di Alessandro Barbano*
Perché la giustizia in Italia non cambia mai? Perché gli errori si ripetono, i ritardi incancreniscono, le riforme saltano o, quando pure si fanno, risultano irrilevanti? Per questa domanda ci sono due risposte collegate tra loro. La prima riguarda la distanza dei cittadini dal problema. La giustizia è percepita come una cosa di altri, salvo poi scoprirne l’insostenibile prezzo quando se ne viene direttamente a contatto. La seconda dipende dal modo con cui la giustizia viene amministrata, e cioè dal suo arroccamento in un fortino dove si consolidano regole e logiche diverse e talvolta opposte a quelle della vita, e dove tutto può accadere senza che nessuno sappia, o piuttosto venendosi a sapere l’opposto di ciò che è accaduto.
È il caso che qui si narra e si analizza: il complotto dell’Hotel Champagne, la storia di un gruppo di magistrati e politici che vuole mettere le mani sulla Procura di Roma, di un’inchiesta giudiziaria che smaschera i congiurati, di una magistratura che mette alla gogna ed espelle, ripristinando l’onore perduto. Sennonché questa versione non sta in piedi. Troppi segnali dicono che lo scandalo non è nella realtà, ma nel suo racconto rovesciato. Perché pretoriani e congiurati altro non sono che due fazioni l’una contro l’altra armate. Ed è una lotta senza risparmio di colpi, dietro la quale si mostrano tutte le incompiutezze legislative, gli azzardi investigativi, le forzature istituzionali, le ipocrisie giudiziarie che un potere malato può produrre. Se una simile storia è potuta accadere, è perché si è svolta in una zona mal sorvegliata della democrazia, nell’inconsapevolezza e nel disinteresse dei cittadini, e dietro il racconto falso di uno scandalo.
Non è la prima volta che capita nella storia repubblicana. Quando l’Italia è stata vicina a toccare il fondo, è scattata spesso nel discorso pubblico la tentazione di rimuovere la verità, di ridurla, di ribaltarla nel suo contrario. È accaduto con il sequestro di Aldo Moro e con l’idea di una fermezza che liquidò come insensato l’appello alla trattativa dello statista dal- la prigione delle brigate rosse. Si è ripetuto con il deragliare del finanziamento pubblico ai partiti e con l’illusione di regolarlo assoggettando la politica alla magistratura di Mani Pulite. È proseguito con le stragi di Falcone e Borsellino e con la ricerca di una verità ritagliata sulle bugiarde rivelazioni del pentito Scarantino. Non si sottrae a questa tentazione mistificatrice la crisi più acuta della giustizia, il complotto nel cuore del Consiglio superiore della magistratura, culminato nella rimozione di Luca Palamara. Quando il meccanismo che governa le lottizzazioni tra le toghe si inceppa e rivela la sua insostenibilità, il racconto dello scandalo del Csm serve a giustificare il ripristino dell’equilibrio perduto. E tutto sembra cambiare perché tutto torni come prima.
I quattro casi qui citati hanno tempi, contesti, cause e conseguenze diverse, per natura e per gravità. Ma hanno un elemento in comune: dietro queste apparenti rivoluzioni di sistema c’è, in controluce, un cambio di potere o una restaurazione. O tutte e due. Vuol dire che la democrazia finge uno scatto in avanti, ma in realtà fa un passo indietro o, nel migliore dei casi, resta immobile. Con l’analisi di una vicenda estrema, questo libro vuol dimostrare che cosa si può arrivare a fare nel nostro Paese con un’inchiesta giudiziaria, e quanto un racconto che divorzia dalla realtà può allontanarsi da ciò che pure chiamiamo «giustizia».
*giornalista, saggista
(Pubblicato sul n.0 – “Ante Litteram” – dicembre 2023)