di Angela La Gamma
Il presente contributo mira ad offrire spunti di riflessione sulla tematica, in costante ascesa, della responsabilità da reato delle persone giuridiche, ex D.lgs. 231/2001 e di adeguatezza ed efficace applicazione del Modello di Organizzazione Gestione e controllo, partendo dall’analisi della pronuncia emessa dalla Corte di Cassazione, Quarta sezione penale, in data 5 ottobre 2023, avente numero 1636/2023 r.g sent.
La sentenza in commento affronta la spinosa tematica della responsabilità dell’ente nelle ipotesi di morte (o infortunio) sul lavoro occorsa ad un dipendente e, nello specifico, della responsabilità derivante alla società dal presunto delitto di omicidio colposo commesso da soggetto apicale, il legale rappresentante dell’ente, nella qualità di datore di lavoro, fattispecie contemplata all’art. 25 septies del Dlgs 231/2001.
La Suprema Corte, nell’annullare con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Firenze – la quale, confermando una pronuncia resa dal Tribunale di Pisa, aveva condannato, per il delitto di omicidio colposo ai danni di un operaio intento a rimuovere dei rifiuti boschivi derivanti da lavorazioni, tanto il datore di lavoro, quanto la persona giuridica- muove pesanti critiche ai giudici di secondo e primo grado.
In particolare, la Cassazione, nella pronuncia in commento, rileva una serie di “errori giuridici” commessi dal Tribunale e reiterati dalla Corte d’Appello.
In primo luogo, la Corte fiorentina è incorsa, secondo i Giudici di legittimità, in un’erronea valutazione, nel momento in cui ha edificato la responsabilità dell’ente su condotte che erano “riferibili, in astratto ancor prima che in concreto, esclusivamente alla persona fisica”: secondo le previsioni contenute nel D.lgs. 231/01, al contrario, la responsabilità dell’Ente va a sommarsi e non si confonde con quella della persona fisica che ha commesso l’illecito, è autonoma rispetto alla tradizionale responsabilità penale personale ed è legata alla commissione di un reato ricompreso nel catalogo dei reati presupposto previsti dal decreto medesimo.
I Giudici di prime e seconde cure, inoltre, sono incorsi in un ulteriore errore valutativo, sempre secondo la Cassazione, allorquando hanno ritenuto coincidente il Modello di Organizzazione Gestione e controllo, di cui l’ente era dotato, con il sistema di gestione della sicurezza sul lavoro.
Ancora, l’ultima censura che ha determinato l’annullamento con rinvio alla Corte d’appello di Firenze è relativa alla mancata prova circa la ricorrenza dei presupposti di imputazione della responsabilità, sanciti nell’art. 5 del D.lgs 231/01, il quale richiede, indefettibilmente, che il reato c.d. presupposto, quand’anche colposo, sia commesso nell’interesse o a vantaggio dell’Ente.
Pare opportuno soffermarsi, brevemente, su tali due ultime censure mosse dai Giudici di legittimità alla Corte territoriale fiorentina, ossia l’aver confuso, sovrapponendoli, gli ambiti di operatività, rispettivamente, del MOG e del sistema di gestione della sicurezza sul lavoro e l’aver trascurato la necessità che fosse provato l’interesse o il vantaggio per l’ente derivante dalla commissione dell’illecito.
Con riferimento al primo punto, giova ricordare che il Modello di Organizzazione e Gestione, ai sensi dell’art. 6 del D.Lgs .231/01, è uno strumento di gestione aziendale che individua le procedure operative sviluppate per ridurre il rischio che soggetti apicali o sottoposti commettano reati a vantaggio o nell’interesse della società.
Orbene, il MOG è affatto coincidente con il modello di gestione della sicurezza sul lavoro che è incentrato sul DVR (Documento Valutazione dei Rischi) e sul POS (Piano Operativo di Sicurezza): a differenza del primo, il modello di gestione della sicurezza sul lavoro individua i rischi connessi a quella specifica attività lavorativa e determina i mezzi e le misure idonee ad eliminarli o ridurli; al contrario il MOG, ha una portata molto più ampia, non limitata ad una specifica attività o settore di attività ed è volto a prevenire il rischio di commissione di reati da parte di soggetti interni all’ente. Ciò attraverso la previsione di specifiche procedure aziendali di compliance, sottoposte al vaglio ed al controllo dell’Organismo di Vigilanza e caratterizzate da flussi informativi costanti che permettano di verificarne, non solo l’adozione ma anche e, forse, soprattutto, l’efficace attuazione.
È vero che sotto il profilo della colpa dell’Ente, tanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione del MOG, quanto la mancata adozione o l’inefficace attuazione modello di gestione della sicurezza sul lavoro, forniscono la prova della colpa in organizzazione da parte della società.
Ma è altrettanto vero che ciò non significhi che i due piani siano coincidenti o, peggio, sovrapponibili, in quanto, come detto, i due modelli sono proiettati e normativamente destinati a finalità completamente differenti; né, tantomeno, bisogna ritenere che il verificarsi del reato implichi, ex sé, che il MOG adottato dall’Ente fosse inefficace o inidoneo a prevenire illeciti della stessa indole di quello in concreto verificatosi.
Il D.lgs.231/01, infatti, all’art. 6, nel momento in cui “impone” l’adozione di un modello organizzativo valido ed efficace, non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma prevede, al contrario la c.d. colpa di organizzazione dell’Ente, intesa come mancata predisposizione di una serie di accorgimenti preventivi, idonei ad evitare la commissione di reati del tipo di quelli realizzati: è necessario cioè, al fine di sancire una responsabilità della persona giuridica, il riscontro, al suo interno, di un deficit organizzativo.
L’addebito di responsabilità all’Ente, in altri termini – e come chiarito dalla giurisprudenza – non si fonda su un’estensione più o meno automatica della responsabilità individuale al soggetto collettivo, bensì sulla dimostrazione di una difettosa organizzazione da parte dell’ente a fronte dell’obbligo di auto-normazione volta alla prevenzione del rischio di realizzazione del reato (cfr. Cass. Pen. sez. IV n. 570 del 2023), tanto è vero che, come detto, la responsabilità è esclusa se la società, prima della commissione del fatto, abbia adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi (sul punto cfr. Cass. Pen. Sez. 6 n. 23401 dell’11/11/2021 cd. Impregilo – Cass pen. N. 21640 del 19 maggio 2023).
È evidente, quindi, l’errore di fondo in cui sono incorsi i Giudici toscani, i quali hanno confuso i due piani di responsabilità e che deve essere ora sanato da una nuova sezione della Corte d’appello di Firenze, alla luce dei principi di diritto sanciti dalla Corte di Cassazione con la pronuncia de qua.
Da ultimo preme affrontare l’ulteriore aspetto censurato dai Giudici di legittimità cui si è fatto riferimento in premessa, ossia la mancata prova dell’interesse conseguito dall’Ente a seguito del delitto di omicidio colposo. Tale interesse è stato individuato dalla Corte d’appello di Firenze e, prima ancora, dal Tribunale di Pisa, nel risparmio economico derivante all’Ente dalla mancata adozione di sistemi di protezione individuale, nonché dalla mancata formazione dei lavoratori.
Come detto, l’art. 5 del D.lgs 231/2001 contempla, tra i criteri di imputazione della responsabilità all’Ente, la circostanza che il reato sia stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio.
Il concetto di “interesse” attiene ad una valutazione antecedente alla commissione del reato presupposto, mentre il concetto di “vantaggio” implica l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato (valutazione ex post) (cfr. Cass. Pen. Sez. IV 21.01.2016 n. 2544).
Per quanto in questa sede rileva, nei reati colposi, i concetti di interesse e vantaggio devono necessariamente essere riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico (evento): è ben possibile che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare e, quindi, colposa, sia posta in essere nell’interesse dell’ente e determini comunque il conseguimento di un vantaggio. (Cfr. SS.UU. del 24.04.2014 N. 38343 Thyssen).
L’ente non ha, infatti, alcun interesse nel causare lesioni ad un proprio dipendente, ma può certamente avere interesse a risparmiare sui costi per la predisposizione delle misure di sicurezza o per la formazione dei lavoratori; il vantaggio è dato naturalmente dal risparmio ottenuto o dal maggior profitto realizzato.
Nei reati colposi, secondo l’insegnamento costante della giurisprudenza, l’interesse e/o il vantaggio vanno letti nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumento di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa di prevenzione (cfr.Cass pen. Sez IV del 23.6.2015 n. 31003); essi, quindi, vengono intesi in un’accezione soggettivizzata come inerente alla finalità che muove l’autore del reato e non riferita, invece, all’oggettiva attitudine del reato a concretizzare un’utilità per l’ente.
Così delineati nei loro esatti confini i concetti di vantaggio e di interesse, è evidente come, nel caso in esame, la Corte territoriale sia incorsa in un’ulteriore errore interpretativo nel momento in cui ha tenuto in considerazione l’interesse economico perseguito dall’Ente” e il “preciso interesse dell’ente appaltante a ridurre l’impegno di spesa” dimenticando, quindi, che l’interesse, ai sensi dell’art. 5 del D.lgs. 231 non deve essere perseguito dall’Ente, bensì, deve essere perseguito dal soggetto agente (apicale o subordinato) in favore dell’Ente: è quindi al reo ed al suo finalismo soggettivo che i Giudici chiamati ad un nuovo giudizio sulla vicenda dovranno guardare per accertare se i requisiti di cui all’art. 5 d.lgs. 231/01 ricorrano nel caso concreto.