“IL PROBLEMA NON CONSISTE NEL DECIDERE SE È NECESSARIO SEPARARE LE CARRIERE, QUANTO PIUTTOSTO NELL’INTERROGARSI COME MAI SIANO UNITE…”

di Tullio Padovani*-

In tema di separazione delle carriere possiamo prender le mosse da un’affermazione sicuramente condivisa: giudice e pubblico ministero, pur assumendo entrambi la qualifica di «magistrati», esercitano due funzioni radicalmente diverse. La circostanza è di tale pacifica evidenza che proprio da essa i sostenitori dell’attuale assetto normativo ritengono di trarre un argomento pragmaticamente risolutivo per la sua perpetuazione. Una volta assicurato che un pubblico ministero non possa mutare il proprio ufficio in quello di giudice se non una o due volte nel corso della carriera, e peraltro con precisi vincoli di distanza dalle sedi ricoperte, perché si dovrebbe insistere ancora nella richiesta di carriere fin dall’origine ed istituzionalmente separate?

Per essere posta correttamente, la questione deve essere pregiudizialmente sottratta ad una specie di strabismo concettuale che l’affligge quale effetto surrettizio dell’assetto esistente, e riproposta in termini simmetricamente inversi. Se è pacifico che le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono: – come sono – eterogenee, ed anzi, potenzialmente conflittuali (perché l’uno – il potere di giudicare – assume ad oggetto l’altro, e cioè l’esercizio del potere d’accusa), a quale titolo si dovrebbe accettare o addirittura giustificare l’omogeneità della carriera a partire dal reclutamento e nel contesto di un unico «ordine»? Il problema non consiste nel decidere se è necessario separare le carriere, quanto piuttosto nell’interrogarsi come mai siano unite. Le ragioni che ci si industria di esporre a favore della conservazione sono – pare – fondamentalmente tre: tutte inconsistenti, sia pure per ragioni diverse.

Prima ragione. Per corrispondere a pieno ai postulati dello stato di diritto è necessario che giudice e pubblico ministero, pur se investiti di poteri diversi, ma ugualmente significativi in termini di garanzia delle posizioni soggettive coinvolte nel loro esercizio, condividano un’uguale «cultura della giurisdizione», su cui è quindi edificata la pari qualifica di «magistrato».

Rompendo il legame genetico originario segnato dall’appartenenza ad un unico «ordine», il pubblico ministero – par di intendere – uscirebbe dal seminato del diritto (cultura è, in fondo, coltura dello spirito) e si trasformerebbe, in pericolo o in atto poco importa, in una sorta di pianta selvatica. Ma l’argomento si riduce ad una nebbiolina che il sole del mattino dissolve.

Infatti, se per “giurisdizione” (oggetto dell’auspicata cultura comune) si intende lo ius dicere, e cioè la risoluzione di un conflitto in base alla legge, si tratta, né più né meno, che del munus giudiziale per eccellenza: esattamente ciò che qualifica il giudice, e solo il giudice. Se viceversa si vuol accedere ad una nozione lata, concependo la giurisdizione come lo svolgimento di un’attività regolata dalla legge e strumentale per la risoluzione, da parte del giudice, del conflitto contenzioso, bisogna convenire che la comunanza invocata per il pubblico ministero coinvolge in realtà l’intero ceto forense, ed in particolare anche la sua terza, indefettibile componente, costituita dall’avvocato difensore.

La cultura della giurisdizione, intesa in questo senso lato, autorizzerebbe bensì l’unicità delle carriere, ma a condizione che a questa unicità concorressero tutti i componenti del ceto forense. Un’apocalisse che non può nemmeno definirsi tale (e cioè come un’autentica rivelazione): si tratta, infatti, della regola comune agli ordinamenti di common low. Avendo acquisito il processo accusatorio (sia pure come argutamente notava Cherif Bassiouni, mediante una semplice cartolina postale) non ci sarebbe niente di strano che ci procurassimo anche l’aria in cui esso respira. Da noi sarebbe forse troppo? Può darsi, ma allora smettiamo di invocare la «cultura della giurisdizione» per tener in piedi un tavolino con due sole gambe: non regge.

Seconda ragione. Un pubblico ministero con carriera distinta e separata da quella del giudice finirebbe – si lamenta – facile preda della funzione di governo; sarebbe, in un modo o nell’altro, alle dipendenze dell’esecutivo. Sul punto bisogna intendersi. Se si tratta di ipotizzare un vincolo di dipendenza gerarchica, il discorso finisce prima di cominciare, perché «il pubblico ministero gode [e deve godere] delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (art. 107, comma 4° Cost.): non si tratta certo di tutte le garanzie stabilite nei confronti del giudice (e la norma costituzionale lo sottointende con l’evidenza della specificità), ma di garanzie deve trattarsi; e di certo un vincolo di dipendenza gerarchica non potrebbe concepirsi in termini di «garanzia», il cui oggetto non può evidentemente prescindere dall’assicurare l’«indipendenza» (cui si riferisce espressamente l’art. 108, comma 2 Cost. in riferimento alla posizione del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali).

Ma la questione dell’esercizio del potere d’accusa non si prospetta certo in termini di vincolo gerarchico. Il problema è il controllo sull’esercizio di tale potere “anomico e terribile”, per riprendere un’efficace espressione di Antoine Garapon. Infatti – come con tagliente lucidità scriveva Giovanni Falcone – «se il potere dell’accusa non comporta responsabilità, tutti la temono, sono tutti terrorizzati dai pm. Il pm si presenta come un’ombra nefasta in qualunque contesto». Parole forti ma parole vere. La citazione del grande Magistrato (isolato e combattuto anche per queste parole) prosegue poi con la domanda retorica: «come è possibile che in un regime liberaldemocratico […] non vi sia ancora una politica giudiziaria e tutto sia riservato alle decisioni, assolutamente irresponsabili, dei vari uffici di procura e spesso dei singoli sostituti?». Appunto: come è possibile?

Terza ragione. Sul tavolo dell’unicità delle carriere vien calato un preteso asso: l’art. 112 Cost. secondo cui: «il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Così come il giudice è soggetto solo alla legge (art. 101, comma 2° Cost.), il pubblico ministero è gravato da un obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale. Indistintamente, indefettibilmente, incondizionatamente, quale luminosa garanzia di uguaglianza e di parità di trattamento. Il trait d’union che unisce giudice e pubblico ministero, entrambi vincolati, l’uno alla legge, l’altro all’esercizio dell’azione penale, è dunque il ponte su cui passa un’unica carriera per entrambi.

Ma, più che di un argomento si tratta piuttosto delle comiche finali. Scriveva Robert H. Jackson, nel 1940 General Attorney degli Stati Uniti d’America:

«L’applicazione del diritto non è automatica. Non è cieca. Una delle maggiori difficoltà della posizione del pubblico ministero è che egli deve scegliere i casi, perché nessun pubblico ministero potrà mai indagare tutti i casi di cui riceve notizia […]. Se il pubblico ministero è obbligato a scegliere i casi, ne consegue che può anche scegliere l’imputato. Qui sta il potere più pericoloso del pubblico ministero: che egli scelga la persona da colpire, piuttosto che i reati da perseguire. Con i codici gremiti di reati, il pubblico ministero ha buone possibilità di individuare almeno una violazione di qualche legge praticamente a carico di chiunque» [enfasi aggiunte]. Qualcuno può pensare che queste parole non corrispondano – parola per parola – alla nostra situazione presente? Se lo pensa, vive – beato (o poveretto) lui – in un’altra dimensione.

Anche attribuendo al pubblico ministero la più ferma intenzione di assolvere ai propri impegni, è impossibile ch’egli possa realizzarla, dato il numero delle pendenze normalmente attribuitegli. La legge stessa autorizza (ed anzi impone) criteri di priorità nella trattazione; la loro osservanza implica necessariamente prima la retrocessione e poi l’abbandono di una cospicua quota di fascicoli. Per essi, un tempo operava la tagliola della prescrizione (che maturava precipuamente nel corso delle indagini preliminari). Ora, essendo stati introdotti vincoli temporali più cogenti affinché i procedimenti siano definiti entro i termini di durata stabiliti per le indagini preliminari, è logico supporre che il canale di scolo per i casi necessariamente (o elettivamente) “negletti” sarà rappresentato dalla richiesta di archiviazione. Per formularla, la regola di giudizio, opportunamente dilatata dalla recente riforma, è basata sulla prevedibilità della condanna, in modo da garantire la sommersione nell’oblio di ciò che non ha potuto ricevere o di ciò che non meritava, una sufficiente attenzione ed un adeguato impegno investigativo.

In un simile contesto, ha ancora senso invocare l’art. 112 Cost.? La risposta è positiva, ma ad una precisa condizione: che si riconosca come l’esercizio dell’azione penale inizi al termine delle indagini preliminari, esattamente come stabilito dall’art. 407 bis c.p.p., che, non a caso, è rubricato «inizio dell’azione penale». In questa prospettiva la questione è decidere come debba essere disciplinato (e reso trasparente) il moto del potere d’accusa nel vasto e potenzialmente selvaggio territorio delle indagini preliminari, il cui tasso di legalità è parametrato su di una mera «notizia di reato» (quando pure sussiste), e cioè sul simulacro, o sul segmento, di un eventuale, futuribile reato.

L’esercizio del potere di accusa evoca imperiosamente direttive trasparenti, controllo efficiente, verifica puntuale e responsabilità definite; non certo una parte processuale che, dietro l’usbergo della carriera unica, si arroghi garanzie e stato giuridico in realtà incompatibili con i poteri di cui è titolare.

 

* Prof. Accademico dei Lincei già ordinario di diritto penale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.

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