In questi giorni, ma possiamo ben dire in queste ore, si sono verificati gli ultimi suicidi carcerari.
Il loro numero non conta più anche in ragione del fatto che molti sono stati salvati in extremis; altri sono solo feriti; altri ancora, purtroppo, stanno aspettando il momento giusto…
L’universo carcerario italiano rivela tutta la sua fragilità colpevole. Allignato su scarti, debolezze, ipocrisie. Il legislatore non inizia alcun serio percorso di rivalutazione di molte condizioni che potrebbero disinnescare questa bomba ad orologeria. Gli orologi, infatti, servono per misurare il tempo che ci separa dalla prossima morte tra le sbarre.
Abbiamo il dovere di denunziare i temi più scottanti di questa tragica questione che coinvolge addirittura l’essenza stessa della civiltà del nostro Paese.
Non si può restare anni in carcere in attesa di una decisione; non si può attendere la fissazione di un appello cautelare per mesi e mesi; non si può concepire più un sistema che ha deliberatamente disconosciuto la riforma della custodia cautelare (un tempo era da intendersi quale carcerazione preventiva e tale, purtroppo, è rimasta).
Non si è voluto comprendere che la maggior parte degli imputati dovrebbe attendere agli arresti domiciliari la fine del giudizio.
Presso i lavori preparatorii della Riforma si era rimarcato il concetto della residualità della misura intramuraria (quando ogni altra misura risultasse inidonea). Ebbene, questa regola civile viene ignorata, derisa, vilipesa, da applicazioni e interpretazioni quotidiane che ne fanno scempio.
Oggi, ad esempio, ci sono imputati che hanno confessato, che hanno ottenuto le attenuanti generiche dal Giudicante (dunque con un giudizio prognostico positivo); che hanno trovato un immobile lontano anche dalla propria regione per potere sopravvivere; che hanno chiesto di essere controllati (agli arresti domestici) con un braccialetto elettronico… Ebbene no: poco importa se non ci siano in concreto esigenze cautelari di sorta. Poco o nulla importa tutto ciò.
Egli “DEVE” restare in carcere. E con lui pure chi spesso versa in condizioni di salute preoccupanti. Questi casi accrescono il numero dei disperati dietro le sbarre. Uno Stato che non si fa carico di tutto ciò non è uno Stato vero e proprio ma una accozzaglia di insensibilità.
Il lavoro carcerario è difficilissimo e non tutti possono accedervi; il sotto-organico di tutti gli agenti, funzionari, medici, assistenti, deputati ad assistere quegli uomini che si sono imbattuti nell’ iniziativa punitiva dello Stato, moltiplica le distonie.
Quasi tutte le strutture sono vecchie, non funzionanti, obsolete. Una edilizia da ripensare tout court. Una magistratura di sorveglianza sovente poco attrezzata. Un oceano di adempimenti burocratici (spesso tardivi) soffoca la ricerca di soluzioni adeguate ad ogni singolo caso.
Siamo giunti al tempo in cui, purtroppo, non c’è più tempo. Il detenuto viene spesso collocato lontano dalla regione di provenienza e questo accresce l’angoscia, la frustrazione, la preoccupazione del recluso. I servizi sociali andrebbero potenziati. Le comunicazioni con i familiari e con i difensori andrebbero rafforzate e disciplinate con prospettive moderne e recuperative.
L’orizzonte politico, su tutto ciò, è muto; incapace di esprimersi, a meno che non sia coinvolto. Una sola cosa è certa; l’uomo entrò in custodia presso lo Stato ma ne uscì fuori (da una custodia). Morto.
Noi chiediamo a gran voce che si compiano tutti gli accertamenti possibili per giungere alla verità su responsabilità, omissioni, forzature; e ciò per ogni singolo suicidio.
Che si metta mano, finalmente, ad un riordino ragionato delle fattispecie produttive di detenzione.
Si mettano in condizione di funzionare i servizi clinici e quelli sociali. L’orologio continua a ticchettare; è il solo rumore percepibile; perché il silenzio di chi dovrebbe dire è assoluto; è il silenzio ipocrita di chi dovrebbe parlare, forte e chiaro, affinché ogni uomo sia giustamente rispettato e non già gettato via come un rifiuto. Ebbene, questo silenzio è inaccettabile, ingiustificabile.
Dobbiamo ricordare che il tema dell’inaugurazione dell’Anno Giudiziario dei Penalisti Italiani 2024 faceva espresso riferimento alla odierna scottante tematica.
Il 20 marzo l’astensione nazionale indetta dall’UCPI comprende tutto ciò e vuole fare uscire dall’ombra quel carcere oscuro di cui oggi parliamo con amarezza e contestuali propositi di impegno.
Da domani, fino alla prossima notte dei tempi. Se non verrà scongiurata.
Catania, marzo 2024
A cura del Direttivo della Camera Penale di Catania “Serafino Famà”