di Stefania Mantelli*
Molti intellettuali e storici si sono occupati di analizzare e descrivere il divario tra il Nord e il Sud del nostro Paese, lo squilibrio economico, sociale e culturale dall’unità d’Italia in avanti, rappresentando un destino differente, per una stessa Nazione.
Un enorme contributo, in tal senso, è stato fornito anche dalla letteratura sul Mezzogiorno. Alcuni autori più di altri, e alcune loro opere in particolare, segnano un percorso importante per la comprensione dei fenomeni che si vogliono ricomprendere nella c.d. “questione meridionale”. Tra tutti, non può prescindersi da Ignazio Silone con “Fontamara” e la storia dei “cafoni”, i contadini senza speranza; Giovanni Verga con “I Malavoglia” e “Mastro Don Gesualdo”, ricompresi nell’incompiuto ciclo dei vinti; Carlo Levi con “Cristo si è fermato ad Eboli” che lo scrittore – confinato in Lucania dal fascismo – scriverà in chiave autobiografica, fornendo un affresco sulla tragica e povera vita contadina in quei luoghi magnifici; Corrado Alvaro con “Gente in Aspromonte” che narra della dura vita dei pastori, alternando un approccio moralistico ad una prosa pregna di lirismo.
L’elenco, se proseguisse, sarebbe assai lungo!
In questo filone, sebbene in una maniera diversa, possiamo inserire Saverio Strati, di cui quest’anno ricorre il centenario dalla nascita. Lo scrittore, nato a Sant’Agata del Bianco, il 16 agosto 1924, di famiglia povera, inizia a lavorare come contadino e poi operaio edile, dedicandosi solo successivamente a completare gli studi, grazie all’aiuto economico di uno zio emigrato in America. Nel ’53, durante la frequentazione della Facoltà di Lettere e Filosofia a Messina, consegna alcuni racconti al critico e docente universitario Giacomo Debenedetti e arriva così a pubblicare l’anno successivo il primo libro con Mondadori, una raccolta di dodici racconti, “La Marchesina”. Da lì inizierà la sua carriera di scrittore, con numerosi libri che lo porteranno a vincere vari premi letterari, tra cui il premio internazionale Vaillon nel 1960 e il Campiello nel 1977. Trascorre alcuni anni in Svizzera, perché tale era la nazionalità della moglie, per poi rientrare nuovamente in Toscana, stabilizzandosi a Scandicci.
Il suo meridionalismo è proprio di quelli che sono partiti per necessità, che hanno ottenuto una qualche forma di riscatto dalla povertà da cui provenivano, ma che mai hanno rinnegato le loro origini. E se Corrado Alvaro, Mario La Cava, Fortunato Seminara hanno rappresentato un Sud statico e dolente, afflitto da ataviche e arcaiche tradizioni, nonché dall’ignoranza, aderendo ad una visione fatalista e pessimista del Mezzogiorno, Strati condanna l’immobilismo della gente di Calabria del tempo e incoraggia – attraverso i suoi personaggi – al riscatto, cogliendo i segni del progresso e insinuando la speranza che un cambiamento sia possibile. Pur narrando storie di miseria, arretratezza culturale, povertà e sfruttamento, davanti alle umiliazioni egli mette anche le speranze, governato dal “pessimismo della ragione, ma anche dall’ottimismo della volontà”. I personaggi dei suoi libri sono inizialmente braccianti e pastori, che tentano di lottare per una emancipazione alla quale, per le troppe avversità della vita, spesso rinunceranno. Tuttavia, nel seguito della produzione letteraria, queste figure lasceranno lo spazio all’operaio intellettuale che si ribella e cerca di cambiare il suo destino. L’autore, infatti, avanza nel suo percorso di scrittore osservando la realtà in movimento, in una chiave neorealista.
Se nella raccolta La Marchesina i racconti sono ambientati nel mondo contadino, dove la classe dei nobili rappresenta nell’immaginario l’unico benessere possibile, quale alternativa alla fatica di badare agli animali e alla terra, in una realtà di arretratezza, dove si inizia a comprendere che l’istruzione può rappresentare un mezzo per vincere le ingiustizie sociali, con l’antologia Gente in viaggio prende l’avvio il tema del viaggio, per evadere, conoscere la città, il progresso per poi scoprirne le distorsioni, le superficialità, la corruzione che fanno riemergere l’autenticità delle origini. Esce, così, fuori anche il tema dell’emigrazione, come possibilità di riscatto ed emancipazione, trattata mirabilmente in molti suoi libri, da attento osservatore e protagonista allo stesso tempo di questo strappo dalla propria terra. Strati, in questa fase, sembra interessato soprattutto agli aspetti antropologici della cultura e della società calabrese, responsabili di una certa concezione della vita. Il suo realismo, infatti, riesce a cogliere lo stretto legame tra la cultura popolare e gli aspetti sociologici e storici della nostra regione. Nella sua produzione letteraria affronta, quindi, il tema dell’emigrazione, sia quella della prima parte del Novecento, determinata dalla voglia di riscatto, per cui l’America era vista come la meta da prediligere, sia quella successiva al ventennio fascista, quale fuga verso le nazioni più ricche soprattutto in Europa, toccando, con ancora maggior dolore, quella interna verso le zone più industrializzate del Paese che, rappresentando una Italia che procede a due velocità, lascia emergere la sofferenza per la scelta di lasciare indietro il Meridione, con la conseguenza di strappare le nuove generazioni alla loro terra e alle loro famiglie.
Insomma, Strati esprime una narrativa impegnata, attenta al sociale, volta alla gente comune che è portatrice e destinataria del messaggio che l’autore vuole veicolare al lettore.
Tenerissimo Tibi e Tascia, storia di due bambini, nel Mezzogiorno degli anni ’30, calati in un’atmosfera di innocenza e giocosità, sebbene vivano l’infanzia in un contesto miserabile e povero. Tibi riuscirà, seppur con la pena del distacco, ad emanciparsi da tanto dolore e partirà per una vita migliore; Tàscia rimarrà in una realtà di fatica e ignoranza, emblematica della sua condizione di donna nel primo dopoguerra.
In a Mani vuote, il sogno del Nuovo Mondo, tanto agognato da Emilio, il protagonista, per sfuggire all’impoverimento della famiglia, a causa della morte del padre, e ad una madre autoritaria che preferisce sfacciatamente l’altro figlio, si delinea una narrazione che analizza i rapporti familiari e sociali. La vita sperata non lo renderà felice, troppi i disagi legati all’integrazione e alle difficoltà di apprendere una nuova lingua, per cui riapparirà, dimentico delle sofferenze che lo hanno portato ad emigrare, la nostalgia del rientro in Italia. In questo romanzo, come ne La Teda (dal nome della torcia di resina con cui si faceva luce nei tuguri dove uomini e animali vivevano insieme), ambientata nel degrado di un paesino dell’Aspromonte, compaiono i fenomeni criminali rappresentati da briganti e carbonai, ma anche da consorterie mafiose. Il romanzo La Teda verrà segnalato a Mondadori da Elio Vittorini e da esso sarà tratto il film per il cinema “Terrarossa” di Giorgio Molteni. Entrambi i libri saranno tradotti in America, dopo critiche entusiasmanti.
Inizia la fase, nella sua narrativa, in cui il mondo operaio prende il ruolo che prima apparteneva a quello contadino, delineandosi via via una sorta di coscienza di classe di questa categoria che cerca di opporre resistenza alle ambizioni della borghesia e all’arrivismo di una classe politica senza scrupoli. Con Il Nodo, lo scrittore accantona l’impegno sociale e si cimenta con il disagio psicologico del protagonista che vive le problematiche dell’Italia industriale degli anni ’60. Rimangono le ferree strutture sociali tipiche del sud nelle dinamiche dei rapporti familiari, ma il protagonista questa volta è uno studente fuori sede, con i suoi tormenti e le insicurezze. Saverio Strati, in questo libro, mette da parte la tecnica del racconto e sceglie il monologo interiore, come espressione di un flusso di coscienza, rappresentato dalla libera manifestazione dei pensieri del protagonista, così come gli compaiono nella mente procedendo nel suo percorso di vita, in relazione al mondo che lo circonda.
Con Noi Lazzaroni, romanzo sociale di denuncia, l’autore torna ad interessarsi delle condizioni di vita nel sud, con una scrittura che mette l’accento sulla povertà, le angherie e le umiliazioni dove risultano centrali il tema dell’emigrazione e del razzismo. L’autore attraverso i suoi personaggi invoca una presa di coscienza e un maggiore senso di responsabilità della classe operaia, scegliendo di rappresentare il lavoro non più solo come forma di sfruttamento, ma come una scelta nobile compiuta dall’emigrante, che lo emancipa e lo riscatta. Tale scelta narrativa prosegue con È Il Nostro Turno, laddove lo scrittore spinge ad una rivolta morale per innescare il cambiamento con l’obiettivo di vincere il disfattismo e l’arretratezza in cui è lasciata la Calabria.
Arriviamo così al suo libro più celebre, Il Selvaggio di Santa Venere, con cui Strati vince il Campiello nel 1977. Tre uomini al centro della storia: Mico, Leo e Dominic; tre diverse generazioni divise tra la rassegnazione e la voglia di andar via, tra onestà e fascino per la ‘ndrina, con le sue regole e la sua struttura tentacolare. Emerge il fenomeno del clientelismo e con esso la possibilità per le cosche di accrescere il loro potere. Leo ne è inizialmente affascinato, ma poi riesce a sottrarsene, decidendo di andare via. Parte per il servizio di leva e partecipa alla seconda guerra mondiale, acquisisce conoscenza ed esperienza e rientra in Calabria con l’idea di svecchiare le tecniche agricole adottate fino a quel momento, nel tentativo di conciliare una visione patriarcale del lavoro della terra, con un approccio più concreto alla realtà. Il suo progetto, nel tempo, incontrerà un ostacolo nella decisione del figlio Dominic di lasciare la Calabria, in cerca di fortuna, verso una realtà meno ostile.
Saverio Strati, in questa fase del suo percorso, vede il lavoro come un mezzo di emancipazione, ma rappresenta l’emigrazione come qualcosa che impoverisce di risorse e di menti il mezzogiorno di Italia.
Con il romanzo Il Diavolaro assistiamo all’ascesa sociale di Santo che nasce spaccapietre e scalpellino e arriva a diventare il ras del paese. Riesce nelle sue ambizioni ma, ad un certo punto, alle logiche del lavoro preferisce i risultati ottenuti con la disonestà, la furbizia e la prepotenza, vivendo comunque un momento di ravvedimento quando comprenderà che la scalata sociale così ottenuta, sia da lui che da tanti altri, nelle stesse condizioni, rappresenta una sconfitta per il meridione. Si ritroverà, peraltro, in una situazione di povertà affettiva e umana, tanto nei legami familiari che nelle relazioni sociali. È la parabola di una visione individualistica dell’esistenza che non bada al progresso della collettività ed, in questo senso, assai d’effetto è l’immagine finale, dinnanzi al palazzo illuminato che domina su un paese povero e spopolato, espressione di ricchezza materiale, ma anche di pochezza umana, metafora, quindi, di un Sud sempre più desolato che non ha la forza di rialzarsi. Si evidenziano, in questo romanzo, molte affinità con il Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga.
La crisi della realtà meridionale emerge dolorosa anche nel romanzo La Conca Degli Aranci che, attraverso la storia di una famiglia di proprietari terrieri da generazioni, dipinge una fase cruciale della storia del meridione, quella dell’abbandono delle campagne, del saccheggio del territorio dovuto ad un progresso irrispettoso di una cultura secolare e dei metodi tradizionali di produzione, dell’imporsi del consumismo e dello sfruttamento delle risorse naturali da parte di una certa politica. Si assiste, pertanto, al passaggio del potere economico ad una nuova classe sociale, che diventa quella dei nuovi ricchi, ubicata nelle città.
Saverio Strati è stato il testimone della storia della Calabria del ‘900. Attraverso il suo sguardo attento ha messo a fuoco i bisogni della gente e le ferite più profonde della nostra terra per cui chi vuole conoscere o tentare di comprendere le condizioni di vita nella Calabria di quell’epoca, la povertà, l’umiliazione, i tormenti, le aspirazioni, la voglia di riscatto, che rappresentano il tratto psicologico dei calabresi e ne determinano le dinamiche sociali, può affidarsi alla sua penna. Molti suoi romanzi sono stati tradotti in inglese, francese, tedesco, spagnolo, slovacco e bulgaro, così come molti suoi racconti sono apparsi in riviste cinesi e antologie di narrativa contemporanea anche in Olanda, Germania e Cecoslovacchia. Leggerlo, non vuol dire solo comprendere meglio il ‘900 in Calabria, ma anche entrare nella materia viva del carattere del popolo calabrese e capire da dove originano le complessità economico-sociali e le ataviche problematiche geografiche dei vari territori.
La nostra rivista ha voluto ricordarlo e omaggiarlo, in vista del suo centenario che si celebrerà in agosto, evidenziandone l’insostituibile e preziosa opera di narratore e conoscitore della Calabria e della sua gente.
*Componente del direttivo della Camera Penale “Alfredo Cantàfora” di Catanzaro