di Antonio Ludovico
Esattamente come il più raffinato e imprevedibile romanzo criminale, la storia dell’Avvocato Giorgio Ambrosoli si staglia alta nel firmamento di quei servitori dello stato che non si piegarono mai alle logiche perverse e, purtroppo, pagarono con la vita la loro innata coerenza. Nato a Milano nel 1933, figlio di avvocato, Giorgio Ambrosoli era un uomo di una linearità e una rettitudine proverbiali; specializzato in diritto commerciale, si occupò sin da subito di reati fallimentari e di lui se ne accorse finanche la Banca d’Italia, con l’allora Governatore Guido Carli, che gli affidò l’incarico più delicato e spinoso, una di quelle gatte da pelare che, ahimè, gli costò la vita: quello di commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Ma per comprendere bene gli scenari in cui si dimenava il giovane (all’epoca aveva solo 42 anni) avvocato milanese.
Conviene avvolgere il nastro e raccontarla per bene questa storia che ha appassionato giallisti, criminologi, registi e perfino qualche pubblico ministero.
Per intanto: chi era Michele Sindona? Che ruolo aveva con la finanza italiana e, soprattutto, con la politica nostrana? Siciliano di Patti, Messina, Michele Sindona era anch’egli un avvocato – ovviamente di tutt’altra pasta – che dopo la seconda guerra mondiale si specializzò in una materia poco conosciuta dalle sue parti, quella fiscale e, per tale ragione, si dovette trasferire a Milano. Nella capitale lombarda, il giovane fiscalista cominciò ad accattivarsi quella parte rilevante di borghesia meneghina facendo investimenti che ebbero successo immediato poiché riusciva a far risparmiare soldi pesanti ai suoi clienti. Non solo, ma lo scaltro siciliano era un perfetto conoscitore dei paradisi fiscali, come quello ubicato nella piccola regione del Lichtestein e da lì iniziò a rilevare società elettriche in cambio di pochi spiccioli, per poi passare al colosso della Bastogi (la più antica società italiana quotata in Borsa) ed infine a quote rilevanti di banche tedesche e americane. Insomma, un’escalation degna di un autentico mago della finanza, tant’è che di lui se ne accorse persino il governo italiano – nella persona del Presidente Andreotti – che, ben lungi dal considerarlo uno spregiudicato uomo d’affari ben inserito in ambienti malavitosi, lo definì addirittura “il salvatore della lira”. Naturalmente le cose non stavano come profetizzava il vecchio Presidente del Consiglio, ma dietro quell’apparente aura di imperturbabilità, si celava un’anima nera che riusciva a fare patti con chiunque gli assicurasse una stabilità economica. Che poi, a farci le spese fossero i poveri contribuenti italiani, poco importava all’uomo venuto dall’estremo sud.
Ma, come spesso avviene, anche nelle favole più benevole, arriva sempre il momento in cui c’è da fare i conti con una realtà che prende le forme di un investimento sballato, quello sul dollaro, il quale – ad inizio degli anni settanta – ebbe un tracollo imprevisto e imprevedibile. Da qui, lo sgretolamento di un impero che aveva visto Sindona veleggiare alto anche lungo le coste americane e che costrinse lo stesso banchiere a chiedere prestiti a destra e a manca, al punto tale che dovette intervenire la Banca d’Italia per nominare un commissario liquidatore con pieni poteri per mettere ordine alla Banca Privata di proprietà dello stesso Sindona. Giorgio Ambrosoli – sia detto per inciso – prese quell’incarico con il massimo della responsabilità possibile e consapevole dei rischi cui andava incontro. Visse per cinque anni in una situazione di totale isolamento e rischio, tant’è che scrisse alla moglie una lettera nella quale manifestò tutte le sue drammatiche convinzioni: “pagherò a caro prezzo l’incarico. Lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto, anche perché per me è un’occasione unica per fare qualcosa per il Paese”. Parole che lette oggi, dove ideali di coerenza, libertà e responsabilità sembrano degli optional, risuonano strane e fuori contesto.
Ma la corteccia di quel giovane avvocato era forte e resistente e – ad essere particolarmente precisi – non era completamente solo poiché al suo fianco aveva un altro grande servitore dello Stato, il maresciallo della Guardia di Finanza, Silvio Novembre, che lo aiutò a smascherare questa tela del ragno, una sorta di archivio segreto nel quale erano annotati i trucchi contabili, le operazioni speculative, le manovre poco chiare su cui si reggeva la Banca Privata Italiana. E Ambrosoli, intelligente e capace com’era, smascherò da subito il gioco sporco di Sindona, abile manipolatore che utilizzava i risparmiatori per accrescere soltanto la sua rete di rapporti, anche oltreoceano; non solo, ma quel Commissario Liquidatore si dimostrò un osso durissimo, spedendo al mittente vari tentativi di corruzione che si trasformarono poi in minacce di morte. “Se l’andava cercando” commenterà inopportunamente il solito Andreotti nel 2010, dando plasticamente l’idea di quanto rigore morale avesse quell’avvocato milanese. Avvertimenti e minacce che l’11 luglio del 1979 si concretizzarono in un agguato in piena regola, proprio sotto casa, quando un sicario americano mandato da Sindona gli esplose quattro colpi di pistola. Per la cronaca il killer di Giorgio Ambrosoli fu l’italo-americano William Joseph Aricò, noto come “Bill The Terminator” (con una paga di 50.000 dollari), perché da giovane vendeva, porta a porta, pillole al cianuro per la derattizzazione degli appartamenti, su espresso mandato di Michele Sindona.
Tre giorni dopo, nella chiesa di San Vittore, a Milano naturalmente, non si vide incredibilmente nessuna personalità dello stato, nessun rappresentante del governo; le cronache ricordano solo lo sguardo attonito di Paolo Baffi, successore di Guido Carli alla Direzione della Banca d’Italia, travolto da un’inchiesta giudiziaria dalla quale uscirà completamente prosciolto, ma in odore di dimissioni, cosa che fece il mese successivo. E solo più tardi gli italiani scoprirono il letamaio che stava dietro quelle losche vicende, una sigla che i benpensanti cominciarono a conoscere come le loro tasche: la famigerata Loggia P2 di Roberto Calvi e Licio Gelli, oltre che pezzi significativi dello IOR dell’arcivescovo Paul Marcinkus e naturalmente la mafia siciliana, corleonese per la precisione. Per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli vennero poi condannati all’ergastolo Robert Venetucci (colui che chiamò Aricò per l’esecuzione) e Michele Sindona nella veste di mandante. Il banchiere siciliano fu rinchiuso nel supercarcere di Voghera, dove morì a causa di un caffè al cianuro che bevve il giorno della lettura della sentenza, con un finale degno di un romanzo di Alexander Dumas padre. In seguito, nonostante le solite tesi complottiste, si apprese che quel gesto era semplicemente la precisa volontà dell’ex banchiere di volerla finire con un mondo che – secondo lui – gli aveva voltato le spalle e non lo aveva protetto a sufficienza. Tornando all’avvocato Ambrosoli, c’è da dire che per anni fu dimenticato, non solo dalla politica; poi, di colpo, spuntarono come funghi libri a tema (mi piace ricordare il bellissimo “Un eroe borghese” di Corrado Stajano), un film dal titolo significativo “Qualunque cosa succeda” (con Pierfrancesco Favino), tratto da un volume del figlio Umberto, tantissimi premi e concorsi. Questa è la storia di un “rivoluzionario, in quanto portatore di legalità “, così come fu definito Giorgio Ambrosoli dal magistrato Giuliano Turone, un’anima gentile che pagò a caro prezzo la sua indiscutibile correttezza nell’adempimento di un mandato pericoloso e denso di insidie, un uomo come pochi che tutti dovrebbero ricordare.
Anni dopo, Giulio Andreotti si scusò con la moglie di Ambrosoli, Anna Lori, per le sue uscite inopportune, ma la cosa rimase senza conseguenze; così come l’atteggiamento – apparentemente distaccato – di Enrico Cuccia, capo di Mediobanca, che non mosse un dito (forse per paura di ritorsioni) per tentare di salvare quel giovane avvocato morto in solitudine nell’espletamento del proprio dovere. Ma questa, probabilmente, è un’altra storia.