Domenico Bilotti (*)
Nonostante autorevoli opinioni scientifiche sottovalutino la significatività del dato, l’agire mafioso ha a che fare con l’occupazione e l’usurpazione dei meccanismi di guadagno e di circolazione economica della società borghese[1]. Non c’è stata, in questo senso, nessuna specifica transizione, nessuna intenzionale evoluzione, perché il programma costitutivo del pactum scelerum ha sempre a che fare con un profitto strumentale. Per certi aspetti, perciò, le mafie si basano sulla normalizzazione e sulla razionalizzazione (meglio: sulla funzionalizzazione al profitto strumentale) della violenza. Non crei scandalo questo evidente corollario metodologico: la violenza è descritta, concretata e controllata da chi la esercita[2]. Questo esercizio peraltro, si tratti di soggetti pubblici o privati, leciti o illeciti, è strettamente connesso al programma e, conseguentemente, allo scopo che tramite il programma vuole realizzarsi.
La linea di metodo nell’associazione mafiosa è molto chiara, sebbene presentino ancora pari interesse le letture che trattano della mafia come attore economico con tendenze egemoniche e che si interrogano sulla specifica scaturigine sociale del gruppo di appartenenza. Ci si permette soltanto di rimarcare come tali letture analizzino gli effetti, le diverse articolazioni contingenti, non il dato di fondo inscritto anche nell’accezione codicistica dell’associazione per delinquere di stampo mafioso: omertà e assoggettamento sono in radice componenti ontologiche dell’agire mafioso, a prescindere dalle modalità (più o meno concrete) che possano inverarle[3].
Nell’accostarsi alle organizzazioni criminali, c’è, di più, un sotteso sguardo dubitativo dell’interprete, che cade costantemente nel rischio di mitizzarne, espanderne e dissolverne i contorni, creando così il pericoloso paradosso che più si denuncia in genere la mafia e meno si riesce a darvi veste giudiziaria probante.
All’interno di questa tecnica d’analisi, uno dei temi più incisivi è quello relativo all’uso simbolico della semantica religiosa nella struttura interna delle associazioni mafiose. È più prosaicamente da osservare come le mafie abbiano sempre saputo misurare, persino più degli organi statali che istituzionalmente si contrapponevano ad esse, i canali atti a garantire la coesione, la coercizione e il consenso. La mafia riesce, in sostanza, a creare un ambiente mafioso perché si basa su una saturazione compartimentata dei territori in cui agisce, ricorrendo anche all’abuso delle loro istituzioni culturali, se utili allo scopo.
In questo campo, si sono fatti essenzialmente errori di due tipi. Si è creduto che la legittimazione parareligiosa della gerarchia mafiosa fosse fatto tipico delle organizzazioni italiane e che tale simbologia meritasse specificamente di essere investigata secondo il calco di canoni ermeneutici del diritto liturgico (affiliazioni, cariche, sanzioni). Il riduzionismo e l’assimilazionismo sono profondamente simili nel lavorare, in forme opposte, l’oggetto dello sguardo: nell’un caso lo rimpiccioliscono discrezionalmente, nell’altro lo dilatano fino a fargli coprire completamente l’obiettivo della camera. La realtà more solito non tollera né lo zoom né le inquadrature alla distanza: abbisogna piuttosto di una sana aderenza ai contorni della sagoma che è nel mirino.
Quanto al primo aspetto, v’è forse da rimarcare la perdurante attualità di un indizio euristico individuato da Santi Romano[4]. Quegli sosteneva che anche la mafia fosse un ordinamento giuridico, senonché non pensava realmente a una statualità mafiosa: ordinamento giuridico “interno”, semmai, in quanto sistema normativo fondamentale che diventa istituzione durativa. Per secondare e implementare questo processo la componente rituale è fortissima: l’emulazione della lessicologia religiosa è stata perciò un formidabile formante aggregativo. Salvo che essa si è tuttavia saputa mescolare a qualsiasi orizzonte semiotico implicasse la coesione, la segretezza, l’ineluttabilità, l’avversione a tutto quello che non ne facesse parte. È innegabilmente vero che la “Sacra corona unita” rinvia a una sacralità dogmatica[5] e che le organizzazioni hanno sovente nei propri gradi “sacristi” e “vangeli” – cariche che si attribuiscono azione nella verità e verità nell’azione.
Ciò non toglie che sin dalla loro origine le mafie autoctone italiane abbiano poi saputo prendere spunto dal patrimonio simbolico di qualunque forma di associazionismo segreto e parallelo: sette, confraternite, ma anche logge e associazioni carbonare. L’affiliazione massonica è in Calabria tratto distintivo dell’appartenenza e della contiguità ‘ndranghetistica da almeno un quarantennio: anche lì, però, il vincolo è strumentale e circostanziato; per nulla generalizzato o generalizzabile[6]. E così pure è avvenuto in Sicilia, in primo luogo nel Trapanese e nel Palermitano.
Quanto al secondo punto, tutte le organizzazioni sulle quali si riesce a identificare il carattere di mafiosità, nazionale o internazionale che sia, rimandano costantemente a una ritualità indisponibile e a una sorta di blasfemia ultra-mondana, che si prende i simboli del cielo per seminare il panico in terra. L’Organizacija russa lo esprime attraverso i tatuaggi rituali e probabilmente, vistane la diffusione, se un codice originario unitario esisteva, è destinato a divenire più instabile, più evanescente, meno omogeneo[7]. Il corpo dei “ladri nella legge” non lesina templi, madonne e rosari – a un livello non intenzionale, sibbene meramente contestuale, la grandissima eredità visiva dell’iconografia ortodossa russa permea potentemente. Persino nelle culture non teistiche le mafie esprimono una caratteristica attitudinale rivolta alla capacità obbligante del rito, anche di quello ludico e non solo solenne. Nel primo senso, sia sufficiente il rimando alla Yakuza giapponese, il cui nome traduce in lingua nipponica il punteggio più basso di un gioco clandestino. Nel secondo, è notorio il caso delle Triadi cinesi. I riti affiliativi (perlomeno quelli locali) rimandavano al filosofo dell’arte militare Guan Yu. Quella branca del pensiero politico cinese ha sempre avuto una forte componente speculativa, metafisica, cosmologica. E codici e cariche interne della Triade ricalcano apertamente numeri e valori dell’I Ching, tra i più classici testi cinesi di spiritualità: per quanto questi rimandi siano opportunistici e devianti, essi conformano in profondità la modulazione del sodalizio[8].
Si traggano ora le conclusioni di quanto affermato.
La simbologia religiosa è tradizionalmente usata dalle mafie autoctone italiane per tramandare regole, comportamenti e ruoli delle proprie realtà associative, ma non è l’unica. Ogni forma di comunicazione simbolica che saldi la struttura (anche ove scopertamente irreligiosa) è utilizzata se ha dimostrato di realizzare lo stesso scopo.
Questo trasferimento metaforico non è un fenomeno solo italiano: appartiene, almeno empiricamente, a tutte le associazioni cui è stato attribuito ex post carattere di mafiosità. Ex ante, invece, non sarebbe possibile, perché a integrare la nozione di mafiosità non basta certo creare un’associazione usurpando a fini extra-confessionali gli emblemi della religiosità collettiva. Nel diritto penale del contemporaneo, l’oggetto della norma incriminatrice è una condotta tipica, non un’estetica atipica (per quanto talora i due ambiti cognitivi abbiano diffusi canali di intersezione)[9].
La cultura giurisprudenziale italiana ha dalla propria l’esperienza necessaria alla decodificazione di questi processi, soprattutto se non prevarrà un’ottica genericamente e onnicomprensivamente repressiva, facendo piuttosto emergere l’approccio investigativo, sociale, strategico. A incrementare il senso di confusione è senz’altro stata anche la lunga acquiescenza del sistema ecclesiale rispetto alla vicenda storica delle onorate società, dal momento che esse hanno sempre saputo far vanto di una grande partecipazione alle celebrazioni religiose processionali e di una morale ambigua, dove approfittamento e bigottismo hanno non occasionalmente saputo farsi compagni di strada. Per parte propria, l’istituzione ecclesiastica, che da san Giovanni Paolo II in poi ha colmato sicuramente il gap comunicativo condannando a più riprese le mafie (e forse lasciandone gli oneri di prevenzione dal basso alle realtà periferiche)[10], ha imboccato una direzione rivendicativa forte, ma non sempre messa a fuoco. Dossier di alta percezione sociale, come la scomunica ai mafiosi e i casi di diniego di esequie anche in forma privata, hanno consolidato posizionamenti, ma mal si sono prestati a darsi appropriata veste giuridico-canonica[11].
Nelle precedenti generazioni di giuristi il rischio era la sottovalutazione del fenomeno mafioso, nei suoi profili tipici e nella pericolosità delle sue condotte illecite. I più adulti professionisti cittadini ricorderanno ad esempio il processo di Catanzaro del 1965, quando centodiciassette presunti appartenenti di Cosa Nostra, a seguito di una precoce mediatizzazione del procedimento, ottennero all’opposto pressoché assoluzioni in blocco[12]. Oggi sembra ci si stia muovendo in una direzione diversa e del resto non del tutto esatta. In nome della pervasività dell’agire imprenditoriale mafioso, infatti, si tende a rintracciarne l’azione ovunque sia solo ipotizzabile un illecito associato, ignorando invece la crescente divaricazione (e i deleteri effetti di sicurezza) tra la microcriminalità anche giovanile e la mafia, e all’interno di questa tra livelli assolutamente non comparabili di gerarchia e strategia.
Appare questo il peggior equivoco dei giorni nostri.
(*) Università Magna Graecia di Catanzaro
[1] Alcuni spunti erano rinvenibili in P. Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, il Mulino, Bologna, 1983. Giusti i rilievi di T. Guerini, Diritto penale ed enti collettivi. L’estensione della soggettività penale tra repressione, prevenzione e governo dell’economia, Giappichelli, Torino, 2018, p. 123, secondo cui questa penetrazione non esiste come dogma fondativo o costruzione giuridica autonoma, ma sempre in rapporto alle concrete relazioni civili intessute.
[2] Sui meccanismi istituzionali di regolazione e avocazione della forza, si veda, per tutti, P. Barcellona, Diritto senza società. Dal disincanto all’indifferenza, Dedalo, Bari, 2003, pp. 73-74.
[3] Proprio la compartecipazione al processo sostanziale di inveramento è l’unico elemento concreto per rilevare il ruolo del soggetto in concorso nel reato, come leggesi in V. Maiello, Il concorso tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale. Raccolta di scritti, Giappichelli, Torino, 2014, pp. 55-56.
[4] Si legga ancora il bel confronto a distanza tra A. Pizzorusso, La dottrina di Santi Romano e la mafia siciliana, in Indice Penale, 1994, pp. 608-609, e G. Fiandaca, La mafia come ordinamento giuridico. Utilità e limiti di un paradigma, in (il) Foro italiano, 1995, cc. 25-28.
[5] Tale sacralità è assunta dagli affiliati come obbligazione originaria, non come terreno di speculazione teorica. Bene, sul punto, A. Apollonio, Storia della Sacra Corona Unita: ascesa e declino di una mafia anomala, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2016.
[6] Concentrato sull’organizzazione criminale calabrese, ma adoperando in termini di confronto anche la struttura organizzativa siciliana, M. Guarino, Poteri segreti e criminalità. L’intreccio inconfessabile tra ‘ndrangheta, massoneria e apparati dello Stato, Dedalo, Bari, 2004, pp. 7-9.
[7] Superati i termini giudiziari di confronto, è invece divenuto un classico in letteratura quanto all’impianto J. O. Finckenauer, E. J. Waring, Russian Mafia in America. Immigration, Culture and Crime, Northeastern University Press, Boston, 1998, pp. 92-113.
[8] Tacendo qui del richiamo teorico-giuridico al pensiero politico cinese, si vedano invece bei rilievi di operatività dell’organizzazione allogena in A. Cavaliere, I reati associativi tra teoria, prassi e prospettive di riforma, in G. Fiandaca, C. Visconti, a cura di, Scenari di mafia. Orizzonte criminologico e indicazioni normative, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 146-159.
[9] Le interpretazioni estensive sono, comunque sia, sempre in agguato. Circostanziava opportunamente il campo L. Fornari, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al “pericolo d’intimidazione” derivante da un contesto criminale? Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia capitale”, in Diritto Penale Contemporaneom Giugno 2016, pp. 1-33.
[10] Opportuni spunti endoconfessionali in V. Bertolone, Scomunica ai mafiosi? Contributi per un dibattito, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2018. Penetranti osservazioni in termini di dogmatica giuridica laico-secolare in A. De Oto, S. Ognibene, La strutturale antievangelicità del fenomeno mafioso ai tempi di Francesco, nel volume, a cura degli stessi, La Chiesa di fronte alla criminalità organizzata, Bononia University Press, Bologna, 2019, pp. 7-12.
[11] Pur articolando giudizi differenti, questo tratto è concretamente censito in pubblicazioni monografiche recenti quali A. Mantineo, La condanna della mafia nel recente Magistero. Profili penali canonistici e ricadute nella prassi ecclesiale delle Chiese di Calabria e Sicilia, Pellegrini, Cosenza, 2017, e F. Balsamo, Le normative canoniche antimafia, Pellegrini, Cosenza, 2019.
[12] Si veda F. Nicastro, Mafia e partiti. Il bifrontismo del PCI 1965-1980, Ila Palma, Palermo-San Paolo, 2004, p. 101.