PER UN SUPERAMENTO DELLA TRUFFA DELLE ETICHETTE

 

di Fabrizio Costarella* – 

Per affrontare oggi, in modo sistematico, la prevenzione abbiamo bisogno di cambiare prospettiva di studio. Il più grande problema che affrontiamo, come operatori del Diritto, nell’inquadramento sistematico della materia è che continuiamo a “leggerla” secondo le categorie penalistiche del “diritto dei galantuomini”, per usare l’espressione con la quale il Prof. Vincenzo Maiello definisce il Diritto Penale. E questo determina, in gran parte, quella che definiamo “truffa delle etichette” e che, invece, è spesso solo la pretesa, destinata a rimanere delusa, di vedere la prevenzione presidiata dalle medesime garanzie che innervano quella materia.
L’equivoco è evidente, se consideriamo che, nel nostro sforzo di “nobilitazione” della prevenzione, vediamo le garanzie del giusto processo e del Diritto Penale liberale applicate “per sottrazione” e, in qualche modo, sminuite.

Dal quadro complessivo del Diritto Penale, nel quale perseveriamo ad immaginare che la prevenzione debba essere inquadrata, togliamo qualche tessera, per far sì che quel che riteniamo giusto e quel che invece è possano in qualche modo sovrapporsi. Così, ad esempio, accettiamo che il Diritto Penale conosca la riserva di Legge, mentre la prevenzione consenta, in qualche misura, l’integrazione giurisprudenziale del dato normativo.
Che per l’irrogazione delle pene valga la riserva di giurisdizione, mentre alcune misure di prevenzione (personali, patrimoniali non ablative ed amministrative) possano essere irrogate dal potere esecutivo.
Che il Diritto Penale conosca la retroattività in bonam partem, mentre la prevenzione patrimoniale deve assicurare – così si legge nei lavori preparatori del Testo Unico – la definitività della confisca, a salvaguardia della stabilità dei rapporti giuridici, di matrice propriamente civilistica.
Che il processo penale conosca l’intangibilità del giudicato assolutorio e la rimovibilità di quello di condanna, mentre lo statuto della prevenzione non preveda limiti quantitativi alla riproposizione dell’istanza di parte pubblica e ponga, invece, non pochi ostacoli alla revocazione ad istanza del proposto.
Che il Diritto Penale si fondi sui pilastri della tassatività, tipicità e determinatezza, mentre la normativa di prevenzione sia ancora vaga, al punto da consentire una deformalizzazione dei casi e dei modi di intervento.
Che la sanzione penale trovi limite nel principio di proporzionalità, mentre la prevenzione, specie quella patrimoniale ablativa, non lo riconosca.

La prevenzione, dunque, si sottrae, in tutto o in parte, a tutti i costituti del Diritto Penale. Immaginare la prevenzione nel milieu del Diritto Penale, dunque, significa interpretarla in chiave di eccezione. E questo conduce a due evidenti problemi che potrebbero essere affrontati solo con ragionamento trasversale.

Da un primo punto di vista, l’eccezione si giustificherebbe solo se fosse limitata nel tempo; se fosse destinata a fronteggiare una situazione straordinaria; se la sua disciplina fosse di stretta interpretazione.
A proposito dello stato di eccezione, Carl Schmidt aveva coniato i termini di “dittatura commissaria” e “dittatura sovrana”. La prima, di espressione comunque democratica, destinata ad una gestione provvisoria della cosa pubblica, con la sospensione di alcune delle garanzie costituzionali, in ragione di un interesse superiore temporaneamente aggredito (si pensi alla Legislazione speciale per il tempo di guerra).

La “sovrana”, invece, sostitutiva del potere democratico e temporalmente indefinita quale rovesciamento dell’ordine costituito.
Nel parallelismo con la prevenzione, come espressione di uno stato di eccezione, è facile osservare che questa è nata per contrastare il pericolo sociale della inurbazione di masse popolari durante la rivoluzione industriale; è passata al contrasto delle mafie, altro fenomeno eccezionale; negli ultimi quindici anni è stata utilizzata per il contrasto generalizzato alla criminalità da profitto, ai reati contro la PA, le fasce deboli, l’ordine pubblico ed oggi anche contro la “colpa organizzativa” di impresa.
Possiamo ancora dire che tale stato di eccezione sia giustificato? O, tornando al paradosso, siamo scivolati nella dittatura sovrana senza rendercene conto?

E questo porta ad affrontare il secondo problema, che chiude un ragionamento che vorrebbe essere “circolare”. La dittatura cerca legittimazione e consenso, per essere accettata. La prevenzione li ha cercati nel “diritto dei galantuomini”, mediante alcune progressive concessioni agli stilemi del giusto processo in tema di prova e terzietà del Giudice, ad esempio.

Rendere comunicanti il sistema penale e quello di prevenzione, però, non nobiliterà il secondo ma corromperà il primo. Il precedente è sotto gli occhi di tutti, con il “doppio binario” per i reati (inizialmente) “di mafia”.
Bastano due esempi: il principio di immediatezza era, in origine, un valore assoluto come corollario del principio di oralità del processo; poi è stata esclusa per i delitti di cui all’art. 51 comma 3-bis cpp; poi per quelli di cui all’art. 407 cpp; poi quei cataloghi sono stati implementanti a dismisura; infine sono intervenute le Sezioni Unite Bajrami. Oggi, l’immediatezza è diventata l’eccezione.
Il secondo esempio: in origine, non esistevano presunzioni di adeguatezza nella scelta delle misure cautelari; poi è stata inserita quella della misura cautelare inframuraria, per il solo delitto di cui all’art. 416-bis; oggi le fattispecie di reato per le quali vige la presunzione sono discretamente numerose; forse domani sarà la regola.

È dunque l’eccezionale a prendere il sopravvento sull’ordinario, mai il contrario! Si capisce, allora come portare la prevenzione sui binari della materia penale ed invocare – con ampie eccezioni – le tutele di matrice penalistica, sia un rischio enorme. Quale potrebbe essere, allora, l’approccio corretto, quel ragionamento trasversale che potrebbe aiutare a superare la truffa delle etichette?
La risposta potrebbe essere in una lettura sinottica della sentenza della Grande Camera CEDU De Tommaso/Italia e della sentenza n. 24/19 della Corte Costituzionale.

Se la prevenzione è formalmente fuori dalla materia penale, essa tuttavia costituisce un sistema sanzionatorio che comporta significative restrizioni di diritti costituzionalmente garantiti. Restrizioni che ormai si fondano sempre sulla constatazione di un reato, sia nella pericolosità qualificata (per la quale, il Testo Unico fa sempre riferimento alla categoria degli “indiziati” di un delitto), sia per la pericolosità semplice, a seguito della tassativizzazione conclusa con la sentenza costituzionale n. 24/19 e che pretende la constatazione della commissione di più delitti lucrogenetici. Ciò comporta importanti ricadute in ottica convenzionale e, di conseguenza, anche domestica.

Da un primo punto di vista, infatti, la constatazione incidentale di condotte delittuose richiama l’applicazione dell’intero fascio di tutele previste dall’art. 6 comma 2 CEDU, che riferisce la presunzione di innocenza non solo all’imputato (come invece fa l’art. 27 Cost), ma all’accusato di un reato.
Accusa che non deve necessariamente consistere in una imputazione penale, ma neanche – a dire il vero – in una contestazione giurisdizionale, trovando rilevanza anche se formulata in sede stragiudiziale (si veda, ad esempio, la sentenza CEDU Allen/Regno Unito).

La disposizione convenzionale, nella sua stabile interpretazione, fa divieto di ricorrere a qualsiasi meccanismo presuntivo, dei quali invece abbonda il CAM. Impone la tutela del contraddittorio pieno, specie con riferimento alla formazione della prova. Scandisce l’ordinaria ripartizione dell’onere della prova. Vieta la sottoposizione dell’accusato ad un nuovo giudizio che si prefigga di rivalutare l’accusa.

Da un altro punto di vista, la natura di sanzione delle disposizioni di prevenzione impone il rispetto del principio di “sufficiente qualità della Legge”, come sancito, in sede convenzionale, proprio da “De Tommaso/Italia”. Principio che richiama i costituti della legalità sostanziale, nella doppia accezione di accessibilità del precetto normativo e di prevedibilità della reazione ordinamentale.

Non basta dunque che la sanzione sia prevista in un Legge, ma occorre che la norma consenta al suo destinatario di valutare la rilevanza dei propri comportamenti e prevederne le conseguenze. E ciò non è possibile, se la disposizione normativa non risponde ai principi di tassatività, tipicità, irretroattività. La legittimazione della prevenzione, dunque, passa da due scelte alternative.
La si potrebbe riportare nell’alveo delle ipotesi eccezionali, destinandola al solo contrasto alle mafie, che giustificherebbe la asistematicità che ad oggi la caratterizza. Ciò richiederebbe una forte contrazione della platea dei soggetti destinatari e dei casi di applicazione, che ormai sono diventati pletorici, e, dunque, un intervento necessariamente di carattere normativo.
Oppure, si dovrà elaborare uno statuto autonomo della prevenzione, rispettoso delle garanzie costituzionali e convenzionali del diritto di difesa, della presunzione di innocenza, del giusto processo, senza più mutuare versioni dimidiate del Diritto Penale liberale (che è operazione strumentale alla perpetuazione della truffa delle etichette, alla ricerca di un allineamento impossibile tra due ambiti così diversi). Nella cornice normativa convenzionale esistente, nella Costituzione, nel rispetto delle garanzie che ogni accusa – anche incidentale – di reato comporta è già scritto, forse, il futuro della prevenzione.

 

*Responsabile Osservatorio Misure Patrimoniali e di Prevenzione dell’UCPI

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