LA RESPONSABILITÀ DEL SANITARIO: LE RECENTI PROSPETTIVE DI RIFORMA

di Saverio Loiero* – 

La necessità di porre un freno al fenomeno della medicina difensiva è stata ed è il fondamento politico delle recenti vicende normative attinenti alla responsabilità penale del medico.

La legge Balduzzi, prima, e la legge Gelli-Bianco, poi, sono state emanate proprio allo scopo di contenere la sempre più dilagante citazione in giudizio dei medici in sede penale, cui ha fatto seguito la crescente manifestazione di pratiche mediche superflue e/o eccessive rispetto al normale iter clinico.

Con entrambe le riforme si è tentato di far riacquistare valore e forza normativa all’opinione, fatta propria dalla giurisprudenza formatasi già a partire dalla prima metà degli anni ottanta ed ancorata alla disposizione di cui all’art. 2236 del codice civile, volta a sottolineare la speciale difficoltà dell’arte medica ed a limitare, di conseguenza, la responsabilità del sanitario solo ai casi di imperizia grave, oltre che di negligenza e imprudenza.

L’abrogato articolo 3, comma 1, della legge 8 novembre 2012 n. 189 (c.d. “legge Balduzzi”) prevedeva, infatti, che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve».

La legge 8 marzo 2017 n. 24 (c.d. legge Gelli-Bianco) ha, invece, inteso introdurre una disposizione ad hoc, l’art. 590 sexies del codice penale, stabilendo, in relazione ai fatti di cui agli articoli 589 e 590 commessi nell’esercizio della professione sanitaria, che «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

Sul piano della concreta applicazione, l’ultima novella si è rivelata sin da subito di difficile configurabilità, ponendo non poche questioni di carattere interpretativo: quale fosse l’esatto ambito di applicazione della disposizione; se la stessa rivestisse carattere di causa di non punibilità ovvero di scriminante, con le ovvie conseguenze in tema di risarcimento del danno; se avesse ancora un qualche rilievo il grado della colpa; se fosse applicabile anche ai fatti commessi prima della sua entrata in vigore o meno.

A risolvere il contrasto esistente in materia, sono intervenute le Sezioni Unite della Suprema Corte con la sentenza n. 8770 del 21/12/2017, dep. 2018, Mariotti, Rv. 272174, Rv. 272175 e Rv. 272176, fissando alcuni insegnamenti, oggi imprescindibili, nella valutazione della responsabilità del sanitario.

L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:
a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto;
d) se l’evento si è verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico.

In sintesi, affinché l’art. 590 sexies comma 2 c.p. possa trovare applicazione, il giudicante dovrebbe verificare che il sanitario abbia correttamente individuato e rispettato le linee guida o le buone pratiche adeguate al caso concreto ma, contestualmente, abbia commesso un errore nel momento esecutivo di esse e che tale errore esecutivo sia riconducibile all’imperizia (essendo negligenza e imprudenza escluse dalla causa di non punibilità) e solo allora dovrebbe procedere ad esaminare la gravità della colpa.

È parso, all’indomani dell’intervento nomofilattico, subito evidente che la Suprema Corte abbia inteso recuperare la tradizionale distinzione fra colpa grave e colpa lieve, con notevoli ripercussioni anche in tema di successione di leggi penali nel tempo.

L’abrogato articolo 3, comma 1, della c.d. legge Balduzzi integra, a parere delle Sezioni Unite, una parziale abolitio criminis mentre l’art. 590 sexies cod.pen. introduce una causa di non punibilità; la prima disposizione, allora, si pone come norma più favorevole rispetto alla seconda, con conseguente applicabilità a tutti i fatti commessi sino all’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, sia in relazione alle condotte dell’esercente la professione sanitaria connotate da colpa lieve per i profili della negligenza o dell’imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto.

Di estremo rilievo diviene, dunque, l’individuazione e la valutazione del grado della colpa, non certo di immediata comprensione, non essendo rinvenibile, com’è noto, alcun criterio codicistico utile a siffatta distinzione.

Sul punto, nella giurisprudenza di legittimità più recente, hanno riacquistato autorevolezza in chiave soggettiva i concetti di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, nei quali si sostanzia l’accertamento della colpa.

Ai fini della misura della colpa, assume nuova centralità l’individuazione della condotta dell’agente modello, quale comportamento alternativo lecito, rectius diligente, di talché il parametro positivo si rivela essere la distanza fra la condotta effettivamente tenuta dall’agente in concreto e quella che era da attendersi.

Può affermarsi, tuttavia, ad ormai sette anni dalla sua entrata in vigore, che la legge Gelli-Bianco non abbia risposto alle istanze della classe medica, soprattutto sotto il profilo penale, vanificando così l’originario intento del legislatore, dettato dalla esigenza, anche sul piano della finanza pubblica, di porre un argine alle pratiche difensive del medico.

È proprio in punto di esigibilità concreta della condotta che l’interpretazione restrittiva della legge Gelli-Bianco ha mostrato tutti i suoi limiti, soprattutto nel contesto della insorta emergenza pandemica, imponendo al legislatore ulteriori interventi normativi attraverso l’introduzione del c.d. “scudo penale”.

Sono stati, così, ridisegnati i confini della responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica, sancendone la punibilità solo nei casi di colpa grave e positivizzando alcuni criteri guida per il giudicante nell’esclusione della gravità della colpa. 

Ebbene, tali interventi normativi hanno, certamente, reso ancor più palese l’inadeguatezza dell’attuale assetto della disciplina della colpa medica contenuto nell’art. 590 sexies del codice penale.

Allo scopo di comporre le permanenti istanze di tutela dei sanitari e le legittime pretese di salvaguardia della salute del paziente, il Ministro Nordio ha istituito la “Commissione per lo studio e l’approfondimento delle problematiche relative alla colpa professionale medica”, presieduta dal magistrato Adelchi D’Ippolito.

La relazione finale, licenziata all’esito dei lavori della commissione, contiene la proposta di una nuova formulazione dell’art. 590 sexies nonché di introduzione di una autonoma disposizione all’art. 590 septies del codice penale.

L’esordio della nuova norma prevede che “i fatti previsti dagli artt. 598, 590 e 593 bis commessi nell’esercizio dell’attività sanitaria sono esclusi quando risulta che la prestazione è conforme agli indirizzi di diagnosi e cura adeguati alle specificità del caso concreto.”

Rispetto all’attuale formulazione dell’art. 590 sexies, oltre all’espresso riferimento funzionale anche al reato di interruzione colposa di gravidanza, la proposta di riforma pare voler respingere la qualificazione dell’esonero di responsabilità per il sanitario quale causa di non punibilità in senso stretto, per ricondurla ad una esclusione dell’elemento materiale del reato, operando, quindi, come è stato per la legge Balduzzi, una abolitio criminis.

I fatti di cui agli artt. 598, 590 e 593 bis non sono quindi integrati, sul piano oggettivo, quando sono rispettati gli indirizzi di diagnosi e cura adeguati al caso concreto così come delineati al comma 2 del medesimo articolo.

Il riferimento, nelle raccomandazioni da seguire, non è più alle sole linee guida, considerato insufficiente perché di difficile aggiornamento e soggetto a rapida obsolescenza, ma anche alle buone pratiche assistenziali e alle altre scelte diagnostiche e terapeutiche adeguate alle specificità del caso concreto.

Viene, altresì, eliminata l’esplicita limitazione alla sola colpa per imperizia, presente nell’attuale formulazione, consentendo di fatto, espressamente, l’esonero di responsabilità anche per i casi lievi di imprudenza e negligenza.

Ben più articolata risulta la formulazione della disposizione di cui all’art. 590 septies che mira, nell’intento riformatore, a stabilire il perimetro e la rilevanza dell’errore in ambito sanitario.

Nei casi in cui l’elemento oggettivo dei reati indicati è integrato, è necessario allora stabilire i limiti della responsabilità sotto il profilo soggettivo della colpa: il sanitario risponde solo per colpa grave, se l’attività sanitaria è di speciale difficoltà.

Ai fini dell’esclusione della gravità della colpa sono enunciati quattro elementi sintomatici della speciale difficoltà: la scarsità delle risorse umane e materiali disponibili, la mancanza o limitatezza di conoscenze scientifiche o di terapie adeguate, la severità e complessità della malattia nonché la presenza di situazioni di rilevante urgenza o emergenza.

Sono, quindi, a chiare lettere, richiamati il concetto di speciale difficoltà di cui all’art. 2236 c.c., con conseguente rilevanza solo della colpa grave, nonché alcuni dei canoni di valutazione della gravità della colpa, già propri dello scudo penale.   

Se, da un lato, certamente condivisibili, sul piano dell’applicazione pratica, appaiono l’eliminazione del riferimento alla sola colpa per imperizia, il ridimensionamento della centralità delle linee guida nonché l’ampliamento dell’esonero anche all’area esecutiva dell’attività medica, non può non sottolinearsi la perplessità interpretativa che potrebbe delinearsi in relazione alla individuazione della corretta regola cautelare del caso concreto, al riferimento a concetti dotati di connaturata vaghezza quali “le comuni cautele” nonché alla concreta valutazione della gravità della colpa, nozione che anche in questa sede si è rinunciato a definire.

Non sembra, in conclusione, che la proposta di riforma da ultimo avanzata, per come formulata, benché certamente mossa dal pregevole intento di garantire maggior determinatezza alla condotta punibile del medico e di ricondurre la rimproverabilità della stessa al profilo soggettivo dell’esigibilità con il recupero del concetto personalistico della colpa, potrà porre termine al dibattito sul tema della responsabilità del sanitario.

*Avvocato del Foro di Catanzaro

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