Charlie Barnao* e Domenico Bilotti** –
Gesù deviante universale
A partire dal 1970 le scienze sociali hanno avuto un ruolo sempre più importante negli studi sui Vangeli. I primi sforzi si sono concentrati nell’applicazione di specifiche teorie sociologiche agli studi biblici ma, nel tempo, la ricerca ha attinto anche da una gamma più ampia di discipline, tra cui l’antropologia culturale, le scienze politiche, il diritto, l’economia, la psicologia sociale.
Il mio lavoro sui Vangeli si inserisce nel filone di studi delle scienze sociali che utilizzano la strumentazione concettuale e teorica della sociologia della cultura e della sociologia della devianza per leggere gli episodi principali che caratterizzano la vita di Gesù nel suo percorso di predicazione e diffusione di un modello culturale e di vita.
Gli interrogativi di partenza che mi sono posto, in continuo dialogo con il lavoro di Bilotti che si è occupato in particolare della vicenda giuridica e processuale di Gesù, sono i seguenti. Gesù di Nazaret era davvero un criminale? È davvero questa la ragione principale per cui fu torturato e, quindi, giustiziato dalle autorità del suo tempo? È esistito un legame tra il suo essere “uomo marginale” – ai confini di culture diverse, sempre dalla parte di coloro che occupano le posizioni più basse della gerarchia sociale – e la sua condanna? In che modo il rapporto tra “cultura” e “diritto” ha influenzato la sua sorte? E infine quali sarebbero oggi per lui, dopo oltre duemila anni di diffusione del suo messaggio culturale, gli esiti della sua vicenda?
Nel tentativo di dare una (almeno iniziale) risposta a queste domande, si è avviato così un lungo (e, ovviamente, ancora in itinere) percorso di ricerca e riflessione sociologica sul significato culturale dell’azione di Gesù nel suo e nel nostro tempo. Partendo dalla lettura dei Vangeli, in dialogo con la letteratura scientifica sul tema, la riflessione si è avviata ed è stata accompagnata da un confronto su queste tesi, attraverso incontri e dibattiti organizzati ad hoc con gli attori sociali più diversi: studenti universitari, detenuti dell’Alta sicurezza del carcere di Catanzaro, esperti di esercizi spirituali ignaziani, studiosi di molteplici discipline scientifiche, tutti a diverso titolo interessati a discutere sul tema. Le aule universitarie (nel carcere di Catanzaro e nel campus universitario di Germaneto) sono diventate così delle vere e proprie incubatrici in cui maturavano, si criticavano, si re-indirizzavano le idee che emergevano, di volta in volta, dal confronto reciproco in un processo di analisi, interpretazione e attualizzazione sociologica dei Vangeli.
Gesù adottava senz’altro una condotta estremamente deviante per il suo tempo e proprio per queste ragioni formali fu condannato ad una pena estrema, rivolta ai criminali peggiori: la morte per crocifissione, fuori dalle mura della città. Ma, al di là degli specifici episodi e degli specifici reati che gli venivano contestati e che lo avrebbero portato alla condanna e alla morte, tutta la vita di Gesù è costellata da azioni devianti.
Gesù è un deviante culturale. La cultura proposta da Gesù nel suo percorso di vita era contraria alle norme sociali del suo tempo, divenendo, talvolta, addirittura un modello contrapposto a quello dominante. I comportamenti proposti da Gesù sono spesso talmente “fuori dalla norma” e di rottura con la società che lo circonda che frequentemente non sono stati compresi neanche dagli apostoli e da coloro che erano a lui più vicini. Il tema della devianza di Gesù si presenta così in stretta relazione con il rapporto tra “puro” e “impuro”. Infatti nei Vangeli (come in molte società umane) la riflessione su ciò che è “impuro” talvolta riguarda una riflessione sulle relazioni tra ordine e disordine, tra normale e deviante, tra essere e non essere, tra forma e assenza di forma, tra vita e morte.
Ma il modello culturale di devianza che viene formalizzato nei Vangeli non è deviante solo per il mondo in cui Gesù visse. Il modello culturale proposto da Gesù è deviante in modo universale. Se è sottolineato da molti studiosi come Gesù fosse considerato un individuo profondamente deviante in relazione al suo contesto contemporaneo, il suo “modo di procedere”, il suo “modo di essere”, trasmessi ai suoi discepoli e a tutti coloro che con lui entravano in relazione, può essere considerato addirittura deviante in ogni tempo e in ogni luogo, perché mina alle basi alcuni veri e propri universali culturali, elementi presenti e comuni a qualsiasi cultura umana. In particolare il modello culturale proposto da Gesù sembra destabilizzare e relativizzare l’importanza dei legami di sangue (a cominciare dalla famiglia), del sistema di stratificazione sociale (per esempio, le disuguaglianze strutturate in base a classi e ceti), delle tradizioni culturali più rigide e maggiormente riconosciute nella comunità (prima fra tutte la religione).
Se il modello culturale proposto da Gesù è universalmente deviante, allora dobbiamo dedurre che sarebbe deviante anche nei confronti del nostro odierno modello culturale dominante. E su questi presupposti, quindi, ci possiamo chiedere: cosa accadrebbe oggi se Gesù si presentasse a noi? Come verrebbe accolto il suo messaggio culturale? In che modo la nostra società giudicherebbe devianti le sue azioni, adattate al contesto culturale dei nostri giorni?
È ovviamente difficile rispondere con precisione ad una domanda del genere e certamente sarebbe necessario un lungo lavoro di analisi e di riflessione, che in questa sede non possiamo affrontare. Di sicuro in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, caratterizzato dalla crisi delle democrazie e dal ritorno degli autoritarismi/nazionalismi/ fascismi da una parte e, dall’altra, dal dilagare del populismo penale con conseguente ritorno alla “crudeltà” nel diritto, un messaggio come quello di Gesù, che si presenta come universalistico, antiautoritario, interclassista e particolarmente deviante verso ogni forma di discriminazione sociale, gerarchia di dominio e ingiustizia sociale, sarebbe molto probabilmente considerato come profondamente sovversivo, pericoloso ed estremamente violento (almeno da un punto di vista simbolico) contro l’ordine costituito. La repressione nei confronti di un attore sociale, Gesù, che attraverso azioni quotidiane e radicali si facesse interprete di un messaggio del genere, sarebbe, con ogni probabilità, estremamente dura e il suo tipo di comportamento deviante verrebbe forse inquadrato nell’ambito criminalità politica.
Coercizione vs. Giustizia: critica al carcere e perdono extragiudiziale
Alla luce di quanto sinora osservato da Barnao, per quanto possa apparire un esito imprevisto, la vicenda giudiziaria di Gesù ha un tratto profondamente antiparticolaristico. Il processo che lo condanna a morte non riguarda la sua specifica appartenenza etnica, nonostante sovente si indulga sulla qualificazione del Gesù come uomo ebreo. Il tratto riferito è senza ombra di dubbio veridico, ma la pena che riceve non promana dalla giurisdizione ebraica: né dalla sua scuola farisaica legalista, né da quella sadducea clericale. Non è un processo che riguarda Gesù in quanto autorità religiosa: in scia con la tradizione profetica, è più probabile che si sia percepito come predicatore titolato ad annunciare la venuta del Regno (ormai prossimo venturo) e non come iniziatore di un nuovo culto e men che meno di una vera e propria Chiesa organizzata. La conformazione ecclesiale endoconfessionale semplicemente al tempo non esisteva e ritualità e liturgia non traevano la propria ortoprassi da una gerarchia indivisa, bensì da un “ceto” precipuamente preposto all’interpretazione religiosa. Gesù, ancora, non riceve condanna per idee politiche espresse: rifiuta sempre, al contrario, la misurazione del messaggio evangelico secondo gli indici di commensurabilità del potere costituito – ne è celebre riprova la controversia sulla moneta e sui tributi. Non è condannato in quanto uomo, perché, se il capo di imputazione riguardava la lesa maestà, la norma incriminatrice fa perno soprattutto sulla vestigia imperiale offesa, e non sulle qualità intrinseche del reo.
Un vasto apparato sanzionatorio, a volte rabberciantemente attuato sin dai livelli basici dell’organizzazione sociale, riguardava del resto anche le donne – e lo conferma la celeberrima pericope dell’adultera – che oltre a ciò persino scontavano sul piano della capacità negoziale privatistica un reticolato diffuso di restrizioni, inabilità e divieti. Il carisma di Gesù è così straordinario da farci comprendere la natura annichilente e anticarismatica di ogni condanna capitale: l’annichilimento dell’umano, a prescindere da ogni caratteristica fenomenologica. È la posizione di ogni condannato odierno, la cui privazione di libertà è tale da resettare la condizione di provenienza e il titolo di reato – eccezion fatta, ovviamente, per il diverso tipo di pena principale comminabile secondo l’illecito compiuto. La Corte di Strasburgo ha implicitamente accolto questo tratto saliente del meccanismo sanzionatorio tutte le volte in cui in pronunce di condanna (delle quali l’Italia è copiosamente munita) ha invitato lo Stato firmatario della Carta EDU a considerare la sanzione in una prospettiva olistica. Non già la pena come riassunta e conclusa nella pena detentiva – ovviamente in plastica contrapposizione ai meccanismi italiani della legislazione e della narrazione a fini di consenso, che la contraddistingue nel Paese: più carcere, in poche parole. Pene inasprite, pene aggiunte, cornici edittali rimodulate al rialzo, nuove norme incriminatrici in legislazione di diritto comune e in legislazione speciale. Carcere, insomma, senza soluzione di continuità.
Per restare agli indici del vangelo che possono maturare un carattere guidante anche al dibattito specialistico laico-umanista, andare a visitare i carcerati è uno di quei precetti che compaiono con più nitore nei più studiati, noti (e invero apprezzati) discorsi di Gesù. Una vera e propria benemerenza verso il Regno dei Cieli: eppure, la pratica attuazione di quel precetto è resa via via più impervia in modo inversamente proporzionale alla sua utilità sociale. Più è (o sarebbe) collettivamente giovevole “visitare” le carceri – smontarne le zone d’ombra, gli illegalismi foucaultiani, coinvolgerne gli abitanti “ristretti” al di fuori nel lavoro, nella vita ludica, in quella affettiva – più accedervi diventa difficile. Sempre più ridotte le possibilità di mediatori, educatori, volontari, assistenti spirituali. Sempre più debole l’evenienza di capillarizzare in modo adeguato l’assistenza sanitaria: la medicina penitenziaria, da quella farmacologica a quella oncologica, è una Caporetto fatta da un mare di contraddizioni e da un pugno di eroici (non usiamo il termine a caso) promotori di giustizia e umanità.
Il processo a Cristo è a duemila anni di distanza lo straordinario microscopio per analizzare la detenzione e la correità in ogni tempo, fin quasi alla follia cristologica di Dostoevskij (“siamo tutti responsabili di tutto verso tutti”), che si eleva a massima di libertà, nel momento in cui abbatte la coazione e chiama all’interrelazione sistematica. A Gesù è preferito in modo del tutto discrezionale un altro da graziare: la natura eventuale e singolare della clemenza contro la natura totalizzante della pena. Gli sono accanto due ladroni: uno è, senza alcuna massima di discredito da parte del vangelo, scettico e ormai rassegnato; l’altro crede al Nazareno. Muoiono insieme alla vita eterna. Il diritto penale secolare può oggi marcare un cambio di passo: essere liberazione, qui. Non capir l’ora vicina non è coercibile (“perdona loro”), ma guardare senza vedere è quanto di più prossimo al crimine l’etologia umana possa insegnarci.
*Ordinario di sociologia nell’Università Magna Græcia di Catanzaro
**Docente di diritto ecclesiatico nell’Università Magna Graecia di Catanzaro
(Pubblicato su Ante Litteram n.1 – aprile 2024)