di Alberto Gullino* –
La Magistratura vi si oppone, intanto, per il timore che la separazione delle carriere possa finire con il sottomettere il PM al potere esecutivo, ma – principalmente – perché essa impedirebbe un virtuoso travaso della “cultura della giurisdizione” dai magistrati giudicanti a quelli inquirenti.
- Il primo argomento, sinceramente, mi pare pretestuoso: non riesco a capire come la creazione di una carriera del PM separata da quella dei giudici, e, quindi con ordinamento, disciplina, e CSM autonomi, possa determinarne la sottoposizione all’esecutivo. Si tratterebbe di una mera duplicazione dei meccanismi di garanzia attualmente previsti indistintamente per la Magistratura nella sua interezza, e quindi della replica del modello attualmente vigente, concordemente ritenuto più che idoneo a garantire autonomia ed indipendenza delle toghe: non vedo perché un modello che garantisce (forse anche troppo !) autonomia e indipendenza a magistratura giudicante e magistratura inquirente, non dovrebbe invece funzionare se replicato per la sola magistratura inquirente.
- Il secondo argomento soffre, a mio avviso, di un vizio logico di fondo: quello di ritenere che la identità, rectius comunanza, delle carriere tra giudici e Pubblici Ministeri sia l’unico – o comunque il più efficace – strumento per infondere in questi ultimi la “cultura della giurisdizione”.
I termini della querelle sono noti: da coloro che l’avversano si sostiene che la separazione delle carriere farebbe venir meno la possibilità – oggi assicurata – di un virtuoso travaso della cultura della giurisdizione dal giudice al PM; per converso, dai suoi fautori si sostiene che essa scongiurerebbe l’effetto inverso – e perverso – di un travaso della “cultura dell’inquisizione” dal PM al giudice. E ci si affanna a citare, da una parte esempi di atti di pubblici ministeri connotati da una sensibilità ai temi della presunzione d’innocenza ed al favor rei, certamente frutto della cultura della giurisdizione, e dall’altra esempi (invero assai più numerosi) di provvedimenti giurisdizionali intrisi di cultura inquisitoria.
- L’errore prospettico di una simile impostazione del dibattito risiede, allora, nell’equazione “cultura della giurisdizione = unicità delle carriere”, nel senso che l’obiettivo (indubitabilmente virtuoso ed auspicabile) di un PM quanto più possibile dotato di cultura della giurisdizione sia raggiungibile solo a condizione che egli faccia parte della stessa carriera del giudice
L’argomento prova troppo, perché, già sul piano generale ed astratto, NON SPIEGA perché IL TRAVASO DOVREBBE VERIFICARSI SOLO IN UNA DIREZIONE: della cultura della giurisdizione dal giudice al PM, e non – anche, in direzione inversa – di quella dell’inquisizione dal PM al giudice.
- Ma, soprattutto, mi pare – in sé – profondamente erroneo l’assunto che la cultura della giurisdizione possa dipendere (per di più esclusivamente) dalla comunanza di carriera con il giudice: infatti, se cultura della giurisdizione vuol dire intima capacità di valutare i fatti con terzietà ed imparzialità, è di tutta evidenza che la comunanza di carriera, anzi, è in consustanziale contrasto con i concetti stessi di imparzialità e terzietà, perché su di essa si fonda lo spirito di “colleganza” che la connota e che, come si legge sul vocabolario della lingua italiana, vuol dire “Connessione, unione”.
Non è vero, dunque, che la cultura della giurisdizione possa essere assicurata dalla comune carriera. È vero – semmai – il contrario.
- Se a ciò si aggiunge che la comune carriera si pone in stridente contrasto con l’art. 111 della Cost., che prevede che il giusto processo si svolga tra parti in condizione di parità davanti ad un giudice terzo ed imparziale, non resta che concludere che la separazione delle carriere sia imposta dalla nostra legge fondamentale, oltre che dalla inconciliabilità tra i concetti di cultura della giurisdizione e comunanza (nel senso di colleganza) delle carriere.
Né coglie nel segno l’obiezione che il tema della terzietà ed imparzialità del giudice appartiene al processo, ma non alla disciplina ordinamentale, sicché non sarebbe lecito trarne argomento a favore della separazione delle carriere. È fin troppo chiaro, al contrario, che l’ordinamento giudiziario ha motivo di esistere solo ed in quanto diretto a regolamentare l’istituzione ed il funzionamento della magistratura al fine di consentire l’esercizio della giurisdizione: che, infatti, secondo il 1 comma dell’art. 111 della costituzione, “si attua mediante il giusto processo”.
Insomma, la funzione giurisdizionale, esercitata da magistrati istituiti e regolati dall’ordinamento giudiziario, viene esercitata attraverso il giusto processo. Con la conseguenza che è l’ordinamento giudiziario ad essere ancillare rispetto al processo, e a dover adeguarsi alle regole del giusto processo, non viceversa. Sicché, se il processo richiede un giudice terzo ed imparziale, è l’ordinamento giudiziario a dover subire le modifiche necessarie a garantire terzietà ed imparzialità, prima fra tutte la separazione delle carriere.
- Il punto dirimente, a mio avviso, è proprio questo: se cultura della giurisdizione vuol dire capacità di valutare il fatto, la prova, l’atto con terzietà ed imparzialità, sì da recte ius dicere, essa potrà anche essere favorita ed arricchita da un interscambio tra il ruolo di PM e quello di giudice, ma sempre a condizione che mai si verifichi la loro appartenenza contemporanea alla medesima carriera, cosa che costituisce – in sé – la negazione della giurisdizione.
Una volta stabilito, pertanto, che PM e giudici debbano avere carriere separate (nel senso di appartenenza ad ordini distinti, ciascuno con una propria autoregolamentazione ed autodisciplina, senza possibilità di reciproche interferenze), non vi sarebbe più motivo di non consentire il passaggio da una carriera all’altra: la separazione dovrebbe consistere non nel divieto di transito da un ruolo ad un altro, ma nel divieto di regolamentazione comune delle due carriere. Una volta assicurata una effettiva reciproca autonomia ed indipendenza dei giudici rispetto ai PM e viceversa, non vedo perché non potrebbe ammettersi che un PM, appartenente alla relativa carriera, regolamentata da un proprio organo di autogoverno, possa, ad un certo punto transitare in quella del giudice, a sua volta regolamentata da un proprio organo di autogoverno, o che un giudice possa transitare nei ruoli del PM.
Insomma, quando si parla di cultura della giurisdizione, non bisogna perdere di vista il primo di tali due termini: la cultura. Che è il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze acquisite tramite lo studio, l’impegno, la pratica quotidiana: tutte cose che nulla hanno a che vedere con una comunanza di carriera.
Non sarebbe, dunque l’unicità della carriera ad assicurare la cultura della giurisdizione nel PM, ma – ad esempio – la previsione di un periodo di tirocinio per il PM presso un giudice, e viceversa; la previsione di periodici e specifici corsi di formazione e aggiornamento sul tema; la possibilità di transitare da un ruolo ad un altro; la formazione comune con giudici ed avvocati.
Divieto non di transito, dunque, ma di coabitazione.
* Componente del direttivo della Camera Penale di Messina