APPUNTI PER UNA VOCE SULLA LEGITTIMA DIFESA.

 

di Fabrizio Cosentino*

1. L’istituto della legittima difesa è contemplato all’art. 52 del codice penale, che nella formulazione originaria recita: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”.

Preservare sé stessi o il prossimo, da un pericolo concreto (non paventato) e presente, mantenendo un principio di proporzione tra offesa e reazione difensiva o interruttiva: questi sono i principi cardine che regolano l’ermeneutica di quella che viene considerata dalla dottrina giuridica penalistica una causa di giustificazione, scriminante o esimente, che conduce a non applicare la norma punitiva, rispetto ad un fatto che in altre condizioni, sarebbe normalmente da considerare reato.

          

2. L’istituto era già apparso nel codice penale sabaudo del 1859 agli artt. 559, 560 e 563. In particolare, l’art. 559 del codice penale sardo stabiliva che “non vi è reato quando l’omicidio, le ferite o le percosse sono comandate dalla necessità attuale di legittima difesa di sé stesso o di altri, od anche del pericolo in atto di violento attentato” e all’art. 560 si precisava che “sono compresi nei casi di necessità attuale di legittima difesa i due seguenti: 1) se l’omicidio, le ferite, le percosse abbiano avuto luogo nell’atto di respingere di notte tempo la scalata, la rottura di recinti, di muri, o di porte d’entrata in casa o nell’appartamento abitato o nelle loro dipendenze; 2) se hanno avuto luogo nell’atto della difesa contro gli autori di furti o di saccheggio compiuti con violenza verso le persone”.

Francesco Carrara, nel suo Programma del Corso del Diritto Criminale dato alle stampe a beneficio dei propri «scolari» il 10 dicembre 1859, nel discutere intorno alla «coazione», dettava i cardini della «necessaria difesa», ponendo a fondamento di fatto dell’istituto «il timore», di un male non ancora patito[1], e sotto l’aspetto giuridico la cessazione del diritto di punire nella società (e non già che la società eserciti il diritto di punire per delega del privato).

Scriveva Carrara: “con l’imporre che l’innocente si lasci uccidere, si imporrebbe un disordine, e si andrebbe così a ritroso della legge di natura che è la unica base del giure penale umano. Che se vi è disordine anche nella strage di un altro innocente (come, per esempio, avviene quando l’aggressore che si uccise era un pazzo) la parità dei disordini toglie sempre il diritto di punire, facendone cessare la causa”.

Nell’opinione di Carrara chi difende la propria vita o l’altrui dal pericolo di un male ingiusto, grave e non altrimenti evitabile, che minaccia la persona, esercita un “vero e sacro” diritto, anzi un vero e sacro “dovere”, perché tale è quello della conservazione della propria persona.  

La nozione di legittima difesa verrà poi introdotta stabilmente nel codice Zanardelli del 1889 agli artt. 49 e 50, distinguendo due casi: la necessità di “respingere” da sé o da altri una violenza attuale e ingiusta; la necessità di salvare sé o altri da un pericolo grave e imminente alla persona, senza avervi dato consapevolmente causa, e che non si poteva altrimenti evitare (commodus discessus).

 

3. Il codice penale del 1930 provvederà a riformulare radicalmente la previsione di legge.

Dai lavori preparatori al codice penale emanato sotto il fascismo, emerge una sostanziale avversione alle novità introdotte dal c.d. codice Rocco.

In particolare, era opinione della suprema magistratura, in un’ottica di adesione – con spiacevole espressione di piaggeria – alla “nuova concezione statale del Fascismo” come negazione del contratto sociale (ovvero, in senso autoritario), che la legittima difesa meritasse di essere confinata nell’ambito della difesa personale e non di qualsiasi altro diritto.

Le Corti di appello intervenute sul tema mostrarono forte preoccupazione per la «inopinata» estensione della legittima difesa ai diritti di proprietà, ritenendo “troppo lata e pericolosa la tutela accordata per la difesa di qualunque diritto” (così, ad es., si esprimeva la  Corte d’Appello di Messina). La Corte d’Appello di Napoli annotava la preoccupazione per il prospettato allargamento, laddove “rimanesse in vita il giurì, notoriamente proclive ad accedere alla richiesta di detta scriminante” (Ibid., 399). Anche la Procura Generale di Palermo, si era opposta all’innovazione, richiamando l’attenzione sulla necessità di mantenere limiti alla «incolpata tutela»: “la legittimità dell’azione, che può condurre anche alla uccisione del proprio simile, non può essere conceduta, se non quando vi sia una violenza, non il pericolo di una offesa contro cui si reagisce”.

Non dissimile l’atteggiamento delle Università, mentre più aperte al dialogo appaiono le posizioni assunte dagli ordini degli Avvocati. Mentre le Commissioni Reali degli Avvocati e Procuratori di Bologna, di Genova, Trieste, Udine, Pisa e Palermo manifestavano il medesimo scetticismo, per una formula legislativa che allargava il campo fino a comprendere la difesa dei diritti di proprietà, e così anche il Sindacato degli Avvocati e Procuratori di Cagliari e Lanusei, non mancarono le adesioni al progetto innovativo. Gli avvocati di Milano, ad es., consideravano “ottimo l’art. 54, che precisa il concetto della legittima difesa e costituisce un encomiabile miglioramento in confronto alla formulazione dello stesso concetto nell’art. 49, n. 2 codice vigente”. Anche per gli avvocati di Venezia, l’estensione della legittima difesa a qualsiasi diritto, “benché osteggiata dalla Corte suprema, ci sembra approvabile: la Corte si preoccupa che l’art.54 allarghi eccessivamente i confini della difesa privata, mentre questa dovrebbe essere circoscritta al caso di attacco alla persona. È strano l’appunto della Corte Suprema che, pur vigendo l’articolo 49 attuale, aveva molte volte fatto applicazione della massima di diritto comune qui continuat non attentat la quale evidentemente è di una portata molto più ampia di quella vim vi repellere licet”.

In Commissione, emersero le medesime preoccupazioni sull’eccessivo allargamento dello spazio concesso alla difesa privata, inteso come una concessione al lassismo. Nel verbale del 16 marzo 1928, il commissario Gregoraci sintetizza e ribadisce la critica: “la cosa è tanto più pericolosa, in quanto, non solo i giurati ma la stessa magistratura, è già oggi troppo proclive ad ammetterla”. Era però di contrario avviso il pur schierato Manzini, per il quale, “dato specialmente lo spirito dello Stato fascista” la forza privata doveva riappropriarsi dei propri spazi, posti in pericolo dalle tesi contrarie, dipendenti da una perniciosa “filo-criminalità” (Ibid., volume IV, parte III, 162ss.).

Nella Relazione sul libro primo del progetto il Guardasigilli Alfredo Rocco ricordava tuttavia che “il presupposto immancabile dell’istituto è dato dal rapporto di necessità, che deve interferire tra l’azione e la reazione. Tale presupposto si trova scolpito nell’esplicito richiamo all’attualità del pericolo”. A sua volta S. E. Appiani, presidente della commissione ministeriale, faceva presente come la nuova formulazione della norma sulla legittima difesa riflettesse i principi accolti nella conferenza di Varsavia dei rappresentanti delle Commissioni di codificazione penale, sulla generale tendenza ad estendere la difesa a tutti i diritti, quindi anche in difesa della proprietà, sulla linea del brocardo feci, sed iure feci, laddove l’azione di difesa avvenga “nel momento della spogliazione del diritto”, distinguendo così il caso della legittima difesa da quello dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (Ibid., vol. VI, parte I, 58-59).

Certo, appare non privo dei connotati del paradosso il fatto che l’innovazione codicistica proposta da un riformatore molto attento ai valori espressi dal fascismo come Alfredo Rocco, venisse criticata «da destra», ovvero da orientamenti dottrinari e da posizioni giurisprudenziali che ritenevano non conforme alla nuova concezione dello Stato, il concedere maggior spazio di autonomia alla difesa privata, paventando che con questo potesse mettersi in crisi l’idea di uno Stato possente e autoritario, in grado di assicurare l’ordine ovunque, idea che nel 1928/29 – epoca dei lavori – mostra già di essere perfettamente assimilata negli ambienti giuridici.

Così come, in direzione opposta, di recente, le forze politiche maggiormente conservatrici – con interventi normativi da taluno definiti come espressione di “populismo penale” – hanno fatto pressione perché venisse ancor più esteso il campo d’azione della legittima difesa, arrivando a prevedere con legge 13 febbraio 2006, n. 59 e poi con legge 26 aprile 2019, n. 36, a determinate condizioni, una presunzione assoluta di proporzione fra difesa e offesa, nei casi di violazione del domicilio o di intrusione nei luoghi di lavoro commerciale, professionale o imprenditoriale, autorizzando in questi casi l’uso delle armi e il ferimento, se non anche l’uccisione, dell’aggressore.

        

4. Sul piano filosofico, non si registrano riflessioni discordanti e la legittima difesa sembra data per scontata, senza bisogno di particolari giustificazioni.

Generalmente la difesa legittima viene giustificata con il richiamo al diritto naturale (così anche S. Tommaso, nella Summa theologiae) e al già menzionato, noto brocardo vim vi repellere licet.

 Solo Kant nella Metafisica dei costumi sembra distinguere ed isolare l’ipotesi della reazione contro un ingiusto aggressore (ius inculpatae tutelae), nel qual caso la raccomandazione di moderazione (moderamen) non apparterrebbe nemmeno al diritto, bensì all’etica, dalla circostanza di chi, per salvare la propria vita, trovandosi con un altro in eguale condizione di pericolo, sceglie di salvare la propria a danno di (e non) quella altrui, giustificando tale agire con lo stato di necessità. Per la cronaca, la dottrina di Kant, cui è attribuito il motto “la necessità non ha legge” incontrò la forte critica della Cassazione del Regno, consultata nei lavori preliminari al codice Rocco (“frase terribile, sotto il manto della quale venne scatenato il conflitto mondiale”, in Lavori Preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, vol. III, parte I, sub art. 54, pag. 395).

Gian Domenico Romagnosi, nel suo Genesi del diritto penale, apre la riflessione proprio con il «diritto di difesa», intesa come conseguenza del generale diritto di conservazione dell’eguaglianza e come rimozione da sé di qualunque attuale, o imminente, o certamente futura offesa. Anche in questo caso il diritto di difesa va a confondersi con lo stato di necessità, pur se si discute di «necessità, nata dal fatto nocivo» altrui. Romagnosi si preoccupa naturalmente di distinguere la reazione contro la minaccia di un male ingiusto dall’agire per vendetta: la vendetta non produce né la correzione del malvagio offensore, né la sicurezza dell’offeso, e nemmeno può rappresentare un freno per limitare l’agire di “ogn’altro individuo, a cui nascesse voglia di offendere il suo simile” – aggiungendo – “Questo non è ancor tutto. Il delinquente inasprito dalla vendetta, più ferocemente di prima ritornerebbe a caricar l’offeso, ed alle prime violenze, de insulti ne farebbe succedere de’ vieppiù atroci, colla morte sovente del vendicatore senza che a ciò possa ripararsi” (§ 182). Conseguentemente, la persona offesa non ha diritto di arrecare un male all’offensore dopo il delitto consumato, mentre si avrà sempre diritto di respingere l’attentato, in tal caso “se dunque la morte dell’offensore fosse necessaria per la conservazione della mia libertà, e dominio tal morte sarebbe giusta” (§ 158). Il diritto di difesa viene ricollegato al diritto di conservazione della vita, e del ben-essere, “occasionato da un fatto nocivo” (§ 49).

Romagnosi propone un interessante caso, per giustificare la reazione dell’offeso anche in presenza di un «male» indiretto, pur sempre occasionato dall’ingiuria altrui: “quella porzione di male che sopravviene all’offeso non recata dalle mani dell’ingiuriante, ma derivante da una serie di combinazioni naturali”. Se taluno viene ingiustamente impedito di uscire da una casa «che sta per rovinare», si giustifica la reazione contro l’offensore: “quantunque la rovina, e la morte che mi sovrastano non siano direttamente, ed unicamente cagionate da lui, perché precisamente egli non fa che trattenere, ed offendere che la sola mia libertà, pure la necessità di ucciderlo, o almeno di abbatterlo, affine di sottrarmi dall’essere schiacciato dalle rovine…sarà un vero, e natural effetto dell’ingiusta offesa ch’egli reca alla mia libertà” (§  47).

 

5. La legittima difesa è trattata dal Catechismo della Chiesa Cattolica, attraverso richiami alla dottrina di S. Tommaso (§§ 2263 a 2265). Il concetto di base è che nel difendere la propria vita, agendo con moderazione, non si compie atto illecito e “l’amore per sé stessi resta un principio fondamentale della moralità”. La reazione alle azioni delittuose sarebbe poi un dovere, per chi è responsabile della vita degli altri, e la difesa del bene comune giustifica l’uso delle armi da parte dei legittimi detentori dell’autorità, per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alle loro responsabilità. Come ciò si accordi con i criteri ispiratori delle prime comunità cristiane, votate al martirio e alla non violenza, e all’insegnamento evangelico originario non è affatto chiaro.

 Il diritto canonico ha sempre riconosciuto tra le cause diminuenti la legittima difesa (moderamen inculpatae tutelae), distinguendo due ipotesi, quella con il debitum moderamen, da quello senza: il primo considerato causa esimente, il secondo semplice motivo diminuente dell’imputabilità (canone 2205 § 4).

Nella nuova versione delle regole dettate sotto il pontificato di Francesco Bergoglio, con la riforma del titolo sesto, è prevista l’esenzione di pena per chi “4º agì costretto da timore grave, anche se solo relativamente tale, o per necessità o per grave incomodo, a meno che tuttavia l’atto non fosse intrinsecamente cattivo o tornasse a danno delle anime; 5º agì per legittima difesa contro un ingiusto aggressore suo o di terzi, con la debita moderazione (…) 7º senza sua colpa credette esserci alcuna delle circostanze di cui ai nn. 4 o 5”.

In caso contrario, la pena può essere mitigata o sostituita con una penitenza (cfr. canoni 1323 e 1324).

        

6. È stato evidenziato come la legittima difesa concreti una forma di autotutela concessa dallo Stato al privato per le ipotesi in cui il suo intervento non potrebbe essere tempestivo; si tratta di un istituto di difesa diretta, attraverso il quale viene autorizzato un comportamento nocivo per l’aggressore, in presenza di determinate condizioni (così Carlo Federico Grosso, voce Legittima difesa (dir. pen.) in Enc. del Diritto, vol. XXIV). Il principale accento è posto sulla inevitabilità e gravità del pericolo e sul rapporto di proporzione tra minaccia e difesa.

Non dissimili considerazioni sono presenti nello stile giuridico anglosassone, laddove la Self Defense, riconosciuta dal case law e dalle norme statutarie, si caratterizza per la relazione di proporzione tra l’uso della forza e il danno da evitare, nel ragionevole giudizio sulla necessità di ricorrere alla forza, nella indefettibile caratteristica di imminenza dell’attacco violento altrui (cfr. LaFave e Scott jr, Criminal Law, Justification and excuse, West Publishing Co., 1986).

Secondo il Model Penal Code nordamericano, si giustifica l’uso della forza contro un aggressore quando e nella misura in cui appare ed è ragionevole ritenere che “such conduct is necessary to defend himself or another against such aggressor’s imminent use of unlawful force”. Le condizioni sono l’immediatezza del pericolo e la necessità dell’uso della forza per evitare il pericolo di un’ingiusta lesione corporea (§ 3.04). La violenza o la minaccia è consentita anche laddove si tratti di difendere un terzo (§ 3.05).

Il caso che ha fatto più discutere giuristi e opinionisti americani è il «caso Goetz», che ha ispirato anche una dotta cinematografia. Ne ha trattato magistralmente George P. Fletcher, in A Crime of Self-Defense (nella traduzione italiana, Eccesso di difesa, edito da Giuffré per i tipi della collana Giuristi stranieri di oggi, Milano, 1995). Il 22 dicembre 1984 Bernhard Goetz, un comune cittadino americano, avvicinato da quattro giovani negri in un vagone della metropolitana di New York, afferra improvvisamente la propria pistola, detenuta clandestinamente, e distribuisce freddamente un colpo per ognuno dei ragazzi. La giuria non esitò a considerare l’agire di Goetz ragionevolmente scriminato dall’esercizio della legittima difesa, fondata sulla paura di una aggressione. L’imputato ricevette una blanda condanna per il solo possesso di un’arma non registrata. La sostanziale assoluzione del «bianco americano» fece scalpore. Non si può escludere che il caso torni a presentarsi, ora anche in ambienti lontani dal liberismo americano in materia di possesso di armi da fuoco.

* Magistrato, Consigliere della Corte d’Appello di Catanzaro

 

[1] Carrara parla di «timore» e non di paura: la distinzione non è di poco conto. Niccolò Tommaseo, contemporaneo del giurista pisano, nel suo Nuovo Dizionario dei Sinonimi della Lingua Italiana (1830), nell’indagare il concetto, specifica che il timore è meno della paura, che invece è irrazionale e «assale» i sensi: “la paura viene da amore della propria conservazione, che spesso è soverchio; onde spesso la paura è vile. S’ha paura per sé, si teme anche per gli altri”. Il timore invece può essere ragionevole, se irragionevole diventa panico.

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