Stop all’ergastolo ostativo: “Sì alla speranza e alla funzione rieducativa della pena”

di Orlando Sapia, responsabile Osservatorio Carcere Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro

 

In data 23 marzo si è svolta dinanzi alla Corte Costituzionale l’udienza avente ad oggetto la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale. Al termine dell’udienza la Corte ha riservato la decisione.

La storia
Francesco Saverio Pezzino, condannato all’ergastolo per il delitto di omicidio volontario, avvenuto in contesto mafioso e quindi aggravato, dopo aver scontato oltre trenta anni di carcere ha avanzato istanza di liberazione condizionale al competente Tribunale di Sorveglianza. Il Tribunale di Sorveglianza non ha rigettato l’istanza, ma ha dichiarato l’inammissibilità della stessa, poiché Pezzino nel corso della propria detenzione non ha mai collaborato con la giustizia. In sostanza il tribunale non ha operato alcuna valutazione in ordine al percorso detentivo dell’istante e all’eventuale ravvedimento dello stesso.

La questione di legittimità
Avverso la declaratoria di inammissibilità la difesa del condannato ha avanzato ricorso in Cassazione e nel corso del giudizio è stata sollevata la questione oggi al vaglio della Corte Costituzionale. 
La quaestio ha ad oggetto le disposizioni di cui agli artt. 4 bis, co.1, e 58 ter L. n. 354/ 1975 e art. 2 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991, nella parte in cui escludono che il condannato all’ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, possa godere della liberazione condizionale, salvo il caso in cui sia avvenuta la collaborazione con la giustizia o, in alternativa, l’accertamento dell’impossibile o inesigibile collaborazione.
In particolare, le disposizioni che disciplinano l’ergastolo ostativo sarebbero, secondo il tessuto argomentativo dell’ordinanza di rimessione, in violazione degli articoli 3 (principio di eguaglianza), 27 (funzione rieducativa della pena e divieto di trattamenti contrari al senso di umanità) e 117 (obbligo di compatibilità della normativa interna con quella internazionale) della Costituzione.

La funzione della pena
Infatti, la Corte di Cassazione, anche sulla scia della recente giurisprudenza internazionale (sentenza Corte EDU Viola/Italia) e nazionale (sentenza C.C. n. 253/19), ha evidenziato come le vigenti disposizioni realizzano “una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e progressività del trattamento” che cedono il passo alle finalità di politica criminale e di difesa sociale, egemoni rispetto al principio della finalità rieducativa della pena che – come riconosciuto dalla sentenza  n. 313 del 1990 – è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena”.
Per meglio comprendere la problematica è necessario, almeno per un momento, mettere da parte le ansie securitarie, oggi molto in voga, e tenere in debito conto la funzione della pena nel suo divenire storico.
Ad esempio, la pena dell’ergastolo ha conosciuto un lungo e lento percorso di costituzionalizzazione, iniziato nel 1962 con l’introduzione della liberazione condizionale e poi continuato con le disposizioni dettate dalla riforma penitenziaria del 1975 e dalla miniriforma Gozzini del 1986. Tale cammino normativo ha reso l’ergastolo una pena ad esecuzione progressiva, in cui sono previste varie finestre che, nel caso di successo nell’opera di rieducazione, si possono aprire, fino a giungere in presenza del sicuro ravvedimento alla liberazione condizionale.
Al contrario, nel caso della ostatività, avviene che la vigente normativa ripristina una disciplina che è quella anteriore al 1962, così riprendendo i connotati della pena perpetua, come concepita dal legislatore del 1930, ciò in aperto contrasto al lungo e tortuoso percorso di costituzionalizzazione del diritto penale e della funzione della pena, salvo l’ipotesi di collaborazione con la giustizia.

Presunzione assoluta e preclusione ostativa
La problematica sta proprio in questa piega della “vicenda” normativa, cioè l’aver equiparato, mediante una presunzione di carattere assoluto, la mancata collaborazione alla presenza di legami con la criminalità organizzata e ad indice di pericolosità sociale. Difatti, nel caso in cui il soggetto condannato alla pena perpetua non collabori e non sia in grado di fornire prova in ordine alla propria “incolpevole” mancata collaborazione (perché magari conseguenza di altri fattori quali il timore di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei prossimi congiunto), resta comunque bloccato nel vicolo cieco dell’ostatività, pur non essendo la scelta di non collaborare necessariamente sintomatica di un’adesione ai valori del consorzio criminale o di rifiuto del percorso rieducativo. Sotto altro aspetto, speculare e contrario, può avvenire che qualcuno decida di collaborare con la giustizia ed in gergo “pentirsi” solo al fine di godere dei benefici che ne conseguono, senza aver posto in essere alcun percorso di rivisitazione critica del proprio passato criminale.

L’eventuale accoglimento
Qualora la Corte dovesse ritenere fondata la questione sollevata, ne discenderebbe che la presunzione dell’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale potrebbe caratterizzarsi, quantomeno, in termini di relatività. 
Eliminando un automatismo di esclusione, nato in una logica emergenziale, si ridarebbe, così, potere di valutazione alla magistratura di sorveglianza sia in ordine alla effettiva pericolosità del condannato che rispetto al sicuro ravvedimento dello stesso.
Difatti, è bene ricordare che, contrariamente a chi sostiene che in caso di accoglimento ci sarebbe l’apertura delle carceri con la fuoriuscita dei peggiori criminali, i benefici penitenziari non sono mai concessi con facilità ed in modo automatico, ma passano attraverso il vaglio critico e severo della magistratura di sorveglianza, la cui valutazione si basa sulle relazioni provenienti dal carcere, nonché sulle informazioni e pareri di varie autorità tra cui la Procura antimafia.
Pare evidente che le ragioni giustificatrici dell’attuale regime differenziato sono estranee alla funzione costituzionalmente riconosciuta della pena, venendo ad incidere pesantemente sulle condizioni detentive per scopi estranei al sistema penitenziario. Una pronuncia di accoglimento sarebbe un segno civiltà a garanzia dello stato di diritto.

(Pubblicato su Calabria 7, 28/03/21)

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