CONSIDERAZIONI SUL MERITO PRELIMINARE

   

di Antonio Baudi – 

1.La riforma Cartabia sul processo penale ha inteso ridurre i tempi di durata del processo penale, senza rinunciare a fondamentali garanzie, e, allo scopo di alleggerire il carico del giudizio penale, ha individuato possibili alternative al processo e alla pena carceraria. All’uopo ha inciso non solo sulle norme del processo penale, ma anche mediante interventi sul sistema penale, come quelli relativi:
– alla non punibilità per particolare tenuità del fatto;
– alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato:
– alle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale;
– e, alla fine, anche mediante le previsioni in tema di giustizia riparativa. 

Nello specifico, per quel che in questa sede interessa, la riforma Cartabia, nel rispetto delle direttive contenute nella legge delega n. 134/2021 per le modifiche al codice di procedura penale, ha generalizzato il controllo giurisdizionale sulla richiesta di rinvio a giudizio in una evidente ottica di deflazione del dibattimento.
Al fine di rendere operativo il controllo in limine di fondatezza dell’accusa è stata istituzionalizzata, in aggiunta alla celebrazione dell’udienza preliminare, la c.d. udienza filtro, nella prassi identificata con la celebrazione della prima udienza dinanzi al giudice monocratico.

La struttura di tale nuova udienza è disciplinata dai quattro articoli inseriti nel codice di procedura penale dopo il disposto dell’art. 554, ad iniziare dal fondamentale disposto dell’art. 554-bis che, sulla base delle prescrizioni statuite dagli artt. 550. (casi di citazione diretta a giudizio), 552 (decreto di citazione a giudizio) e 553 (trasmissione degli atti al giudice dell’udienza di comparizione predibattimentale), regola l’andamento di siffatta udienza.

Nel contempo è stato riformato in maniera omogenea il criterio di giudizio, imperniato ora sulla formulazione della “ragionevole previsione di condanna” in funzione del quale sono stati riformulati:
– l’art. 408, co. 1, c.p.p. in tema di richiesta di archiviazione;
– l’art. 425, co. 3, c.p.p. per l’udienza preliminare;
– l’art. 544-ter, co. 1, c.p.p., ove la norma è stata trasposta anche nella nuova udienza predibattimentale;
– ed è stato nel contempo abrogato l’art. 125 disp. att. c.p.p. ormai inutile.

  1. Per il vero il tema del controllo sull’esercizio dell’azione penale è antico e ricorrente.

Sin dal varo del nuovo codice di procedura l’introduzione dell’udienza preliminare ha costituito uno degli snodi fondamentali da cui sarebbe dipeso il funzionamento efficiente della nuova procedura. Occorre ribadire, in questa sede, che si tratta di scopo immanente nel sistema, ben chiaro sin dal tempo della vigenza della riforma del rito penale, cioè sin dal 1989.
La realtà è stata ben diversa e, tolti i casi di scelta da parte dell’imputato dei riti alternativi, la funzione di filtro che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe dovuto svolgere ha eluso lo scopo.

In linea generale, quanto ai riti alternativi, il valore dell’accusatorietà, perseguito nella disciplina del giudizio dibattimentale, avrebbe dovuto essere contenuto al massimo perché costoso e tematicamente complesso, privilegiando il legislatore le soluzioni alternative incentivate da regole premiali.
Quanto poi al filtro sull’esercizio dell’azione penale, pur limitato ai processi di competenza del G.u.p., è un dato ormai evidente che lo scopo sia fallito e che tale risultato, circa il mancato funzionamento del filtro sull’esercizio dell’azione penale, integri una delle cause preminenti  dell’attuale lentezza della giustizia penale.

La riforma Cartabia, come notato, ha generalizzato la funzione di verifica del controllo preliminare sull’esercizio dell’azione penale al dichiarato scopo economico e deflattivo.
Il rilievo è concorde: sono trascorsi (ben) trentaquattro anni ed il legislatore si è accorto (finalmente) della eccessività del carico processuale dibattimentale e della (oggettivamente tardiva) esigenza di porvi rimedio.
Ma, a mio avviso, la responsabilità, più che del legislatore, è degli orientamenti, teorico e giurisprudenziali, che sono maturati nel tempo.

  1. Per una utile comprensione della evoluzione in materia, normativa e giurisprudenziale, nonché della reale esigenza culturale sottostante, sovviene una decisione dello scrivente, adottata ai primordi della riforma.

Si tratta del testo della sentenza deliberata il 6 novembre 1990, in sede di udienza preliminare e nel periodo di regime transitorio a seguito della innovativa vigenza del codice di procedura penale.

Si tratta di una sentenza di non luogo a procedere in tema di giudizio di bilanciamento tra circostanze che, in applicazione del disposto, all’epoca nel testo vigente, di cui all’art. 425 c.p.p., è stato riconosciuto ammissibile ai fini della rilevazione di causa estintiva del reato preclusiva del rinvio a giudizio.

Se ne riporta di seguito il testo (all’epoca pubblicato sulla rivista “La giustizia penale”, 1991, III, 38 ss).
Questa, la massima estratta: “Rientra nei poteri della giurisdizione preliminare di riconoscere la sussistenza di circostanze attenuanti e di operare il giudizio di bilanciamento con le contestate aggravanti ai fini della declaratoria di una causa estintiva del reato”. (Nella specie, è stata dichiarata la prescrizione previa dichiarazione di equivalenza tra le concesse attenuanti generiche e le contestate aggravanti).

Di seguito una sintesi dello svolgimento del processo:
In assenza di atti istruttori di particolare valenza, il processo in esame, già pendente in istruzione formale, è stato trasmesso al Procuratore della Repubblica in sede ai sensi degli artt. 242 e 258 disp. trans. del nuovo codice. Su richiesta depositata in questo ufficio in data 8 gennaio 1990 veniva fissata udienza preliminare e, all’esito della discussione veniva sollevata questione dii legittimità costituzionale dell’art. 425 C.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione. Era evidenziata, infatti, ingiustificata parità di trattamento, oltre che preclusione di esigenze difensive, nell’ambito delle disposizioni transitorie, tra i procedimenti proseguenti con le vecchie norme e quelli sottoposti invece al nuovo rito. La regola di rinvio a giudizio del sopravvissuto organo istruttorio era ispirata alla esigenza di economia processuale, in termini di prognosi colpevolistica.
L’art. 256 disp. trans. prevede espressamente il rinvio a giudizio soltanto quando «gli elementi di prova raccolti siano sufficienti a determinare, all’esito della istruttoria dibattimentale, la condanna dell’imputato ed è consentito al Giudice (art. 257 disp. trans.) di “tenere conto delle diminuzioni di pena derivanti da circostanze attenuanti e applicare le disposizioni dell’art. 69 del Codice Penale”, “ai fini della pronuncia delle sentenze istruttorie di proscioglimento ovvero di quelle previste dall’art. 421 del codice abrogato”.
Pari esigenza deflattiva, che pur dichiaratamente ispira il nuovo rito, non è sembrata adeguatamente assicurata dalle regole di giudizio fissate per la definizione della udienza preliminare.
La questione esposta è stata dichiarata non fondata con sentenza n. 431 del 24 settembre 1990. È stata, così, rifissata l’udienza, in esito alla quale il P.M. ha richiesto la emissione del decreto che dispone il giudizio mentre la difesa ha insistito nella richiesta di non luogo a procedere”.

Si riportano quindi i motivi della decisione.
“L’accusa si fonda: sull’esame della domanda di concessione di prestito agrario, a firma dell’imputato; sulla documentazione bancaria a corredo della denuncia; sugli accertamenti documentati nei verbali dell’Ufficiale Giudiziario addetto alla Pretura di Pizzo in data 14 febbraio 1984 e 14 febbraio 1985 e sui dati della ispezione dei luoghi effettuati dalla Polizia Giudiziaria il 14 gennaio 1986 e il 29 luglio 1985.
I dati di accusa sono probatoriamente consistenti, anche se non può rilevarsi che l’indifferenza dell’Istituto bancario in ordine agli opportuni accertamenti istruttori, avrebbe potuto evitare il conseguimento del profitto.
Si era già evidenziato, nel testo dell’ordinanza di remissione degli atti alla Corte Costituzionale, che, essendo scarsamente rilevanti i precedenti penali dell’imputato ed in considerazione del tempo trascorso e delle modalità operative del fatto, avrebbero potuto essere riconosciute all’imputato attenuanti generiche, quanto meno equivalenti a quelle di segno opposto, con la conseguente· operatività della prescrizione dell’illecito, per mancanza di atti interruttivi nel quinquennio dall’epoca di consumazione del reato.
La questione è sopravvissuta, indenne, al giudizio di legittimità costituzionale e si ripropone, ora, in tema di valutazione del merito.
Portata giurisdizionale dei poteri decisori, nella udienza preliminare, e delimitazione del merito in tale fase processuale, sono quesiti vivacemente dibattuti nella recente dottrina senza del dubbio probatorio non è sostenibile. Perché, in contrasto con la esigenza di economia processuale e di deflazione, nonché in contrasto con il principio enunciato nella direttiva 11 e con il disposto dell’articolo 129, entrambi applicabili al “processo”, concretizza una regressione in antitesi al precedente regime che, consentiva il non-rinvio a giudizio nel caso di dubbio, sicché il potere di giurisdizione preliminare sarebbe ingiustificato rispetto al potere (preliminare ed alternativo) di archiviazione. Infatti, l’archiviazione è doverosa se pubblico ministero e giudice sono di concorde avviso sul dubbio probatorio, mentre invece, ove il pubblico ministero forzi la valutazione in senso accusatorio, il giudice sarebbe tenuto a disporre il giudizio. E non è spiegabile perché, in regime transitorio, il rinvio a giudizio si riconnetta ad una prognosi di condanna, mentre la nuova disciplina dovrebbe essere orientata in senso diverso e, per giunta, più sfavorevole all’imputato.
Ne è condivisibile l’orientamento secondo il quale l’esercizio, concreto e sostanziale, della giurisdizione preliminare si risolverebbe nel condizionamento del giudizio dibattimentale.
Come è erroneo il concetto sulla diversità di ruolo del giudicante rispetto al pubblico ministero richiedente, così non è condivisibile che la necessità di garantire la neutralità e l’agnosticità del giudice dibattimentale comporti la preclusione di approfondimento del merito nella giurisdizione preliminare.
L’esigenza di un dibattimento neutrale, in quanto non influenzato da precedenti valutazioni, è innegabile, ma è altrettanto vero che essa esigenza riceva adeguata tutela sul piano formale, attraverso la “sommarietà” della motivazione del decreto che dispone il giudizio.
Il legislatore, avendo previsto nel decreto la indicazione “sommaria” delle fonti di prova e dei fatti cui esse si riferiscono, ha evitato le impegnative motivazioni contenute nelle vecchie ordinanze di rinvio a giudizio, valutative del merito. Attraverso una selezione degli elementi da porre a fondamento del decreto, la cui stessa tipologia è significativa, si è conseguito l’obiettivo di evitare che il giudice dibattimentale possa essere influenzato e “pre-giudicato”.
La natura e il contenuto dell’atto con il quale si avvia il giudizio sono elementi normativi autosufficienti per lo scopo prefisso. Non è invece corretto inferirne la superficialità del giudizio posto a fondamento del potere di decretazione e, a maggior ragione, non è corretto ritenere la “superficialità” del giudizio, estesa anche ai casi in cui il giudizio stesso si risolva con la pronuncia di una sentenza. In ogni caso, e specialmente allorché si debba pronunciare una sentenza, il giudizio è approfondito, alla stregua di tutti gli atti acquisiti e delle opportune integrazioni probatorie.
Le stesse valutazioni preliminari, in tema di giurisdizione e di competenza, implicano un necessario giudizio di merito, in quanto si tratta di determinazioni che non possono essere affidate al criterio esclusivo della evidenza e non possono essere, quindi, mera conseguenza di una erronea impostazione accusatoria. Soltanto attraverso un controllo intrinseco dell’accusa, in relazione a tutte le emergenze del procedimento, è definibile la giurisdizione, come anche la competenza a giudicare.
Non è parimenti accettabile che l’imputazione vincoli il giudice preliminare, in fatto e in diritto, nel suo riferimento storico e nella qualificazione giuridica di esso. Libero è il giudice, e libero deve essere, quel convincimento in ordine alla correttezza dell’inquadramento normativo della fattispecie. Libero è altresì il giudizio, nei limiti del rispetto del potere di contestazione, spettante al pubblico ministero, di enucleazione del fatto di reato.
La stessa decisione adottata dalla Corte Costituzionale in relazione alla questione sollevata nel procedimento in esame, avalla implicitamente l’orientamento esposto. Non è stata, innanzitutto, preclusa, in radice e in linea pregiudiziale, la rilevabilità di circostanze attenuanti da parte del giudice dell’udienza preliminare. La Corte ha sostenuto che, di regola, il giudice dell’udienza preliminare non dispone degli elementi necessari a riconoscere circostanze attenuanti e procedere alla applicazione delle disposizioni di cui all’art. 69 Cod. pen., ed ha aggiunto che esiste, sia pure come ipotesi supplementare, la possibilità che il giudice si avvalga della procedura di cui all’art. 422 Cod. proc. pen.
Tale ipotesi, ha precisato la Corte, “spetta al giudice di merito da verificare”. Pertanto, è legittimo inferire che, laddove (e sia pure in via eccezionale) la situazione probatoria consenta la rilevazione di circostanze attenuanti, e tale rilevazione sia risolutiva ai fini del giudizio (di non luogo a procedere piuttosto che di disposizione del dibattimento), compete a detto giudice la relativa pronuncia.
Tutto questo chiarito, appare corretto ravvisare, nel caso in esame, la sussistenza di circostanze attenuanti generiche, in con siderazione della modestia dei precedenti penali dell’imputato, delle modalità concrete del fatto e del tempo trascorso. Dette attenuanti vanno dichiarate quanto meno equivalenti alle aggravanti (del danno di rilevante entità e della qualità del danneggiato, oltre che della recidiva). In conseguenza del ritenuto bilanciamento di circostanze il delitto è estinto per intervenuta prescrizione, in mancanza di atti interruttivi nel quinquennio a far tempo dalla contestata consumazione dell’illecito”.

  1. In effetti l’udienza preliminare era stata concepita come istituto essenziale e di rilievo centrale del vigente codice di procedura penale, sin dalla Relazione accompagnatoria al medesimo.

La Commissione, artefice della sua redazione, aveva inteso “scorgere nell’istituto delineato dalla direttiva 52 della legge una duplice ratio, di garanzia del diritto di difesa dell’imputato e, al tempo stesso, di economia processuale”, declinando tale ultima esigenza nei termini della predisposizione di un “filtro della richiesta di dibattimento avanzata dal pubblico ministero”, in “funzione di decongestione del sistema”. Ma tale prospettiva funzionale è stata da subito frustrata a livello di concreta normazione e, di riflesso, a causa del correlato autorevole avallo giurisprudenziale.
Ad ostacolare la deflazione si opposero alcuni combinati limiti ideologici posto che il G.u.p. non poteva essere assimilato alla precedente figura del giudice istruttore il cui giudizio era di merito preliminare, per cui era orientata la scelta di non attribuirgli quella funzione di controllo giurisdizionale volto a delibare il fondamento dell’accusa così penetrante. Appariva invece fondamentale l’esigenza di salvaguardare la formazione e l’assunzione della prova, secondo i principi dell’oralità e del contraddittorio ed occorreva salvaguardare la neutralità del giudice rispetto all’andamento e all’esito delle indagini, lesa dalla decisione di rinvio a giudizio, presentata come decisione di merito integrante un pregiudizio colpevolistico.
Tanto, in perfetta sintonia con quanto ebbe ad evidenziare la stessa Corte Costituzionale, secondo cui si doveva evitare che una valutazione approfondita del merito dell’imputazione da parte del giudice potesse avere, come per il passato, un’influenza condizionante sulla successiva fase del giudizio (così Corte Cost., 08.02.1991, n. 64).

La soluzione adottata, dunque, fu quella di delimitare la percorribilità della sentenza di non luogo a procedere al requisito della sussistenza dell’evidenza di riscontro sugli elementi acquisiti per la legittima adozione di formule di proscioglimento (ex art. 425 cpp).
Un primo, incidentale, rilievo: la stessa delimitazione della operatività del criterio a determinati tipi di formule, quelle sul fatto, non sembrava, e non pare, dogmaticamente corretta, posto che, fatta salva la pregiudiziale mancanza di querela, una formula estintiva del reato o di non punibilità, che non abbisognavano testualmente di alcuna selezione di evidenza, trascurava il pregiudiziale controllo sul fatto storico con effetti anche moralmente pregiudizievoli per l’imputato.
Coerentemente la dottrina qualificava tale sentenza a contenuto (meramente) processuale, quale inutilità del dibattimento chiesto dal pubblico ministero.  Di conseguenza, la decisione liberatoria ex art. 425 c.p.p. si mostrava praticabile solo al cospetto della situazione limite nella quale il giudice aveva a disposizione contributi di prova, posti a sostegno della richiesta di rinvio a giudizio, dai quali emergeva la probatio plena dell’innocenza dell’imputato, o comunque la mancanza totale di elementi a suo carico.
Parallelamente, ex art. 408, l’onere della deflazione era rimesso al pubblico ministero, il quale, disponendo del monopolio della domanda, era tenuto a selezionare il materiale acquisito in punto di idoneità a sostenere l’accusa (ex art. 125 att.) giovandosi palesemente di un favor actionis a scapito del giudicabile. Ne derivava che, in presenza di una azione penale ritualmente esercitata, era inevitabile che il controllo fosse superficiale, se non addirittura di mero rito.

  1. Il legislatore intervenne in un primo tempo con la legge 8 aprile 1993, n. 105, con la quale era soppresso l’aggettivo “evidente” dal contesto dell’art. 425, tanto al fine di ristabilire la simmetria funzionale con la richiesta di archiviazione, nell’intento dichiarato di ampliarne l’ambito e di limitare il predominio del pubblico ministero.

Persisteva comunque l’indirizzo di natura più marcatamente processuale, reputandosi mantenuta inalterata la valenza originaria della regola prevista dall’art. 425 c.p.p., che restava finalizzata esclusivamente ad impedire dibattimenti superflui, per inidoneità degli elementi raccolti a sostenere il processo.
La sentenza di non luogo a procedere era e restava una sentenza di tipo processuale, escludente prognosticamente un giudizio di merito (così, tra le altre, Corte cost., 7.03.1996, n. 71), e, sulla stessa linea di lettura, la Corte di Cassazione, chiamata a delineare lo spazio di valutazione del giudice, in sede cautelare, del requisito dei gravi indizi di colpevolezza dopo l’emissione del decreto che dispone il giudizio, aveva incidentalmente riconosciuto come l’ampliamento normativo della praticabilità della sentenza di non luogo a procedere determinasse “che il rinvio a giudizio emesso a conclusione dell’udienza preliminare implica[sse] un accertamento positivo della sussistenza di elementi tali da integrare la probabilità dell’affermazione di responsabilità e quindi la “qualificata probabilità di colpevolezza”’ (tra le altre Cass. Sez, I, 30.1. 1995, Valle, in CP 1996, 3435).

L’orientamento in corso incideva anche in tema di rivalutazione, successivamente al disposto rinvio a giudizio, del requisito (di merito) dei gravi indizi di colpevolezza fondanti una misura cautelare in corso di esecuzione e rinvio a giudizio. Difatti la Corte Costituzionale (su questione sollevata dal collegio presieduto dallo scrivente) dichiarava la incostituzionalità degli artt. 309 e 310 c.p.p., nella parte in cui non prevedevano la possibilità di rivalutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza ogniqualvolta fosse stato emesso il decreto che dispone il giudizio. Il Giudice delle leggi, infatti, alla ribadita presa d’atto che la soppressione del lemma “evidente” aveva sensibilmente aumentato la possibilità della pronunzia della sentenza di non luogo a procedere, provvedeva del pari ad evidenziare la permanenza della sua natura di decisione processuale, posto che “l’apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all’esito della udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento: la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo le modifiche subite dall’art. 425 cod. proc. pen., una sentenza di tipo “processuale” (così Corte cost. 15.03.1996. n. 71).

L’obiettivo del filtro decongestionante, indicato dal legislatore delegante tra le funzioni primarie dell’udienza preliminare, continuava a rimanere inevaso.

  1. Il successivo intervento correttivo del Parlamento si sostanziava in un’energica riscrittura della disciplina dell’udienza preliminare, attraverso la legge 16.12.1999, n. 479, mediante riformulazione dell’art. 425, abilitante il giudice a tener conto delle attenuanti (comma 2) ed a prosciogliere “anche quando gli elementi acquisiti risultavano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio”.

L’innovazione, si noti, era in linea con le motivazioni della decisione sopra riportata.
La riforma sembrava chiaramente orientata ad ampliare la strada per possibili definizioni anticipate del giudizio di merito e non più meramente processuali, secondo criteri analoghi a quelli dell’assoluzione dibattimentale.

La Corte Costituzionale, per effetto di tale evoluzione normativa, trovatasi al cospetto di importanti e rinnovate questioni di potenziale incompatibilità del giudice dell’udienza preliminare investito di un così ampio potere deliberativo, prendeva atto dell’intervenuto mutamento di paradigma e di linea di confine tra il decreto che dispone il giudizio e la sentenza di non luogo a procedere.

L’udienza preliminare, per il Giudice delle leggi, diveniva il luogo di celebrazione di un vero e proprio giudizio di merito e non più di una mera valutazione sommaria, orientata soltanto allo svolgimento del processo o alla preclusione di esso. Infatti, l’attività “decisoria che si offre al giudice quale epilogo dell’udienza preliminare, riposava su una valutazione del merito della accusa oramai non più distinguibile, quanto a intensità e completezza del panorama delibativo, da quella propria di altri momenti processuali” (così Corte cost. 06.07.2001, n. 224).

Ma l’apertura del nuovo comma 3° dell’art. 425 c.p.p. alla rilevanza dell’insufficienza e della contraddittorietà della prova, non veniva fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità come criterio idoneo a determinare un mutamento della natura e della funzione della sentenza di non luogo a procedere. Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, pur riconoscendo che “significative modifiche sono state impresse all’udienza preliminare dalla legge 16 dicembre 1999 n. 479, nel dichiarato obiettivo di evitare un inutile dispendio di attività processuali in un dibattimento destinato ad esiti assolutori per l’inadeguata valenza dei presupposti probatori” e che, dunque, risulta “innegabile che, all’interno di un disegno frammentario del legislatore, gli strappi acceleratori verso un vero e proprio giudizio di merito, rispetto all’originario carattere di momento di impulso meramente processuale, hanno influito sulla struttura dell’udienza preliminare, la regola di diritto per il rinvio a giudizio resta tuttavia qualificata dalla peculiarità dell’oggetto della valutazione e del correlato metodo di analisi”. Di conseguenza, “l’obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell’orizzonte prospettico del giudice, rispetto all’epilogo decisionale, non attribuisce infatti allo stesso il potere di giudicare in termini di anticipata verifica della innocenza-colpevolezza dell’imputato, poiché la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori, secondo il dato letterale del novellato terzo comma dell’art. 425, è sempre e comunque diretta a determinare, all’esito di una delibazione di tipo prognostico … la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda” (così Cass. SS.UU., 30.10.2002, n. 39915).

Questo pregiudizio si è consolidato in modo sistematico nel tempo: il giudice dell’udienza preliminare era rimasto privo di qualsiasi potere di valutazione di merito del materiale probatorio, e, di fatto, addetto alla mera lettura processuale del potenziale sviluppo di esso in sede dibattimentale, da attivarsi ogniqualvolta tale prognosi si mostrasse aperta.

Così, la sentenza  è diventata tutt’al più “una sentenza di merito su di un aspetto processuale”; con la conseguenza che, pur risultando il giudice dell’udienza preliminare chiamato ad esprimere un giudizio di merito, l’oggetto di esso non era quello della fondatezza dell’accusa, bensì quello della sola verifica dell’idoneità degli elementi raccolti in fase d’indagine a “dimostrare la sussistenza di una ‘minima probabilità’ che all’esito del dibattimento sia affermata la colpevolezza dell’imputato” (così Cass. Sez. IV, 24.02.2016. n. 17385).

Di qui la propensione per il rinvio a giudizio anche nei casi in cui si manifesta il dubbio sul merito dell’accusa in esito all’udienza preliminare”.

  1. Nel tempo, il problema dell’eccesso del carico dibattimentale si è fatto via via sempre più ingravescente, sino a divenire cronico e invalidante dell’efficienza del sistema giurisdizionale, che continua a processare un numero non ulteriormente accettabile di persone che poi vengono assolte.

Come ha reiteratamente segnalato il primo Presidente della Corte di Cassazione, pur comprese le declaratorie di prescrizione e le assoluzioni per tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis c.p., “a dibattimento circa la metà dei processi che si celebrano con il rito ordinario (50,5%) e oltre i due terzi dei giudizi di opposizione al decreto penale (69,7%) si concludono con una pronuncia di assoluzione, percentuale che, anche nel più recente passato, non è scesa sotto il 40, 45 %. Sulla scorta di tali indicazioni, infatti, i vincoli prescritti dal legislatore si muovono tutti nella direzione di perseguire quell’efficienza della giurisdizione, in pubblica udienza dibattimentale, che focalizzi l’obiettivo di celebrare il giudizio solo a carico di coloro che risultino concretamente, e con elevato grado di probabilità razionale, futuri destinatari di una sentenza di condanna. In tutti gli altri casi, la pretesa punitiva delle Procure della Repubblica prima, e il controllo del giudice sulla stessa poi, dovranno determinare la fine del procedimento in un momento antecedente all’inizio del dibattimento”.

  1. La nuova regola di giudizio, uniformata nel sistema, evoca significativamente la terminologia della decisione dibattimentale imperniata sul requisito della ragionevolezza che, lungi dal pretendere il rigore logico di una soluzione matematica, garantisce il perseguimento della finalità deflattiva, ormai necessaria ed ineludibile.

È chiaro che si tratta di un giudizio di merito, criterio sostanziale dal doppio contenuto, prima diagnostico, sugli elementi acquisiti che devono essere completi e adeguati, quindi prognostico, sulla prospettiva colpevolistica e di condanna.
Giustamente sfiduciato il potere di scelta in capo al PM non resta, ad avviso dello scrivente, che abolire la funzione del Gup che trascina con sé i difetti ormai cronici di una errata interpretazione della funzione di controllo e quindi trasmigrare ogni verifica sul predibattimento, ovviamente con opportuni riequilibri organizzativi.

Il filtro operante all’interno della sezione dibattimentale è verosimilmente più efficace di quello garantito dalla udienza preliminare, in primo luogo perché quel giudice è più assuefatto ad un controllo di merito ed anche per una evidente solidarietà di colleganza con i giudici componenti della stessa sezione.

Tali due requisiti, all’opposto, operavano con effetto negativo all’interno della sezione Gip appunto perché il Gup era ormai assuefatto ad un controllo superficiale ed inoltre per solidarismo con il collega Gip operante nella stanza a fianco. 

Infine occorre sgombrare il campo da obiezioni ideologiche.
Si obietta che si innesti il pregiudizio per il giudice del dibattimento in contrasto con la presunzione innocenza ma si tratta di argomento insostenibile in relazione alla logica sottostante ad ogni rinvio a giudizio ed alla neutralizzante regola della parità delle parti in sede accusatoria anche in relazione agli apporti della difesa in tema di prove a discarico.

L’impostazione perseguita, lungi dal determinare il crollo del dogma dell’accusatorietà, posto che il dibattimento si fonda sempre sul metodo del contraddittorio e sugli apporti che la difesa può introdurre nel merito, elimina quell’insostenibile esigenza di un giudice disinformato, in contrasto con la realtà dei fatti, con la conoscenza delle risultanze del fascicolo mediante una adeguata comprensione delle fonti indicate, con lo stesso potere di ammissione delle prove, se pertinenti e rilevanti, giudizio che quella comprensione legittima.   
In conclusione si auspica che la nuova regola di giudizio, palesemente evocativa della regola propria del giudizio finale e prognosticamente proiettata verso il futuro, sia ben compresa dai giudici e sia applicata come conviene.
Piuttosto occorre (ed il rilievo non è casuale) che il senso della riforma renda sensibile anche i giudizi di impugnazione per la concreta funzionalità del sistema.

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