità, integrato dall’incontro di fatto e norma.
L’analizzato requisito oggettivo di illiceità penale non è esaustivo perché, come dispongono gli artt. 42 e 43 cod. pen., occorre ancora come necessaria la verifica dell’elemento soggettivo.
All’uopo occorre:
d) che l’azione o l’omissione siano commesse con coscienza e volontà (ex art. 42, quella che la dottrina qualifica suitas o padronanza della condotta);
e) che il fatto sia intenzionale, commesso con dolo, salvi i casi, espressamente preveduti, di imputazione a titolo preterintenzionale o colposo o di evento posto altrimenti a carico dell’agente.
Tali componenti essenziali che integrano la soggettività dell’illecito penale sono quelli che la comune dottrina riconduce al principio di colpevolezza.
La ricorrenza di detti elementi complessi, oggettivo e soggettivo, determina la punibilità del reato.
Solo in determinati casi la punibilità del reato dipende, per espressa previsione legislativa, (f) dal verificarsi di una condizione (ex art. 44). La constatazione che il legislatore citi “il reato” e non più “il fatto” lascia intendere che la condizione è estranea all’ambito della illiceità, pur incidendo positivamente sulla produzione dell’effetto punitivo.
In sintesi la configurazione di un reato, il cui effetto consiste nella esposizione a pena, si concretizza se ricorrono positivamente gli elementi costitutivi della fattispecie, esteriori ed interiori, oggettivi e soggettivi, e, in determinati casi, condizionali.
Il tema del reato come illecito strutturato punibile è normativamente esaurito.
La successiva disciplina generale affronta il tema opposto, della non punibilità.
Pertanto il legislatore, delineate le situazioni fattuali la cui necessaria presenza rende il fatto punibile, tratta le singole cause di non punibilità, consistenti in fatti diversi ed ulteriori, quali fonti nel complesso impeditive, ostacolanti e precludenti quell’effetto.
Tali “cause”, nell’ordine di trattazione codicistica, sono:
– il caso fortuito, inteso come fatto causale indipendente e assolutamente imprevisto ed imprevedibile (art. 45);
– la forza maggiore, intesa come fatto inevitabile (ex art. 45);
– il costringimento fisico, che, essendo irresistibile, sopprime totalmente la determinazione dell’agente (art. 46);
– l’errore, inteso come difetto cognitivo, secondo le diversificate regole (ex artt. 47, 48, 49).
Di seguito, negli artt. da 50 a 54, si disciplinano, come già evidenziato, le situazioni che la dottrina chiama esimenti e che il legislatore inquadra tra le cause di non punibilità.
Il connotato che fa da guida consiste nell’alternativa presenza/assenza: gli elementi costitutivi del fatto devono essere presenti e necessariamente; i fatti impeditivi, all’opposto, non devono essere presenti ai fini della punibilità. Posto che la presenza è requisito necessario per gli elementi costitutivi, la loro mancanza è l’altra faccia della stessa medaglia, perché la valutazione di mancanza del requisito esclude la sussistenza del fatto illecito penale e conseguentemente la sua punibilità: presenza e assenza, rispetto agli elementi costitutivi, è fatto intrinseco nella valutazione.
Quanto ai fatti impeditivi la loro assenza è “fisiologica”; soltanto l’eventualità della loro presenza, estrinseca nella verifica fattuale di illiceità, compromette l’operatività della norma penale punitiva.
Diversa è la rilevazione in fatto, necessaria o eventuale, diversa è la rispettiva rilevanza, determinate ai fini della punibilità, ammessa o esclusa.
Tanto chiarito sul piano della disciplina normativa, la categoria generale delle cause di non punibilità è notoriamente oggetto di diffusa trattazione da parte della dottrina che ne rileva la eterogeneità, in quanto l’effetto della non responsabilità e della non punibilità può dipendere da situazioni svariate, di molteplice tipologia e natura, qualificate nell’ordine come esimenti, scusanti o cause di non punibilità in senso stretto.
In effetti la non punibilità può dipendere:
1.dalla presenza di una delle cause di giustificazione (esimenti);
2.dalla presenza di una delle cause di non colpevolezza, dipendenti dal processo psichico e motivazionale (scusanti);
3.dalla presenza di una delle cause di non punibilità in senso stretto, tipizzate dal legislatore per ragioni di opportunità politico-criminale.
Tali situazioni sono accomunate tutte perché impeditive dell’effetto punitivo ma vanno analizzate nella loro fattualità e nella diversificata specifica rilevanza secondo un preciso ordine logico che privilegia le esimenti, perché ritenute oggettive, rispetto alle scusanti, perché ritenute soggettive, e colloca da ultimo le condizioni di punibilità perché occasionali e residuali.
Trattando ora la specifica problematica concernente la collocazione delle esimenti nell’ambito della struttura del reato, è noto che competono in dottrina due inquadramenti dogmatici.
Secondo la concezione della bipartizione l’illecito penale si compone di un dato oggettivo, il fatto tipico, e di un dato soggettivo, la colpevolezza: nella componente oggettiva, di portata sia naturalistica che valoriale, sono inseriti due elementi, uno positivo, integrato dalla ricorrenza degli elementi oggettivi richiesti dalla fattispecie, e uno negativo, inteso come non ricorrenza, quindi assenza, delle cause di giustificazione. Ne deriva che le esimenti si considerano elementi negativi del fatto che devono essere verificati come assenti per definire la tipicità del fatto medesimo, per cui, se all’opposto fossero presenti, la formula terminativa sarebbe quella assolutoria per insussistenza del fatto.
Secondo la concezione della tripartizione l’illecito penale si compone, nell’ordine, di fatto tipico, antigiuridicità obiettiva e colpevolezza. La tipicità implica la corrispondenza di una condotta, o meglio, del fatto esteriore, ad una fattispecie incriminatrice, ribadendosi la comprensiva esigenza della offensività della condotta in concreto; l’antigiuridicità consiste, secondo la definizione più ricorrente, nel rapporto di contraddizione con l’intero ordinamento e pertanto richiede che il fatto sia antigiuridico in quanto non sia commesso in presenza di alcuna causa di giustificazione; la colpevolezza, infine, rappresenta un principio cardine nel segno della riferibilità personale del rimprovero penale.
La teoria della tripartizione è oggi prevalente e risulta avvalorata, tra le altre critiche mosse alla bipartizione, dall’obiezione di matrice logica, ritenuta insuperabile: la logica della giustificazione, che sottende le esimenti, è quella che presuppone un fatto tipico e necessariamente lesivo, per cui, ad esempio, l’omicidio commesso per legittima difesa non cessa di essere oggettivamente un omicidio, anche se si tratta di un omicidio giustificato.
Altra tesi dottrinaria, denominata della quadripartizione, aggiunge a quella della tripartizione, l’ulteriore requisito della punibilità, per cui, ai fini che interessano, non assume rilevanza alcuna.
Ma ancora va segnalata altra e più recente impostazione di pensiero che è più radicale: le esimenti rilevano ad illecito completo, perché non avrebbe senso giustificare un fatto che, oltre che essere oggettivamente illecito, non è colpevole perché commesso senza dolo e senza colpa.
Tale impostazione, si noti, che si colloca oltre la teoria della bipartizione e della tripartizione, posto che richiede che sia compiuto il giudizio sulla sussistenza del reato, si pone in linea con il giudizio espresso nel caso Welby, ove il giudicante ha ritenuto occorresse prima concludere il giudizio di responsabilità e solo in seguito valutare la rilevanza, oppositiva, dell’esimente, nel caso di specie identificata nell’adempimento del dovere.
Sembrerebbe invece aderire alla teoria della bipartizione la sentenza Cappato ma se ne è prima notata la confusione motivazionale, perché, precisato il fatto storico dell’aiuto non punibile, sarebbe stato coerente con la ritenuta irrilevanza penale del fatto enucleato dalla pronuncia di incostituzionalità, il dispositivo di assoluzione perché quel fatto non è (più) previsto come reato; ove invece si fosse ritenuto quel fatto come normativamente non punibile perché giustificato, troverebbe riscontro la tesi della bipartizione perché la comprovata presenza della causa giustificativa determinerebbe l’adozione della formula ampia della insussistenza del fatto.
La problematica sulla natura e sulla rilevanza delle esimenti esige più incisive considerazioni risultando chiaramente condizionata dalle diversificate impostazioni teoriche che, per coerenza ideologica, si riflettono sui concetti di tipicità, offensività e colpevolezza.
Le due teorie, della bipartizione e della tripartizione, pur nella loro differenziazione quanto al giudizio di tipicità, collocano le esimenti sul piano oggettivo appunto perché ne rispettano la rilevanza oggettiva, esulante da un coinvolgimento psichico e dalla colpevolezza.
L’altra, e più recente teoria, che pone le esimenti al di fuori dell’illecito, le inquadra tra le cause di non punibilità.
La disciplina legislativa offre utili notazioni rinvenibili nelle disposizioni di cui agli artt. 59 e 119 del codice penale in relazione alle “circostanze che escludono la pena”.
L’art. 59, nel trattare della ignoranza od erronea supposizione delle circostanze, distingue tra circostanze incidenti sul quantum della pena, aggravanti o attenuanti, e circostanze di esclusione della pena, nella cui previsione ricadono le esimenti le quali, se ritenute esistenti per errore incolpevole, sono sempre valutate a favore dell’agente. Tale disposizione rende rilevante il fattore psichico di conoscenza/ignoranza ai fini della punibilità e rende critica la posizione teorica di chi reputa le esimenti come rilevanti oggettivamente: il giudizio sulle esimenti sussistenti è oggettivo, mentre il giudizio sulle esimenti putative ma non sussistenti è soggettivo.
L’art. 119, nel trattare il regime di estensione tra i concorrenti nel reato, distingue le circostanze escludenti la pena in oggettive e soggettive, prescrivendo che le circostanze soggettive, le quali escludono la pena per taluno di coloro che sono concorsi nel reato, hanno effetto soltanto riguardo alla persona a cui si riferiscono mentre le circostanze oggettive che escludono la pena hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato.
Il legislatore, che si muove nel rispetto della demarcante terminologia di oggettivo/soggettivo e di conoscenza/ignoranza, conferisce rilievo a cause di non punibilità di consistenza soggettiva e psichica.
Messo in crisi il dogma della oggettività si impone una analisi più radicale: cosa significhi il termine “circostanza”.
Circostanza, come manifesta l’etimo, è termine riferito a situazioni di fatto che non sono essenziali e centrali, ma che si aggiungono all’interno del perimetro di osservazione.
Secondo la disciplina del codice le circostanze, eventualmente emergenti in fatto, incidono sulla punibilità o relativamente al quantum, aggravando o attenuando la misura della pena, o sull’an, causandone l’esclusione.
Al legislatore non interessa (e non può interessare) il problema teorico e dogmatico; al legislatore interessa la concreta funzionalità del sistema, nella fondamentale alternativa fatto punibile/fatto non punibile.
Mentre il dato fattuale che integra un requisito essenziale occupa una posizione centrale, costitutiva e di necessaria presenza, il dato fattuale circostanziale invece ha caratteriste opposte, perché non è essenziale, non è centrale e rileva solo se eventualmente presente.
Risalta allora la distinzione fondamentale tra requisiti positivi, dei quali si richiede la necessaria presenza ai fini della sussistenza e della configurazione dell’illecito, e requisiti negativi, intesi come mancanti in quanto non costitutivi e non essenziali, per l’appunto circostanziali.
Pare anomalo ricomprendere entro il principio del nullum crimen componenti eterogenee per struttura e per funzione.
Prima conclusione: le esimenti, incidenti sull’an della punibilità, sono circostanze e non elementi negativi del fatto di reato.
La netta distinzione tra fatto di reato e fatti integranti una esimente rimane condizione fondamentale per le riflessioni che seguono.
Il rilievo si pone in specie avuto riguardo al requisito della tipicità che parifica le valutazioni di presenza/assenza, quando invece la presenza riguarda dati oggettivi necessari, mentre l’assenza non necessita di alcuna verifica in negativo, afferendo a circostanze il cui emergere è eventuale: non può collocarsi sullo stesso piano la valutazione di presenza/assenza, tra dati fattuali non comparabili, gli uni elementi essenziali e necessari, gli altri circostanziali, non necessari e non essenziali.
Quanto alla teoria della tripartizione occorre, in aggiunta, approfondire il nesso tra esimenti ed antigiuridicità e chiarirne il rapporto con l’offensività.
L’offensività integra il correlativo principio secondo il quale ogni norma penale, nella sua fase produttiva, deve esprimere, ragionevolmente e coerentemente, un fatto integrante una offesa al bene tutelato, e ogni giudizio processuale, nella fase verificativa fattuale, comporta la rilevazione in concreto dell’offesa. Ne deriva che l’offensività delinea il contrasto del fatto con la norma penale di riferimento ed è requisito fondamentale per la configurazione dell’illecito. In questo senso un fatto penalmente rilevante è, per sua natura, illecito in quanto offensivo perché contravviene al divieto penale, vale a dire intrinsecamente antigiuridico.
Mentre, secondo la bipartizione, l’offensività è contrastata dal fatto giustificante, secondo la tripartizione, che valorizza autonomamente l’elemento dell’antigiuridicità oggettiva sganciato dal giudizio di tipicità, il fatto giustificante escluderebbe il suddetto secondo elemento.
Entrambe le teorie esigono la presenza degli elementi costitutivi, ma rendono integrativamente rilevante la necessaria indagine in negativo sulle esimenti come cause oggettivamente incidenti sulla illiceità del fatto, nel primo caso all’interno della tipicità e, nel secondo caso all’esterno della tipicità ma con riferimento al diverso requisito dell’antigiuridicità.
Si obietta:
•che la verifica è necessaria in punto di fatto solo per gli elementi costitutivi, che devono ricorrere nella loro integralità, per cui la mancata integrazione di uno pregiudica la verifica;
• che dunque non è onere del PM indagare sulla assenza di esimenti;
• che non può essere collocato sullo stesso piano un giudizio necessario, costitutivo, con un giudizio eventuale, impeditivo;
• che la verifica sulle circostanze impeditive, interagenti rispetto all’incriminazione, non incide sulla illiceità del fatto, che resta tipico ed offensivo, ma giustificato;
• che rilevano anche circostanze soggettive.
Seconda conclusione: il giudizio di illiceità penale opera su un piano diverso da quello della giustificazione; il primo investe direttamente, e necessariamente, il fatto penale mentre la giustificazione opera in momento valutativo successivo ed in presenza di fatti circostanziali diversi e disciplinati da altre norme.
Ed ancora: mentre non è detto che un fatto giustificato lo sia in ogni ambito regolativo, potendo residuare responsabilità di altro tipo, la verifica sulla giustificazione penale, avente l’effetto della non punibilità, lungi dal richiedere una indagine riferita all’intero ordinamento, deriva dalla applicazione di regole specifiche, disciplinate nello stesso codice penale che, come ha rilevato pregevole dottrina, configurando un conflitto di interesse e controinteresse, esigono un bilanciamento e si pongono come speciali per aggiunta rispetto alle fattispecie incriminatrici.
Non è dunque sostenibile che il requisito dell’antigiuridicità del fatto esprima il giudizio di contrarietà all’intero ordinamento, o meglio con le esigenze di tutela ordinamentale: un fatto è illecito, ed antigiuridico, se contrario allo specifico divieto contenuto nella norma incriminatrice e diventa giustificato perché il fatto illecito rientra nella previsione di una norma speciale che aggiunge la situazione giustificante quale elemento ulteriore rispetto all’illecito penale: tra le due norme ricorre un rapporto di specialità per aggiunta e la norma speciale, nel conflitto tra due situazioni di interessi, predomina perché, nel bilanciamento, a determinate condizioni fattuali ed in termini di giudizio di valore di portata ordinamentale, prevale l’interesse che giustifica l’illecito.
Pertanto le cause (o meglio: le circostanze) di giustificazione non vanno accostate alla categoria dell’antigiuridicità sia per non indurre ad equivoco rispetto alla offensività e sia perché esprimono un concetto diverso, opposto a quello della offensività.
Esse rilevano soltanto ove venga allegata, o comunque risulti, una situazione ulteriore, tipizzata da una norma giustificante, che il legislatore disciplina come “causa di non punibilità” del fatto illecito: essa, incidendo come fatto impeditivo, giustifica il fatto commesso, che sarebbe di per sé illecito, rendendolo non punibile.
La situazione giustificante non è dunque elemento negativo della tipicità, secondo la evocata teoria della bipartizione, in quanto, radicalmente, un fatto atipico è concettualmente diverso da un fatto tipico ma giustificato.
La situazione giustificante, come sopra chiarito, non è nemmeno elemento negativo dell’antigiuridicità oggettiva completante il giudizio sulla illiceità del fatto.
Così argomentata la rilevanza del giudizio di giustificazione, non appare condivisibile ogni teoria che legittimi sia giudizi di portata negativa all’interno della tipicità penale sia giudizi di completamento del giudizio di illiceità del fatto.
In conclusione il giudizio di illiceità, ai fini della punibilità, è complesso, globale e necessario, assolutamente eterogeneo rispetto al giudizio di non punibilità, operante eventualmente su fatti ulteriori e circostanziali.
3.La formula terminativa
Necessita, in via derivata e connessa, l’approccio alla disciplina processuale quanto alla più adeguata formula di proscioglimento, assolutoria o di improcedibilità, in presenza di esimenti.
Viene in mente una situazione del genere:
Giudice: “Lei ammette di avere ucciso Tizio?”
Imputato: “Certamente, gli ho sparato una fucilata in petto”.
G.: “E lei ammette ancora di aver intenzionalmente sparato ed ucciso?”
I: “Certamente, ho voluto ucciderlo sparando”.
G.: “Allora lei è reo confesso, perché ha ammesso di essere responsabile di omicidio volontario”.
I: “Questo non è vero, perché il tizio è entrato in casa mia ed a mia insaputa, con intenzioni manifestamente aggressive, per cui io mi sono legittimamente difeso”.
La descritta evenienza processuale, di ricorrente verificazione, configura un classico esempio di un illecito che sarebbe punibile se non ricorresse l’esimente della legittima difesa come fatto esterno rilevante in via preclusiva.
Per regola generale il giudice deve pronunciare sentenza di condanna nel rispetto della regola di giudizio compendiata nella formula “al di là di ogni ragionevole dubbio”, a condizione che il risultato probatorio acquisito risulti aver trovato riscontro nelle emergenze processuali.
Qualora residui una eventualità opposta ritenuta probabile, il codice di rito impone al giudice di pronunciare sentenza di proscioglimento (cioè, etimologicamente, di liberazione dal vincolo processuale) che assume la forma dell’assoluzione e della improcedibilità, mediante l’utilizzazione di una delle formule tipiche che costituiscono la sintesi conclusiva dei motivi della decisione.
La disciplina basilare è contenuta nel primo comma dell’articolo 530 c.p.p.
Nell’enunciare le formule di rito il codice segue una vera e propria gerarchia: inizia con quelle più favorevoli all’imputato e termina con le formule meno favorevoli, tanto in applicazione del c.d. principio del “favor rei” e tenendo conto del pregiudizio morale o giuridico che può derivare all’imputato che in effetti “reo” non è.
Il giudice è chiamato a pronunciare una sentenza di assoluzione ex art. 530 c.1 c.p.p. quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova relativa ad una delle ipotesi tassative che schematicamente, e, per quanto interessa in questa sede, vengono così indicate dal legislatore:
a) perché il fatto non sussiste;
c) perché il fatto non costituisce reato;
d) perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
La formula di assoluzione “perché il fatto non sussiste” deve essere adottata quando il fatto di reato, addebitato nell’imputazione, non trova conforto nelle risultanze processuali, ossia quando mancano gli elementi oggettivi che dovrebbero integrare la condotta, l’evento o il rapporto di causalità.
Questa è la tipica formula liberatoria in fatto.
L’assoluzione “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” viene pronunciata quando il fatto storico indicato nell’imputazione non rientra in alcuna fattispecie incriminatrice né sotto il profilo oggettivo né sotto quello soggettivo perchè il fatto contestato è stato commesso, ma è estraneo a qualsiasi norma incriminatrice. Tale formula è utilizzata anche quando il fatto era previsto come reato, ma la relativa norma di legge ha perso efficacia, oppure quando una legge depenalizza determinati reati, trasformandosi in illeciti amministrativi.
Questa invece è la tipica formula liberatoria in iure.
L’assoluzione “perché il fatto non costituisce reato” si adotta quando il fatto addebitato, pur sussistendo nei suoi elementi oggettivi (e pur essendo stato commesso dall’imputato), non rappresenta un illecito penale, perché manca l’elemento soggettivo o il presupposto della condotta; il giudice la utilizza anche quando sono integrati sia l’elemento oggettivo sia quello soggettivo, ma il fatto è stato commesso in presenza di una delle cause di giustificazione.
In materia la terminologia del legislatore, pur dopo la recente riforma del processo penale, è rimasta sostanzialmente invariata e, non risultando chiara nel suo ambito applicativo, ha necessitato l’intervento della nota pronuncia delle SS. UU. Penali (sentenza 29 maggio 2008, dep. 28 ottobre 2008, n. 40049) così massimata: “Il riconosciuto esercizio del diritto di critica comporta il proscioglimento con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Ma anche qualora il giudice del merito abbia pronunciato assoluzione “perché il fatto non sussiste”, la parte civile non ha interesse all’impugnazione nel caso si limiti a domandare la formula più corretta in quanto il proscioglimento fa, comunque stato nel processo civile risarcitorio”.
La pronuncia verteva sulla operatività dell’esimente del diritto di critica e della corretta formula adottata ai fini degli interessi risarcitori della parte civile.
Della diffusa motivazione, che ripercorre storicamente tutte le pronunce costituzionali e di cassazione, si evince quanto segue:
1. in considerazione del loro contenuto, le due formule assolutorie di insussistenza del fatto e della non commissione del fatto debbono essere adottate in via preferenziale rispetto a tutte le altre, essendo le uniche totalmente liberatorie poiché con tutte le formule diverse la sentenza di proscioglimento in realtà attribuisce all’imputato un fatto, o non esclude l’attribuzione di un fatto, che può non costituire reato ma tuttavia essere giudicato sfavorevolmente dall’opinione pubblica o comunque dalla coscienza sociale» (cfr. Corte cost., sent. n. 151 del 1967);
2. la formula di insussistenza del fatto, avendo una maggiore ampiezza di effetti liberatori, prevale anche su quella “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato (cfr. Sez. Un., 27 settembre 2007, n. 2451/08, Magera, m.238195);
3. per quanto riguarda in particolare l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato, già con la sentenza n. 200 del 1986 la Corte costituzionale aveva evidenziato la sostanziale diversità esistente tra le formule “perché il fatto non sussiste” e “perché l’imputato non l’ha commesso” e la formula “perché il fatto non costituisce reato”, la quale invece si caratterizza perché riconosce la sussistenza della materialità del fatto storico e la sua riferibilità all’imputato, ma nega la punibilità per la mancanza dell’elemento soggettivo oppure per la presenza di una causa di esclusione dell’antigiuridicità (o anche, secondo la norma all’epoca vigente, di una causa di esclusione della punibilità; si rammenta in proposito che la formula in esame è stata resa autonoma da quella della “non punibilità per altra ragione”, riferibile alle cause di non punibilità in senso stretto).
La corte di cassazione quindi riconobbe che soltanto le prime due formule hanno un contenuto ampiamente liberatorio ed escludono ogni pregiudizio (attuale o potenziale) per il prosciolto, mentre nel caso di formula “perché il fatto non costituisce reato” non può negarsi il diritto dell’imputato di impugnare per ottenere una formula più favorevole, che escluda la sussistenza materiale del fatto storico o la sua riferibilità all’imputato stesso.
Alla stregua di quanto esposto va notato che le formule più favorevoli concepiscono in sede processuale il fatto nella sua materialità, sia in senso oggettivo (fatto non sussiste) che personalistico (fatto non commesso), ma non come fattispecie: fatto, in questo caso, è termine comprensivo solo degli elementi oggettivi, di rilevazione esterna.
Ne deriva che il giudizio sul fatto, così inteso, precede il diverso giudizio sulla illiceità, riferita al fatto costituente reato e relativo ad altra e pertinente formula terminativa.
In proposito ne resta coinvolta la formula “perché il fatto non costituisce reato”, la cui portata non può evincersi dal solo dispositivo posto che si considera ricompresa, ed equiparata. la mancanza di elemento psichico, dolo o colpa che sia, di rilevanza soggettiva, e la presenza, provata o dubbia, della causa di giustificazione per cui si reputa che il fatto giustificato non sia reato sul piano oggettivo.
Ovviamente tale soluzione è coerente con la tesi tripartita e non con quella bipartita, che invece opta per la formula della insussistenza del fatto, ed è ormai ricorrente per prassi consolidata, avvalorata dai pronunciati delle Corti supreme.
Ne deriva che detta formula:
1. impone l’esame della motivazione;
2. equipara la verifica, per il vero eterogenea, sull’elemento psicologico e sulle esimenti, essendo indubitabile che l’assoluzione per difetto dell’elemento psichico riguarda la colpevolezza, di portata soggettiva, mentre l’assoluzione per difetto di antigiuridicità, in presenza di una esimente, riguarda l’illiceità ed ha quindi rilevanza che si assume oggettiva.
Si è già evidenziato che concepire l’antigiuridicità come rapporto di contraddizione tra il fatto tipico e altra disciplina confliggente rispetto al precetto penale comporta una indagine su fatto ulteriore e diverso, non di natura costitutiva ma impeditiva.
Non è dato comprendere poi la enucleazione del requisito di antigiuridicità che si risolve nell’assenza delle cause di giustificazione.
E comunque, mentre l’indagine probatoria sulle componenti costitutive del reato è necessaria e costitutiva, gravante sulla pubblica accusa, la verifica sulle esimenti sarebbe di tipo negativo, il che non appare sensato prima ancora che praticabile.
Il rilievo critico sull’uso della formula in esame quindi è doppio: in primo luogo impone un rinvio alla motivazione, così compromettendo l’autosufficienza della formula finale, e poi equipara due ragioni motivazionali eterogenee, peraltro aderendo a tesi censurabile.
In ultima analisi proprio la complicazione dell’imposta esigenza di lettura integrativa della motivazione induce al mantenimento della formula “perché il fatto non costituisce reato” solo ove difetti l’elemento psicologico ed invece rende praticabile, oltre che coerente con la teorizzata natura delle esimenti, l’adozione di una formula più esplicita nel dispositivo e comunque non compromettente in termini di lesione della dignità del giudicabile per le eventuali conseguenze esterne, morali e giuridiche: trattasi della formula, riadattata nella sua significatività, “trattandosi di persona non punibile” con la indicazione specifica del tipo di esimente ritenuta sussistente.