TORNARE A SAN GIORGIO PER UN NUOVO CODICE ACCUSATORIO

Parla il Presidente UCPI, Avv. Francesco Petrelli

di Stefania Mantelli* – 

Nelle giornate del 14 e 15 marzo sull’isola di San Giorgio Maggiore, nella laguna di Venezia, presso il complesso monumentale sede della prestigiosa Fondazione Cini, si è tenuto l’evento organizzato dall’Unione Camere penali italiane, dal titolo “Tornare a San Giorgio per un nuovo codice accusatorio”. La scelta di iniziare questo percorso presso la Fondazione Cini ha una forte carica simbolica ed evocativa essendo stata sede dei lavori del convegno svoltosi dal 15 al 17 settembre 1961, sotto la guida del Prof. Francesco Carnelutti, con la presenza dei più grandi giuristi dell’epoca (tra essi Giovanni Conso, Franco Cordero, Alfredo De Marsico, Remo Pannain, Giandomenico Pisapia, Giuseppe Sabatini, Giuliano Vassalli) e di alti magistrati (tra tutti, Giuseppe Lattanzi).

È stata una due giorni ricca di spunti e suggestioni, per i preziosi contributi forniti dagli altrettanto autorevoli relatori che si sono avvicendati nei vari tavoli di lavoro.

1) Presidente Petrelli, l’Unione delle Camere penali italiane da Lei presieduta, ha sentito l’urgenza di avviare i lavori per una proposta di riforma del codice di rito. Rendere omaggio alla tradizione, diceva Gustav Mahler, non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco. Ed è per questo che l’Unione, nel solco della sua migliore tradizione umanistica e liberale, ha avvertito l’esigenza di dare un contributo per il ripristino della vocazione accusatoria del codice di rito, ripartendo proprio da San Giorgio. Le chiedo, quindi, quali siano i punti di contatto tra la situazione attuale e quella dell’epoca e dove ritiene possano ravvisarsi i rischi involutivi del sistema attuale.
«Non credo vi siano molti punti di contatto fra il contesto nel quale i giuristi da lei citati si incontrarono a San Giorgio e quello che stiamo attualmente vivendo. All’epoca si trattava di superare un modello inquisitorio (quello cd. “garantito” che dopo la “riformetta” del 1955 muoveva i suoi primi passi) che aveva nel nostro Paese solide radici politiche e culturali, mentre oggi per noi si tratta di recuperare un modello, quello accusatorio, che è stato vittima di molteplici attacchi e di una originaria ripulsione da parte della magistratura, una sorta di “rigetto” immunitario a difesa di un ordinamento giudiziario impostato su antiquate basi paternalistiche e autoritarie. Non si tratta di rendere omaggio a una tradizione, ma di prendere atto di una inemendabilità di un codice che oramai non conserva molto della sua originaria matrice. Si tratta piuttosto di riaffermare l’originalità di un modello che può essere ancora vitale. Ecco, vedo un possibile punto di contatto solo nella carica propulsiva che al tempo nasceva, e che oggi nasce, da un medesimo senso di inadeguatezza del processo penale del proprio tempo a rispondere alle esigenze di giustizia, di essere al passo con i criteri minimi di una modernità intesa innanzitutto come rispetto della dignità della persona e degli standard di garanzia nella formazione e nella valutazione della prova. Standard che sono stati del tutto stravolti dall’irrompere dell’efficientismo all’interno del nostro codice. Si tratta in verità di una erosione nata già con le prime risposte securitarie degli anni ‘90, ma che ha progressivamente occupato tutti gli spazi valoriali del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza propri del giusto processo, fino all’attacco finale operato dal PNRR. La passione con la quale l’accademia ha accolto questa iniziativa e l’entusiasmo con il quale l’avvocatura sta contribuendo al progetto conferma la vitalità dell’idea. Mi piace in proposito citare chi era presente, giovanissimo, ai lavori del 1961, Franco Cordero che nel 2000 pensava che la cosa migliore da fare sarebbe stata “ricominciare da capo, umilmente, con le idee più chiare e meno parole”».      

2) Presidente Petrelli, ritiene che la riforma del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. ed il rafforzamento del principio della presunzione di innocenza, operato con la Direttiva 2016/343/UE ed il conseguente d.lgs. n. 188/2021, abbiano comunque rappresentato un freno a questa tendenza involutiva? In questa ottica, pensa che la proposta del CNF per l’inserimento “dell’avvocato in Costituzione” potrebbe avere l’effetto di rinsaldare il ruolo della difesa, nonché la libertà e l’autonomia del professionista? In cosa rappresenterebbe una novità rispetto a quanto sancito dall’art. 24 Cost.?
«Si tratta di questioni molto diverse che non possono essere poste sul medesimo piano. Gli interventi realizzati al fine di recepire la Direttiva europea sul rafforzamento della presunzione di innocenza, sono stati solo dei palliativi del tutto inadeguati, che operano solo sugli epifenomeni degenerativi del modello processuale senza rimuoverne le cause. Ben diverso l’impatto della riforma del 1999 che ebbe il pregio straordinario di “costituzionalizzare” i fondamenti del nostro codice accusatorio ed in particolare quello del contraddittorio come statuto epistemologico della prova. Quella blindatura del giusto processo, calata nell’ambito delle sentenze del 1992 e della successiva riforma del 1996, ha costituito certamente una conquista ed un punto di non ritorno. Calata invece nel contesto attuale certamente pone in evidenza l’indispensabilità della riforma ordinamentale della magistratura, al fine di realizzare la “terzietà” del giudice, senza la quale il modello accusatorio resta di fatto inattuabile. Credo che la mancata realizzazione della terzietà del giudice costituisca uno dei maggiori fattori erosivi del modello, prima ancora dei molteplici ed improvvidi interventi del legislatore. Quanto alla proposta di inserire l’avvocato in costituzione, non ne ho mai ben compresa l’utilità, ma ne ho piuttosto intravisto i rischi. L’avvocato nella nostra visione è già in costituzione perché il suo ruolo è implicitamente inverato nell’art. 24 e nel diritto di difesa, mentre una sua diversa formalizzazione rischierebbe di sottrarlo al contesto di libertà, autonomia e indipendenza, che sono fondamentali per il pieno esercizio della funzione, e di attrarlo invece in un improprio ambito istituzionale».         

3) Le riforme disorganiche di questi ultimi anni, per come emerge anche dall’esperienza giudiziaria, sembrano avere di nuovo dato centralità alla fase delle indagini preliminari, e quindi anche al ruolo delle Procure, a discapito del dibattimento che, in quanto sede privilegiata del contraddittorio e della formazione della prova, dovrebbe essere in verità il cuore del processo penale. Pensa che questo spostamento di asse sia anche frutto dell’eccessiva mediatizzazione del processo e dell’interesse pruriginoso che la televisione riesce a suscitare per le ragioni della vittima e dei suoi affetti, realizzata attraverso una eccessiva esposizione mediatica delle c.d. persone offese dal reato? 
«Sono certamente molteplici i fattori che hanno contribuito a quella che definisco l’egemonia delle procure. Si tratta di un fenomeno al tempo stesso culturale, politico, storico e normativo, perché indubbiamente la complessiva crisi della democrazia ha conosciuto nel nostro paese, negli anni ’90, con “mani pulite”, una accelerazione devastante che ha avuto quale conseguenza un sostanziale arretramento della sfera della politica ed una contestuale espansione di quella del giudiziario. Uno squilibrio che ha conferito alla magistratura ed all’iniziativa processuale una centralità spropositata. È ovvio che questa posizione concentri sull’azione dei pubblici ministeri un’aspettativa straordinaria per cui gli stessi divengono eroi, solitari depositari della verità, della legalità, della giustizia e della difesa dei più deboli, identificati nelle persone offese. Chiunque si pone come limite alla loro verità, fosse anche un giudice, ne esce perdente. Anziché alla politica si richiede oggi ai pubblici ministeri la soluzione dei problemi sociali e la risposta ad ogni esigenza della collettività. La mediatizzazione del processo penale è una conseguenza di questa attesa e della assunzione da parte dei pm di questa funzione sociale e culturale impropria. La verità su ogni questione che riguardi la giustizia la si chiede a Gratteri».  

4) Il sistema del doppio binario sta subendo ulteriori differenziazioni e si potrebbe dire che assistiamo ormai ad una varietà di riti differenziati, a seconda dell’autore del reato o dell’allarmismo che si registra nei confronti di alcuni tipi di reato. Tra tutti, mi viene in mente la disciplina, progressivamente sempre più articolata ed insidiosa, che ha preso forma con riferimento ai c.d. reati da codice rosso. Come giudica queste riforme che sembrano più protese a parlare alla pancia della gente che orientate al rispetto dei valori cardine del processo accusatorio e dei principi fondamentali che lo governano? Penso, tra tutti, al principio di eguaglianza e al principio di proporzionalità della pena.
«Quella del doppio binario è una soluzione tanto semplice ed attraente per il legislatore, quanto devastante per i sistemi processuali. Ha una radice remota nel nostro Paese, perché appena compiuta l’unificazione del meridione al resto d’Italia, con l’applicazione del codice piemontese, i reati di brigantaggio vennero subito sottratti, con la legge Pica del 1863, alla giustizia ordinaria ed assegnati al codice militare. Ora il discorso si è ampliato a più settori dell’illecito, dalla mafia ai reati di genere. La continua sottrazione ai regimi ordinari di parte delle garanzie proprie del codice produce contaminazione, funziona da elemento di erosione per quello che resta del sistema e del modello accusatorio originario, instaura prassi progressivamente distorsive, agevola le giurisprudenze demolitive. Contraddittorio, oralità, immediatezza ne escono mortificate se non del tutto soppresse. In materia di codice rosso, nell’ambito ipersensibile dei reati di genere, il sistema sia processuale che sostanziale subisce un vero collasso: la prova dichiarativa proveniente dalla vittima si riassesta sui parametri della prova legale, la valutazione cautelare si resetta sui criteri della precauzione, l’azione giudiziaria subisce la stessa torsione della cd. medicina difensiva, così che gli equilibri propri del processo, le garanzie e le esigenze stesse delle parti, di tutte le parti, soccombono a favore di nuovi inauditi paradigmi. La vittima stessa, divenuta vittima a prescindere dall’accertamento, viene ingabbiata a sua volta in un ruolo che la disumanizza. Insomma, si tratta di un rimedio dagli effetti collaterali sistemici che va senz’altro ripensato».

5) Nel discorso di apertura ai lavori del convegno, Lei ha affermato che il modello accusatorio del 1988 possedeva una indubbia originalità rispetto ai codici precedenti, perché “seppure frutto di una ibridazione, aveva una coerenza ideologica”. Premessa questa sua riflessione, ritiene quindi che il codice di rito, oggi, dopo le innumerevoli riforme che ha subito nel tempo, per l’avvicendarsi di forze governative con idee diverse e opposte sul bilanciamento tra le tutele da apprestare per rassicurare la collettività e il sistema di diritti e garanzie da preservare nel processo, abbia perso completamente quella coerenza ideologica? Quali sono le storture più evidenti e quali gli interventi che ritiene più urgenti?
«L’idea che identificava il processo nel dibattimento e il dibattimento nel contraddittorio aveva una potenza ideologica indubbia, ma che restava ancorato alla base culturale propria del sistema continentale di appartenenza. Si trattava di un modello di processo che certamente andava distinto da quello fondato sull’idea agonistica del contraddittorio, o peggio sul principio puramente eristico secondo il quale vince chi è più bravo e non chi ha ragione. Il nostro sistema era ibrido perché, rispetto al sistema di common law, non introduceva la giuria e il verdetto e restava legato al modello della decisione motivata, cui necessariamente faceva da corollario un sistema collaudato di impugnazioni. Insomma, non esistendo un sistema accusatorio puro, neppure nell’universo del common law, si trattava di fondare un modello necessariamente ibrido e dotato di una sua originalità. Ora si tratta invece di comprendere se al fallimento di quel modello hanno concorso solo cause esogene, o se vi fossero anche cause endogene che hanno contribuito alla degenerazione patologica e che vanno quindi individuate, comprese e immunizzate. Purtroppo sono i principi fondamentali del modello che sono stati messi in crisi, il contraddittorio nella formazione della prova, l’oralità, l’immediatezza. Si tratta di un indebolimento progressivo dovuto ad una errata lettura del principio funzionale della ragionevole durata, che da garanzia per l’imputato ha finito con il diventare un limite per le garanzie».

6) Il sistema penale è soggetto a frequenti torsioni illiberali. Davanti a riforme di stampo securitario, in buona parte dettate dalle spinte esercitate da un populismo giudiziario sempre più cieco e vendicativo, figurano segnali più rassicuranti, tra essi la riforma sulla separazione delle carriere. I tempi sembrano maturi per questo passaggio epocale che rappresenta una storica battaglia dell’Unione. Ritiene che la mancata riforma ordinamentale abbia rappresentato il vero vulnus del sistema accusatorio penale costruito con il codice del 1988 e che quindi la separazione delle carriere possa essere un viatico importante per portare nuovamente alla valorizzazione della dialettica processuale e per ricostruire nel tempo la figura di un giudice veramente terzo e imparziale?
«Da un lato, la visione efficientistica della giustizia ha certamente imposto al processo una serie di valori incompatibili con la sua matrice, dall’altro, tuttavia, bisogna riconoscere che la magistratura, in tutti i suoi livelli, ha continuato troppo spesso a guardare all’accusatorio con gli occhiali dell’inquisitorio. E poi c’è il profilo ordinamentale, quello della separazione delle carriere: la mancata realizzazione di un giudice terzo, denunciata dallo stesso Vassalli già nel 1988, ha sancito l’azzoppamento della riforma. L’assenza di un giudice arbitro, dotato di una vera cultura del limite e delle garanzie, soprattutto nella fase delle indagini, ha determinato il fallimento di tutti i cd. controlli giurisdizionali: durata delle indagini, autorizzazioni e proroghe delle intercettazioni, applicazione delle misure cautelari, incidenti probatori … Il nesso fra sistema ordinamentale e modello processuale è un dato innegabile. L’unicità delle carriere, così come sancito dall’ordinamento del guardasigilli Grandi del 1941, e ripreso dalla nostra Costituzione, resta evidentemente legato al modello inquisitorio. Se non si supera quel contesto culturale e ordinamentale il modello accusatorio resta purtroppo una bella idea senza le gambe sulle quali camminare».

7) Come sottolineato dal Prof. Giuseppe De Luca, che ha coordinato la pubblicazione degli atti del convegno del 1961, “sarà necessario sottoporre a verificazione razionale i nuovi risultati e saggiarne la validità al fuoco dell’esperienza”. Quanto le fonti sovranazionali e l’intelligenza artificiale possono aiutare questo necessario processo di cambiamento, piuttosto che renderlo più difficoltoso?
«Quello dell’esperienza è l’unico vantaggio che abbiamo rispetto ai giuristi che si riunirono a San Giorgio nel 1961. Sappiamo, per via dell’esperienza durata oltre trentacinque anni, quali sono i punti deboli del sistema, quali sono gli errori da non ripetere, e tuttavia, come sempre capita, nuove domande si affacciano all’orizzonte. E non sono domande per le quali abbiamo risposte pronte. L’impatto dell’intelligenza artificiale con il processo penale, con la prova, con la sua valutazione, con i giudizi predittivi, apre spazi di riflessione inesplorati nell’ambito dei quali l’esperienza ci aiuta poco. Credo ci attendano comunque cambiamenti epocali. Basti pensare come il processo telematico stia modificando i luoghi stessi nei quali la nostra professione si svolge e come stia cambiando il nostro modo di confrontarci con l’esperienza giudiziaria. Il processo modernamente inteso, come dispositivo razionale, nasce insieme alla polis e alla democrazia e non vi è dubbio che anche oggi la crisi del processo vada di pari passo con la crisi delle grandi democrazie occidentali. È sotto i nostri occhi come tutti i sistemi democratici siano messi in tensione da fenomeni come la globalizzazione digitale, la tecnocrazia e il populismo e come il conflitto fra poteri ne esca inevitabilmente radicalizzato. Credo che non vi siano né organizzazioni sovrastatali né dispositivi tecnologici che possano aiutarci in questo momento di transizione. Dobbiamo essere aperti al mondo, con una unica consapevolezza, che anche in un universo del tutto modificato, il nostro fine è costituito dalla difesa della libertà e dei diritti dell’uomo».   

8) Presidente Petrelli, nella sua introduzione ai lavori, Lei ha sottolineato che negare la civiltà al processo penale è negare la civiltà stessa ed ha parlato di disfunzionalità del sistema che è oggi, come allora, incapace di garantire il rispetto della dignità umana, sottolineando che etica e politica devono camminare insieme, perché gli interessi che ruotano intorno al processo penale devono ispirarsi ad una moralità necessaria. Viene alla mente il contrasto tra la posizione di Antigone e quella di Creonte nella celebre tragedia di Sofocle, ma anche il pensiero di Aristotele che nella sua l’Etica Nicomachea, definiva la giustizia una delle più importanti virtù etiche. Lo stesso Ministro di Grazia e Giustizia, Guido Gonella, nel convegno del 1961, metteva in guardia i partecipanti dal rischio della disumanizzazione del processo penale. La crisi etica che Lei individua come origine di questa caduta valoriale, alla base del dissolvimento dell’attuale modello accusatorio, non innerva, a suo parere, l’intera società attuale? Le chiedo, si può pensare ad una riforma strutturale per un ripristino del sistema accusatorio sganciato da un riassetto valoriale della nostra società?
«La crisi valoriale è quella che coincide anche con la fine delle ideologie, e che si riflette nell’ambito della giustizia penale con la fine dei principi di libertà e del garantismo come base del processo. Quando la speditezza del processo si sostituisce, come valore fondante, alla tutela della dignità della persona non vi è dubbio che il modello accusatorio, così come lo avevamo immaginato, entra in crisi.  Potremmo anche dire che la storia del processo è una storia della crisi del processo, ma credo che sia più corretto dire che ciò che caratterizza la vera storia del processo non è la sua “crisi”, che resta un fattore endemico permanente, ma sono i diversi modi in cui noi pensiamo di porvi rimedio. Lo scontro in atto è fra chi pensa di rispondere alle esigenze di giustizia valorizzando le pulsioni elementari del singolo, le spinte securitarie e le risposte consolatorie e chi invece immagina il processo come razionalizzazione e rielaborazione di quei sentimenti viscerali. Se è vero che corre un nesso imprescindibile fra lo sviluppo di questa più evoluta idea di processo e la conservazione dei sistemi democratici, diviene allora fondamentale riprendere le fila del discorso e cercare di ricucire lo strappo provocato dal populismo. Credo che sia questa una possibile via da percorrere, rimeditando sul fatto che nessuna collettività può crescere se non riconosce nel processo e nei suoi meccanismi elementari un valore condiviso. Penso ad esempio all’idea che la prova si formi nel processo e non nell’indagine, o alla presunzione di innocenza. Questo è un grande difficilissimo compito di rifondazione che spetta all’avvocatura all’interno della società, nelle scuole e nelle università…»   

 

Ringrazio il Presidente Francesco Petrelli per la disponibilità manifestata e per la generosa puntualità con cui ha risposto alle domande che ho elaborato sulla scorta di mie personali riflessioni circa le fondamenta ideologiche su cui edificare un nuovo codice accusatorio.

Conoscere la Sua visione sulle tematiche affrontate consente di mantenere vivo il dibattito sulle grandi battaglie di civiltà giuridica che ci impone questo nostro tempo.

 

*Avvocato, consigliere del Direttivo della Camera penale “A. Cantàfora” di Catanzaro e componente Osservatorio Europa dell’Unione Camere penali Italiane

 

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