INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO

Intervento del Presidente Avv. Francesco Iacopino

  • Signor Presidente della Corte di Appello,
    Signor Procuratore Generale,
    Autorità tutte,
    l’inaugurazione dell’anno giudiziario che celebriamo oggi nel “nostro” distretto rappresenta inevitabilmente un momento di bilanci: il bilancio consuntivo dell’anno che ci lasciamo alle spalle e il preventivo di quello che si affaccia all’orizzonte.
    Quanto al primo, dobbiamo con onestà riconoscere che l’anno trascorso, anzi, gli anni trascorsi, sono stati caratterizzati da una forte tensione interna alla giurisdizione. L’esigenza di contrastare fenomeni criminali ben radicati nel nostro tessuto sociale – quali la pervasività mafiosa e la percezione di una corruzione diffusa – ha determinato uno sbilanciamento nel rapporto tra autorità e libertà. La forte spinta sulle esigenze di difesa sociale ha comportato di riflesso un allentamento dei livelli di tutela delle libertà individuali.

L’avvocatura penalista, funzionalmente chiamata a promuovere l’equilibrio tecnico dell’esercizio del potere giudiziario e l’osservanza delle regole del processo, ha più volte segnalato la torsione autoritaria e le conseguenze tossiche prodotte da un diritto punitivo etico, da un approccio chemioterapico intensivo che ha colpito “orizzontalmente” anche le cellule sane del nostro corpo sociale, con effetti devastanti sul piano personale, familiare, professionale, politico ed economico. Ha sostenuto con forza il grido di dolore proveniente dalle vittime collaterali dell’offensiva lanciata ai fenomeni che si intendevano contrastare. Un grido che non poteva rimanere inascoltato.
In linea con i valori costituzionali e convenzionali ha affermato con forza l’irrinunciabilità del principio di presunzione di innocenza, sistematicamente violato dalle trionfali conferenze stampa, nelle quali molti uomini e donne sono stati esposti come colpevoli e condannati senza contraddittorio e senza appello dal Tribunale del popolo e dalla “giuria pubblica”, salvo poi risultare innocenti all’esito del giudizio penale. Ha segnalato le storture prodotte dall’uso disinvolto dell’istituto della “connessione” e dalla conseguente abnormità dei maxi-processi (sempre più elefantiaci), evidenziando il rapporto direttamente proporzionale tra il numero degli imputati e il numero degli errori giudiziari e la conseguente fisiologica difficoltà per i Giudici -specie nella fase più delicata, quella cautelare- di scrutinare la posizione di centinaia di imputati, compulsando migliaia di atti di indagine sui quali si decide della libertà dell’individuo.
Ha posto l’accento sul necessario controllo preventivo del materiale intercettivo; tema che richiederà una riflessione seria e profonda, dal momento che la mancata previa verifica di “fedeltà” del dato trascritto, sovente in forma sommaria, rispetto a quello captato è capace di produrre, nell’immediato, effetti tossici irreparabili sulle libertà personali ed economiche dei soggetti attratti nel circuito penale.

Ancora, ha richiamato l’attenzione sul “sotto-sistema” della prevenzione patrimoniale non ablativa, segnalando che l’uso intensivo delle interdittive antimafia (in una logica di mero sospetto) sta disincentivando gli investimenti al Sud e desertificando l’economia legale, con il rischio paradossale di liberare spazi di mercato in favore delle imprese criminali. Se non si tenderà la mano all’imprenditoria sana, insidiata dalla criminalità, si schiaccerà il sistema produttivo in una morsa soffocante, in contrasto con la logica recuperatoria che ispira la relativa disciplina legislativa.
Di fronte a tali e tante criticità, senza peraltro pretesa di esaurirle, chi, se non l’avvocatura si doveva far carico di segnalarle, ponendo l’accento sull’esigenza di attivare gli anticorpi necessari a scongiurare il ripetersi degli effetti collaterali di un’offensiva penale che – in una eterogenesi dei fini – ha colpito vite, affetti, carriere, aziende, tutti travolti dal tritacarne giudiziario.
E allora, nel predisporre il bilancio preventivo dell’anno che ci attende, non possiamo prescindere da una domanda sull’orizzonte di senso verso il quale vogliamo guardare da qui in avanti. Quale fisionomia e fisiologia di anno giudiziario ci aspettiamo? Come vogliamo riempire le pagine del libro della giustizia nell’anno che verrà?
Certamente nessun cedimento sul terreno del contrasto ai fenomeni criminali. Le questioni che abbiamo sempre agitato, infatti, non riguardano il se ma il come detto contrasto si è inteso azionare. Rispettare la presunzione di innocenza, ridurre il numero degli imputati nei singoli processi, garantire un controllo maggiore del pubblico ministero nella fase investigativa, specie sul materiale intercettivo, permettere ai giudici di confrontarsi con fascicoli “gestibili”, per fare alcuni esempi, sono tutti meccanismi “correttivi” sui quali si può (e si deve) intervenire.
Si tratta di riportare in asse il rapporto tra autorità e libertà, tra sicurezza e diritti fondamentali dell’individuo, nella consapevolezza che il ritrovato equilibrio nell’uso della leva penale potrà ridurre il margine di errore giudiziario e consentire un recupero di fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia.

In questa direzione dobbiamo ritrovare, avvocati e magistrati, la dimensione di fiducia reciproca e di leale collaborazione, un lessico e una grammatica comuni, superando la cultura del sospetto che in qualche modo si è insinuata velenosamente tra noi e all’interno delle nostre aule. Dobbiamo ritornare alla gloriosa tradizione del nostro Foro, caratterizzata da un rapporto improntato al dialogo costruttivo e al reciproco rispetto, nella consapevolezza di essere componenti dell’unico corpo, che è la giurisdizione.

Di fronte a un sistema penale che assume connotazioni parossistiche, governato da una bulimia politico-criminale che pretende di regolare il disagio e la marginalità sociale con la sola leva penale, occorre trovare la forza per resistere all’eccesso punitivo e per opporsi a una visione “vendicativa” del processo e “carcerocentrica” della pena, recuperando la dimensione del diritto penale come “limite” alla pretesa punitiva dello Stato.
A tal proposito, non possiamo trascurare il mondo sofferente del carcere, sempre più affollato. Gli Istituti di pena, spesso anche fatiscenti, continuano ad assumere la funzione di discarica sociale, un centro di raccolta differenziata delle periferie esistenziali del nostro tempo: tossicodipendenti, migranti, poveri, malati psichiatrici. Categorie che possono essere sintetizzate in un unico sintagma: vite di scarto.
Per non parlare degli imputati minorenni reclusi nell’I.P.M., per lo più stranieri senza una rete familiare e affettiva, vite segnate dalla povertà materiale e dalla solitudine esistenziale.
Dobbiamo sentire su di noi le ferite dell’umanità che incrocia il mondo della giustizia, vedere dietro ogni reato l’uomo con le sue fragilità, consapevoli che non è la (sola) dimensione retributiva che potrà restituirci una società più giusta e più sicura.
Umanità e giustizia, un’endiadi indissolubile. Perché se è vero che non può esistere umanità senza giustizia, è altrettanto vero che non può esistere giustizia senza umanità.
Vi ringrazio.

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