IL LENTO PROCESSO DI ALLINEAMENTO DELLA PREVENZIONE AI CANONI DEL DIRITTO PENALE

Marta Staiano, Livio Muscatiello e Alice Piperissa –

Obiettivo del presente lavoro è porre all’attenzione del lettore il faticoso percorso della giurisprudenza Costituzionale e di legittimità verso l’allineamento della prevenzione ai canoni del diritto penale e alle garanzie proprie del giusto processo, ovvero verso la definizione dell’ambigua portata interpretativa della nozione codicistica che lo investe.

Discussa per lungo tempo la natura giuridica, l’istituto in questione attrae l’attenzione del giurista a cagione della sua applicabilità – in materia sia personale che patrimoniale – ante o praeter delictum, ovvero prescindendo dalla condanna o anche solo esistenza di procedimento penale, rispetto al quale si pone in rapporto di teorica autonomia.

In premessa si rileva quanto enucleato dalla Corte Costituzionale n. 24/2019: confrontandosi con le censure che la sentenza De Tommaso[1] muove all’architettura del sistema della prevenzione, la Corte estende le garanzie proprie del giusto processo[2] e della giurisdizione anche alla materia in questione, interessando aree di certo più vaste di quella strettamente penalistica; la Corte ribadisce così la natura non penale della materia, dacché fuori dall’alveo della finalità punitiva, ponendosi questa ai margini della stretta osservanza della riserva di legge; centrale dunque l’opera tassativizzante della giurisprudenza.

In particolare la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi sui limiti della categoria di cui all’art. 1, comma 1 lettera a) D. L.vo 159/11, in tema di pericolosità generica ha rilevato la carenza di “sufficiente determinazione della fattispecie”[3], requisito necessario acché l’individuo liberamente si determini, concludendo per l’eccessiva genericità incapace di individuare i potenziali destinatari delle disposizioni in questione. Nemmanco suppliva orientamento giurisprudenziale consolidato alcuno che, nel definire i criteri di identificazione dei “traffici delittuosi”, fornisse una lettura tassativizzante della norma, così da soddisfare, sia pure per via interpretativa, il canone di precisione richiesto dall’art. 2 prot. 4 CEDU.

Da qui ci si immerge.

Atteso che il distretto catanzarese molto si occupa di criminalità organizzata (in specie reati associativi ex art 416 bis c.p.), nonostante i soggetti destinatari di misure di prevenzione appartengano a due categorie di pericolosità diverse (generica ex art. 1, qualificata ex art. 4), lo scritto vuole concentrarsi sulla categoria dei pericolosi qualificati destinatari di provvedimento applicativo ad opera dell’autorità giudiziaria, ovvero i soggetti indiziati di più gravi reati, tra cui gli “appartenenti” ad associazioni di stampo mafioso, focalizzandosi dunque sul processo di tassativizzazione operato dal Giudice delle Leggi in tale ambito.

A ben vedere, le scarne nozioni del codice antimafia sul punto non soddisfano i canoni di tassatività e determinatezza, declinati sulla base del costituzionale principio di legalità, specie a fronte dell’“indiziario” metodo accertativo nonché dell’asserita completa autonomia – oramai non più attuale[4] – del procedimento de quo rispetto a quanto, oltre ogni ragionevole dubbio, già eventualmente accertato in termini di responsabilità penale.

Recita l’art. 4 del codice antimafia, «i provvedimenti previsti dal presente capo si applicano: a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416-bis c.p.»: in particolare, ad interessare è la precipua nozione di “appartenenza”, la possibile sconfinante portata del lemma.

Nonostante un orientamento giurisprudenziale a lungo determinante abbia ricondotto nel concetto di “appartenenza” condotte materiali diverse e più ampie di quelle riconducibili alla partecipazione criminale in tema di associazione mafiosa, sopperisce la conseguente lacuna di tipicità lo sforzo della Giurisprudenza più recente, che si muove nel solco di una lettura “tassativizzante” del requisito della pericolosità qualificata di tipo mafioso, precisandone confini e requisiti di applicazione:

«La nozione di indiziato di “appartenenza” alla associazione di stampo mafioso (…) va colta nella sua portata tassativizzante, con rifiuto (…) di approcci interpretativi tesi a degradarne il significato in termini di mera “contiguità ideologica”, comunanza di “cultura mafiosa” o riconosciuta “frequentazione” con soggetti coinvolti nel sodalizio»[5].

Costante sul punto l’insegnamento del Supremo Collegio:

«È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni»[6].

In tal senso, la Corte scrive esplicitamente di un “ridimensionamento[7] della diversità tra le nozioni di appartenenza e partecipazione di cui all’art. 4, lett. a), cod. antimafia: permanendo rilevanti le condotte pur non connotate da stabile vincolo associativo ma piuttosto inquadrabili nella figura del concorso esterno, rimane d’altro canto escluso, per espresso dictum delle Sezioni Unite, l’agito che si traduca in condotta indefinitamente ascrivibile ai concetti di contiguità o vicinanza al gruppo, quando anche si abbia consapevolezza dell’illecito[8].

Dunque, lungi dal trovare conforto tassativizzante il financo cosciente contegno di colui il quale sia asseritamente nella disponibilità dell’associazione per il fatto di condividerne gli interessi illeciti, riposano nel concetto di appartenenza le sole condotte espressive di almeno un “contributo fattivo”, «pena la dilazione ulteriore del concetto di appartenenza, già esteso al di là della portata testuale, ad un ambito indefinito e soprattutto sganciato da ogni condotta materialmente riferibile all’interessato»[9].

Ed ancora: «in tema di misure di prevenzione, l’appartenenza ad una associazione mafiosa integra un’ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all’associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa»[10].

In definitiva, a descrivere la portata del concetto non può essere la mera vicinanza all’interesse illecito dell’associazione, dovendo piuttosto questa sostanziarsi in una “vicinanza funzionale” agli scopi associativi che, pur in mancanza di stabile inserimento nell’ente criminale, produca esiti vivificanti dell’associazione, versando l’agente nella consapevolezza di inserirsi all’interno del programma criminoso della stessa.

Mutuando le parole della Suprema Corte:

«il concetto di “appartenenza” ad un’associazione mafiosa va distinto sul piano tecnico da quello di “partecipazione”, risolvendosi in una situazione di contiguità all’associazione stessa – pur senza integrare il fatto-reato tipico del soggetto che organicamente è partecipe (con ruolo direttivo o meno) del sodalizio mafioso – risulti funzionale agli interessi della struttura criminale e nel contempo denoti la pericolosità sociale specifica che sottende al trattamento prevenzionale»; talché «l’ammissibilità dell’applicazione della misura di prevenzione, per l’appunto, anche a quanti “appartengano” ad un sodalizio mafioso non in qualità di partecipi ma di concorrenti esterni»[11].

Epperò, la recente giurisprudenza della Suprema Corte, lungi dall’introdurre una terza categoria in tema di relazione con l’associazione mafiosa, indica un preciso limite alla nozione di appartenenza: il concorso esterno.

Pertanto, riconducibili alla lett. a) sono soltanto:

  • Le condotte di partecipazione,
  • le condotte astrattamente inquadrabili nella figura del concorso esterno ex 110 e 416-bis cod. pen.[12]

Per contro «risulta estranea a tale concetto la mera collateralità che non si sostanzi in sintomi di un apporto individuabile alla vita della compagine»[13].

Definitiva conferma, con questa ultima pronuncia, dello sforzo ermeneutico della Suprema Corte volto a contenere la possibile confusione/dilazione interpretativa del vago termine – appartenenza – per asservirlo al canone della tipicità: nondimeno la manifesta compressione di beni costituzionalmente garantiti[14] generata dall’applicazione di misura di prevenzione, di certo non può esimersi dallo sforzo interpretativo volto alla determinazione dell’agito prevenzionalmente rilevante. Di contro, per chiunque, di non poter orientare la propria condotta nell’alveo della liceità.

Ancora: rileva specificare che sebbene lo standard probatorio richiesto in sede di prevenzione appare discutibilmente differente da quanto preteso in seno al procedimento ordinario, sostantivandosi in una cornice di peculiare metodo indiziario, ciò non esime il giudice, chiamato a valutare la necessità di applicazione della misura, dalla valutazione di due requisiti indubitabilmente soggettivi: l’inquadramento del proposto in una fattispecie di pericolosità (nello specifico caso, qualificata ex. art. 4 cod. antimafia), e la sua pericolosità per la sicurezza pubblica.

Difatti, in ossequio alla finalità stessa del procedimento di prevenzione, storicamente volto a fronteggiare la possibilità che il soggetto, ritenuto pericoloso in ragione del suo precedente agire, venga a porre in essere «future condotte perturbatrici dell’ordine sociale costituzionale o dell’ordine economico e ciò in rapporto all’esistenza di precise disposizioni di legge che “qualificano” le diverse categorie di pericolosità»[15], la Giurisprudenza più recente, sulla implicita scia di pregressi arresti, tematizzando scinde il giudizio di pericolosità in due passaggi logici, il cui primo, necessario ma non sufficiente, funge da premessa al secondo[16].

La prima fase, di tipo constatativo, mira difatti alla importazione dei dati cognitivi idonei a ricostruire storicamente il pregresso agito del proposto, fungendo tale valutazione da fondamenta al conseguente giudizio prognostico, coessenziale alla natura e finalità stesse della materia in questione, teso a «qualificare come probabile il ripetersi di condotte antisociali, inquadrate nelle categorie criminologiche di riferimento previste dalla legge»[17], in ciò rinvenendosi il requisito di pericolosità sociale.

Sotto questo aspetto il giudizio di pericolosità a matrice constatativa, volto alla sussunzione dell’agito negli alvei della pericolosità generica o qualificata, pur tollerando che la descrizione del fatto sia operata col precipuo metodo indiziario del procedimento di prevenzione, non si riassume affatto nella mera valutazione astratta di pericolosità sociale – attinente alla fase nominata prognostica del giudizio – affondando piuttosto radici nell’apprezzamento di fatti storicamente verificabili, di cui si alimenta: percorre così la giurisprudenza un ulteriore passo verso la tipizzazione dei criteri applicativi e di metodo che definiscono le misure di prevenzione.

Il richiamo ha importanti riflessi pratici, fissando i principi guida quanto alla delimitazione dell’“appartenenza”: predicando certezza, tassatività è così imposta tanto al legislatore quanto all’interprete, dovendosi il giudizio di prevenzione risolvere, al pari di altro giudizio, nell’accertamento della coincidenza tra la condotta e il fatto tipico, dunque per sussunzione nella fattispecie astratta; solo a ciò posteriore la c.d. “prognosi”, giudizio ontologicamente probabilistico versato all’esame del futuro comportamento e dunque della possibilità di reiterazione di condotte perturbatrici dell’ordine sociale costituzionale o economico.

Quindi, quanto disposto dagli artt. 1 e 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 manifesta il medesimo “valore” che «nel sistema penale è assegnato alla norma incriminatrice, ossia esprime la ‘previa’ selezione e connotazione, con fonte primaria, dei parametri fattuali rilevanti, siano gli stessi rappresentati da una condotta specifica (le ipotesi dì ‘indizio di commissione’ di un particolare reato, con pericolosità qualificata) o da un ‘fascio di condotte’ (le ipotesi di pericolosità generica[18].

Questa allora l’innovativa portata delle pronunce in questione: esclusa, in fase constativa, ogni ipotesi di “flessibilità” applicativa della fattispecie prevista dalla norma, talché s’impone il rispetto del generale principio di tassatività e determinatezza nella tipizzazione dei comportamenti presi in considerazione, indispensabile fonte giustificatrice delle limitazioni di natura afflittiva[19] degli esiti prevenzionali su diritti costituzionalmente garantiti.

La sentenza 24/19 della Corte Costituzionale, poi, segna anche la decisa procedimentalizzazione del procedimento di prevenzione, mediante il richiamo ai costituti del giusto processo, sia pure con limitato riferimento ai commi 1, 2, 6 e 7 dell’art. 111 Cost..

Anche il procedimento di prevenzione, avendo natura sanzionatoria, pretende il rispetto del contraddittorio, la ragionevole durata, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti, la garanzia di un giudizio di legittimità, ma anche, se non soprattutto, la terzietà ed imparzialità del Giudice.

Su tale ultimo aspetto, in particolare, definitiva ed esplicita conferma si rinviene nella Pronuncia delle S.U. del Supremo Collegio del 24 febbraio 2022 n. 25951, con cui prosegue la costruzione del giusto processo di prevenzione:  

«L’opzione ermeneutica che il Collegio ritiene di dover condividere è quella che riconosce l’applicabilità della sunnominata causa di ricusazione anche al rito della prevenzione.

Essa presuppone il riconoscimento della natura giurisdizionale del procedimento di prevenzione e la riconosciuta incidenza sui diritti di rilievo costituzionale. (…)

L’adeguamento del sistema della prevenzione ai principi costituzionali e convenzionali, inciso sia dalle novelle legislative che dalle pronunce giurisprudenziali, ha così ridefinito non solo il perimetro sostanziale della materia ma anche quello procedimentale, determinando la progressiva giurisdizionalizzazione del procedimento, accompagnata da un graduale allineamento dapprima ai principi generali del giudizio ordinario (il primo tentativo di avvicinamento tra i due procedimenti è stato operato dal riconoscimento della non utilizzabilità delle intercettazioni dichiarate inutilizzabili nel procedimento ordinario: Sez. U, n. 13426 del 25/03/2010, Cagnazzo, Rv. 246271-01; allo stesso, ha fatto séguito il giudizio di illegittimità del giudizio di pericolosità fondato su dichiarazioni accusatorie indirette, rese in violazione dell’art. 195, comma 7, cod. proc. pen. : Sez. 5, n. 3687 del 27/10/2010, dep. 2011, Cassano, Rv. 249691- 01) e poi a quelli propri del giusto processo.

Lo sviluppo ha rappresentato un coerente riflesso dell’evoluzione della natura giuridica delle misure di prevenzione che, introdotte quali strumenti di polizia, hanno successivamente assunto lo statuto giuridico dei provvedimenti amministrativi, per divenire, infine, autentiche misure giurisdizionali, capaci di far superare il dubbio sulla compatibilità del sistema con i precetti della Carta dei diritti fondamentali.

Tuttavia, pur a fronte di questo graduale adeguamento del sistema della prevenzione agli standard costituzionali e convenzionali anche in relazione al versante procedimentale, si sono mantenuti taluni elementi anacronistici, frutto della primigenia configurazione della materia ad opera della legge 1423 del 1956: si allude, in particolare alla sostanziale discrezionalità dell’azione di prevenzione, alla mancanza di termini di durata delle indagini, alla natura ordinatoria dei termini del giudizio, all’assenza del principio dell’immutabilità del giudice, alla disciplina della formazione della prova e all’intervento del proposto in udienza [20].

In tale percorso di adeguamento al modello processuale ordinario, oscillante tra valori di garanzia dei diritti fondamentali ed esigenze di sicurezza, ha certamente svolto un ruolo ostativo il pregiudizio ermeneutico[21] fondato sul rapporto di autonomia tra il procedimento di prevenzione e il processo ordinario.

Tale erronea prospettiva è stata favorita anche dalla sovrapposizione tra il principio di legalità sostanziale e quello di legalità processuale, il primo — nelle parole della Corte costituzionale (sent. n. 24 del 2019, cit.) — inteso «quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova», a differenza del secondo che attiene alla «cosiddetta tassatività processuale, concernente il quomodo della prova» ed «è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali, tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un giusto processo, ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU».

Secondo un diffuso orientamento, la differenza tra il procedimento di prevenzione e quello penale è generalmente giustificata con il fatto che il secondo, ricollegato a un fatto-reato e il primo, riferito a una valutazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato (cfr., Sez. 5, n. 23041 del 28/ 03/2002, Ferrara, non massimata sul punto), escluderebbe la comunanza delle regole probatorie e di giudizio nelle due distinte discipline di accertamento del fatto-reato e della pericolosità del soggetto o della res.

Peraltro, se il differente oggetto dell’accertamento può in astratto giustificare l’autonomia dei procedimenti (come già riconosciuto da Corte cost. n. 275 del 1996), sul piano dell’attività di indagine e di raccolta del materiale investigativo, perde, invece, consistenza argomentativa rispetto alla tutela dei diritti fondamentali delle diverse situazioni soggettive.

L’effetto espansivo sul piano sistematico del riconoscimento della giurisdizionalizzazione come fonte di tutela dell’imparzialità del giudice travalica i limiti angusti del tema dell’autonomia strutturale del procedimento di prevenzione e si riflette sul riconoscimento di uno “statuto di garanzia (costituzionale e convenzionale) delle misure di prevenzione, personali e patrimoniali” (Corte cost. n. 24/2019, cit.) che, a sua volta, si riverbera sulla tutela dei diritti fondamentali del proposto. (…)

Tutto ciò considerato, il Collegio ritiene che l’opzione condivisa prenda le mosse dalla ritenuta giurisdizionalizzazione del procedimento di prevenzione, a detto fine valorizzandosi l’attitudine della materia ad incidere su diritti fondamentali quali la libertà personale (art. 13 Cost.), la libertà di circolazione (art. 2 del Prot. n. 4 CEDU) e il diritto di proprietà e di iniziativa economica (artt. 41 e 42 Cost., a art. 1 Prot. add. CEDU).

Individuato il referente della giurisdizionalizzazione del procedimento applicativo delle misure di prevenzione e dell’estensione allo stesso dei principi del “giusto processo”, tra questi ultimi assume un valore assolutamente primario quello dell’imparzialità del giudice, il cui difetto comporterebbe lo svuotamento sostanziale del significato proprio di tutte le regole e le garanzie processuali, che si risolverebbero in un mero e formalistico simulacro, privo di alcuna reale incidenza sul corretto esercizio della funzione dello ius dicere»[22].

Definitivamente conclamata la procedimentalizzazione dell’azione di prevenzione, è auspicabile che l’eletta pronunzia valga ad illuminare il percorso verso “il giusto” del procedimento di  prevenzione.

E dunque, non solamente in apicibus l’esegesi reclama assoggettamento a canoni di tipicità e tassatività nel definire il contenuto dell’appartenenza mafiosa rilevante a fini applicativi di misura, ma vieppiù esige che a tale prova si giunga dimostrando (argomentando?) la coincidenza tra le condotte tenute dal proposto e lo schema tipico previsto dalla norma, richiedendosi che la fase constatativa del giudizio approdi a definire tipico l’agito secondo i canoni della certezza e della specificità, corollari imprescindibili di ogni sistema che, come il nostro, rifiuti le tracce repressive del c.d. diritto penale del tipo d’autore, che pur sembra far capolino nel procedimento di prevenzione.

Per dovere di completezza, si segnala che ulteriore passo nel lento processo di procedimentalizzazione delle misure di prevenzione viene mosso dalla Corte di Cassazione n. 44214/2023: la sentenza consolida il percorso di estensione del diritto alla prova, innegabilmente introdotto dalla legge n. 161 del 2017[23]: vi è riferimento a perpendicolare potere di ammissione delle prove, con il solo limite della rilevanza, valido tanto in tema di misure personali che patrimoniali.

«Il potere di ammissione delle prove (sia documentali che orali, non essendovi limitazione alcuna nella disposizione di legge) è infatti costruito come “potere/dovere” del giudice procedente con il solo filtro della rilevanza e con esclusione delle prove vietate o di quelle superflue. Ciò del resto è pienamente in linea con gli assetti giurisprudenziali sia interni che sovranazionali che negli ultimi anni (v. Corte Cost. n. 24 del 2019) hanno promosso e realizzato un innalzamento dei profili di garanzia di un procedimento che indubbiamente tende ad incidere (pur senza avere natura strettamente penale) su diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà personale o il diritto di proprietà»[24].

In conclusione, l’approdo interpretativo di un percorso iniziato più di un ventennio fa[25] consente ad oggi di affermare – ex professo Corte Costituzionale – che la natura della “prevenzione” impone la necessità dell’osservanza delle regole del giusto processo, essendo certa la incidenza della “occorrenza” su diritti fondamentali; così conclamandosi l’intenzione del Giudice delle leggi di muoversi, tra istanze di tassatività e ragionevolezza, nel solco della tassativizzazione e procedimentalizzazione dell’ancora troppo fluido regime codicistico e registro interpretativo del procedimento in oggetto.
(Osservatorio Corte di Cassazione “Marinella Chiarella” della camera penale “A. Cantàfora” di Catanzaro)


[1] Corte Cost. n. 24 del 24 gennaio 2019, «A parere del rimettente, la lettura della sentenza de Tommaso della Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto proveniente dalla Grande Camera, «ha una portata precettiva tale che, sebbene non vincolante sul piano formale, si pone sul piano sostanziale quale criterio per l’interprete, anche suggerendo una rivisitazione dell’esplicazione del principio di legalità in materia di misure di prevenzione, la cui osservanza in concreto, sotto il profilo della determinazione dei comportamenti tipici (…) viene demandata al giudice». (…)
[2] Corte Cost. n. 24 del 24 gennaio 2019, «Pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano peraltro misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU). Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui – segnatamente –: a) la sua previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU); b) l’essere la restrizione “necessaria” rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addiz. CEDU), e pertanto proporzionata rispetto a tali obiettivi, ciò che rappresenta un requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell’individuo, alla luce dell’art. 3 Cost.; nonché c) la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU, nel suo “volet civil”), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta».
[3] La Corte Costituzionale condivide le argomentazioni delle Sezioni Unite Paternò: quest’ultime rispondevano al quesito “se la norma incriminatrice di cui all’art. 75, comma 2, d. lgs. n. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, ai sensi dell’art. 8 del d. lgs. cit., abbia ad oggetto anche le violazioni delle prescrizioni di «vivere onestamente» e di « rispettare le leggi»”. Rilevava precisamente la Corte il difetto del requisito di “prevedibilità delle conseguenze della propria condotta, per il soggetto colpito dalla misura di prevenzione personale”, nonché la mancanza di giurisprudenza in funzione “tassativizzante” e “tipizzante”, concludendo per l’impossibilità di dare contenuto a principi tanto vaghi – quali quello di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi» – da non consentire al destinatario di adeguare il proprio comportamento, cfr. Cass., S.U. 40076/2017, Paternò.
[4]L’assoluzione in ambito penale per una delle ipotesi di reato richiamate nella previsione di legge di cui all’art. 4 comma 1 lett. b) del d.lgs. 159 del 2011, determina la impossibilità di applicare la misura di prevenzione personale fondata sul medesimo fatto di reato quale sintomo di pericolosità”, cfr. Cass., Sez. I, n. 4489/2022, Candurro.
[5] Cass. Sez. I, n. 54119/2017, Sottile.
[6] Cass. Sez. I, n. 43826/2018.
[7] Cass. Sez. I, n. 24707/2018.
[8] Cass. S.U., n. 111/2017, Gattuso; sul tema, cfr. F. Basile, con la collaborazione di E. Zuffada, Manuale delle misure di prevenzione, Giappichelli Editore, Milano, 2021, in particolare pp. 60 ss (“Appartenenza” è nozione più ampia di “partecipazione”?), sebbene si rimandi per un approfondimento sui temi trattati ad una lettura integrale del testo.
[9] Cass. Sez. VI, n. 3941/2016, Gaglianò.
[10] Cass. Sez. II, n. 27855/2019.
[11] Cass. Sez. V, n. 32353/2014; nello stesso senso, Cass. Sez. I, n. 21735/2019.
[12] Cass., Sez. VI, n. 49750/2019, Diotallevi.
[13] Cass. S.U. n. 111/2017, Gattuso. Nello stesso senso, cfr. Cass. Sez. VI, n. 48840/2023: «Il ricorso del Procuratore generate è inammissibile perché sostanzialmente proposto per ragioni non consentite volte ad una rivalutazione del compendio probatorio, rispetto alla specifica valutazione svolta a riguardo della insussistenza della pericolosità qualificata in capo al proposto dal provvedimento impugnato che si pone nell’alveo dell’autorevole orientamento secondo il quale il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, si sostanzia in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale (Sez. U, n. 111 del 30/11/2017, dep. 2018, Gattuso, Rv. 271512)».
[14] Basti pensare alla libertà personale (art. 13 Cost.), alla libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), al diritto di proprietà (art. 42 Cost.), alla libertà di circolazione (art. 16 Cost.).
[15] Cass. Sez. I, n. 23641/2014.
[16] Cass. Sez. I, n. 23641/2014; in senso conforme, Cass. Sez. I, n. 54119/2017
[17] Ibidem.
[18] Cfr. Cass., sez. I, n. 4489/2022.
[19] «E’ dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva», cfr. Cass. Sez. 1, n. 43826/2018.
[20] Urge incontrovertibile dal pronunziato una apertura alla omogeneizzazione procedurale dei due versanti, processuale e prevenzionale. Sicché l’autonomia incontestabile sui piani della configurazione tematica delle violazioni ovvero dei rimedi non è di ostacolo alla simmetrizzazione delle procedure accertative. Sollecitazione perviene dunque non solo al legislatore ma innanzitutto a percorsi ermeneutici di consapevole capacità sistemica. Basti il riferimento alla disciplina della formazione della prova, che ineluttabilmente involge la ragionevolezza del dubbio ragionevole, che si appalesa peculiare non solo sul versante dei criteri di valutazione, ma in specie nell’altro dell’accertamento del fatto da cui l’intervento giurisdizionale.
[21] Ogni pregiudizio è immedicabilmente un danno.
[22] Cfr. Cass., S.U. n. 25951/2022.
[23] Art. 7, comma 4-bis CAM: «Il tribunale, dopo l’accertamento della regolare costituzione delle parti, ammette le prove rilevanti, escludendo quelle vietate dalla legge o superflue». Comma inserito dall’ art. 2, comma 3, lett. b), L. 17 ottobre 2017, n. 161, che ha sostituito l’originario comma 4 con gli attuali commi 4 e 4-bis.
[24] Cfr. Cass., Sez. I, n. 44214/2023
[25] Corte Cost. n. 306 del 29 settembre 1997.

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