di Francesco Iacopino* –
Controllo giudiziario volontario. Esito positivo. Procedimento di aggiornamento prefettizio. Riespansione degli effetti dell’interdittiva antimafia. Corto circuito normativo.
Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, Sezione distaccata reggina, con ordinanza n. 646/2024 Reg.Prov.Coll. del 28 ottobre scorso, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 34-bis, comma 7, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, «nella parte in cui non prevede che la sospensione degli effetti dell’interdittiva conseguente all’ammissione al controllo giudiziario perduri anche con riferimento al tempo, successivo alla sua cessazione, occorrente per la definizione del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia».
Nella vicenda oggetto di scrutinio, la società ricorrente si era vista risolvere il contratto di appalto stipulato con ANAS s.p.a., a causa della automatica reviviscenza degli effetti pregiudizievoli dell’interdittiva dopo la cessazione, con esito positivo, del controllo giudiziario. Una riespansione causata, com’è noto, della mancata previsione nell’ordinamento di una disciplina che regolamenti in modo puntuale tale peculiare profilo inerente alla fase terminale dei rapporti tra interdittiva antimafia e controllo giudiziario c.d. volontario, sino alla definizione da parte della Prefettura del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia.
Nel ricorso introduttivo del giudizio la difesa aveva prospettato una ricostruzione interpretativa costituzionalmente orientata, sollecitando una lettura elastica della norma (i.e.: l’art. 34-bis, c. 7, del C.A.M.) che consentisse -dopo la cessazione, con esito positivo, del controllo giudiziario- di affermare la protrazione della sospensione degli effetti dell’interdittiva sino alla definizione da parte della Prefettura del richiamato procedimento di aggiornamento.
Di diverso avviso i Giudici territoriali, i quali «ha(nno) ritenuto che la lettura prospettata da parte ricorrente in ordine alle disposizioni del codice antimafia rilevanti nella presente vicenda sia sprovvista di un valido addentellato positivo, mancando, appunto, nel codice antimafia […] una previsione che regolamenti in modo espresso gli effetti dell’interdittiva nel tempo intercorrente tra la cessazione del controllo giudiziario e l’aggiornamento della stessa ad opera della competente Prefettura. Il dato testuale espresso dal co. 7 dell’art. 34-bis d.lgs. n. 159/2011, là dove stabilisce che “[i]l provvedimento che dispone … il controllo giudiziario ai sensi del presente articolo sospende … gli effetti di cui all’articolo 94”, appare, in definitiva, ad avviso del Collegio, insuperabile, ricollegando l’effetto tipico che consegue al decreto di ammissione al controllo giudiziario (cioè, la sospensione dell’incapacità a contrattare) alla sua vigenza. Ne risulta, allora, preclusa in nuce qualsiasi diversa interpretazione che, pur nell’ottica di correggere le vistose distorsioni applicative denunciate dalla società ricorrente, tenda a dilatare temporalmente l’effetto in questione oltre il momento di cessazione della misura prescrittiva».
In tale prospettiva, i Giudici calabresi richiamano anche due decisioni dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (nn. 7 e 8 del 2023) nelle quali «il piano dei rapporti per così dire ‘terminali’ tra quest’ultimo e la pregressa interdittiva, (sono) ricostruiti secondo un ormai consolidato indirizzo interpretativo nel senso di escludere che l’esito favorevole del controllo giudiziario possa determinare, ex se, il superamento dell’interdittiva. Chiamata, infatti, a delineare il ‘ciclo di possibili relazioni’ intercorrenti tra controllo giudiziario conclusosi favorevolmente e valutazioni successivamente effettuate dal Prefetto in sede di aggiornamento dell’informativa (che abbia, evidentemente, conservato la sua validità a seguito della conferma in sede giurisdizionale nelle more della pendenza del controllo), la giurisprudenza amministrativa, muovendo proprio dalla considerazione delle diverse funzioni e dei differenti campi d’azione dei due istituti, ha condivisibilmente ritenuto che “[l]e favorevoli conclusioni dell’amministratore giudiziario, e la conseguente chiusura del ‘controllo giudiziario’ non sono … assimilabili ad un giudicato di accertamento”, non modificando, in sostanza, “il giudizio in ordine alla sussistenza dei pericoli di infiltrazione mafiosa, che è pertanto rimesso al Prefetto, il quale, una volta intervenuta la misura del controllo, potrebbe valutare l’esito positivo dello stesso, quale sopravvenienza rilevante ai fini dell’aggiornamento e della rivalutazione dell’interdittiva prefettizia, pur restando libero di confermare il provvedimento interdittivo originario”».
In ultima analisi, «la pacifica ‘sopravvivenza’ dell’informazione interdittiva antimafia alla conclusione favorevole del controllo giudiziario (che da essa abbia preso, a domanda di parte, innesco), se pur obbligatoriamente necessitante di una rivalutazione da parte del Prefetto ai sensi dell’art. 91, co. 5, cod. antimafia […], in una alla mancanza di una previsione normativa espressa che ne regolamenti gli effetti nella pendenza di questo specifico frangente temporale, rendono, allora, impraticabile la lettura costituzionalmente orientata delle norme qui rilevanti suggerita da parte ricorrente».
De iure condito, dunque, i giudici territoriali hanno ritenuto che la scadenza del controllo, ancorché favorevolmente conclusosi, non possa che determinare in via automatica la reviviscenza degli effetti dell’interdittiva.
Due altre considerazioni vengono in rilievo, nell’ordinanza di rimessione, prima dell’esame dei profili di contrasto della norma censurata con i principii costituzionali e sovranazionali.
La prima, riguarda la tempistica di evasione delle istanze di aggiornamento, quale fattore idoneo ad accentuare le criticità, tenuto conto che la casistica applicativa ha rivelato l’esistenza di prassi non condivisibili delle Prefetture.
La seconda, riguardante le gravosissime conseguenze applicative proprio nel settore degli appalti pubblici, determinando, la reviviscenza dell’interdittiva, «una soluzione di continuità nel possesso dei requisiti di gara, i cui effetti non potrebbero, peraltro, essere retroattivamente neutralizzati né da un’eventuale informazione liberatoria emessa a valle del procedimento di riesame né, a fortiori, nel caso di sospensione cautelare della nuova interdittiva, non potendo in tale ultimo caso l’efficacia ex tunc della misura cautelare estendersi sino a coprire in via retroattiva anche il periodo di ripristino dell’efficacia della pregressa inibitoria».
Alla luce delle superiori considerazioni il TAR Calabria ha ritenuto che «il co. 7 dell’art. 34-bis d.lgs. n. 159/2011, nell’impossibilità di una diversa lettura che ne consenta una dilatazione della relativa portata temporale nei sensi suggeriti da parte ricorrente, sia costituzionalmente illegittimo per contrasto con gli artt. 3, 4, 24, 41, 97, 111, 113 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6, 8 e 13 della CEDU e 1 del primo protocollo ad essa addizionale».
Stante la pluralità dei motivi di contrasto, di seguito si indicheranno sinteticamente i singoli profili di doglianza.
Quanto al contrasto con l’art. 3 della Costituzione, ad avviso del TAR l’immediata ed automatica riespansione degli effetti pregiudizievoli conseguenti all’interdittiva, paralizzati durante la vigenza del controllo giudiziario, al momento della sua cessazione determina, anzitutto, una irragionevole ed ingiustificata violazione del principio di uguaglianza, implicando un trattamento disomogeneo di situazioni sostanzialmente identiche, le cui ricadute altamente pregiudizievoli si apprezzano con accentuata criticità proprio nel settore degli appalti pubblici. Ed invero, «mentre nella generalità dei casi, l’incapacità di contrattare con la P.A. conseguente all’adozione di un’interdittiva potrà essere avversata dall’impresa che ne è destinataria con la proposizione del ricorso giurisdizionale e con l’invocazione della tutela cautelare, idonea in caso di favorevole delibazione a neutralizzarne gli effetti ex tunc […], nella situazione qui in esame l’operatore economico non potrà che subire inerme gli effetti pregiudizievoli discendenti dal ripristino dell’efficacia dell’interdittiva; non potendo, in specie, prima della conclusione del procedimento di riesame, né (re)impugnare l’originaria informazione antimafia, in quanto già coperta da giudicato sfavorevole, né, allo stesso tempo, presentare una nuova domanda di ammissione al controllo giudiziario, difettando il presupposto ‘processuale’ dell’avvenuta contestazione in sede giurisdizionale dell’interdittiva (costituendo la relativa adozione un evento futuro e incerto). La condizione dell’impresa che versa nel limbo dell’attesa dell’aggiornamento della propria posizione ‘post controllo giudiziario’ si presenta, inoltre, deteriore anche rispetto a quella dell’impresa che, non ottenuta la tutela cautelare invocata a corredo del ricorso avverso l’interdittiva, venga, nondimeno, ammessa su domanda al controllo giudiziario c.d. ‘volontario’.».
Si giunge così ad un risultato paradossale.
Infatti, mentre all’impresa da bonificare sarà assicurata non soltanto la possibilità di proseguire nell’esecuzione dei contratti d’appalto già stipulati al momento dell’adozione dell’interdittiva, ma pure quella di ottenere l’aggiudicazione quand’anche l’interdittiva sia stata emessa nella fase pubblicistica di scelta del contraente, all’impresa bonificata (almeno stando agli esiti del controllo giudiziario) si riespandono gli effetti dell’interdittiva, con immediata ed automatica risoluzione dei rapporti contrattuali in essere o l’esclusione dalle procedure di gara in fase di aggiudicazione. Conseguenze, queste, da considerarsi peraltro irreversibili, posto che la perdita del possesso del requisito di gara (discendente dalla reviviscenza dell’interdittiva) non potrebbe essere rimediata, con effetti salvifici, né dall’eventuale successiva informazione liberatoria (che assume una efficacia ex nunc), né, tanto meno, dall’accoglimento della domanda cautelare proposta con l’impugnativa della nuova interdittiva (eventualmente) emessa a valle del procedimento di riesame; l’efficacia della ‘sospensiva’ della nuova interdittiva, infatti, retroagisce sino al momento della relativa adozione, non potendo, tuttavia, certamente neutralizzare gli effetti prodottisi anteriormente nel frangente temporale più volte evocato oggetto del presente incidente di costituzionalità.
Identiche considerazioni valgono a supportare il dubbio dell’illegittimità della norma per violazione degli artt. 24 e 117, co. 1, Cost. (quest’ultimo) in relazione all’art. 13 della CEDU. «La disciplina di cui trattasi determina, infatti, una ingiustificata e quanto mai pregnante compressione del diritto di difesa dell’interessato, al quale è preclusa la possibilità di attivare qualsiasi rimedio tanto contro gli ‘effetti ripristinati’ dell’interdittiva, già oggetto di sindacato giudiziale definitivo, quanto, per evidente mancanza di interesse, contro il provvedimento […] dichiarativo della cessazione del controllo» conclusosi positivamente. «Appare fin troppo evidente, invero, che la mancata previsione di un qualsiasi rimedio difensivo per contestare la verificazione degli effetti de quibus sacrifichi penetrantemente, e in assenza di una plausibile ragione giustificativa, il diritto di difesa presidiato dall’art. 24 Cost., ponendo l’impresa in una condizione di incolpevole soggezione all’amministrazione, foriera di gravosissime conseguenze. Tale situazione si palesa, inoltre, sotto il medesimo angolo visuale, in insanabile attrito con l’art. 13 della CEDU – immediatamente rilevante per il tramite del parametro interposto offerto dall’art. 117, co. 1, Cost. – il quale assicura infatti a “ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati” il “diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”».
Tale norma, nell’interpretazione offertane dalla giurisprudenza della Corte EDU, ha come conseguenza di esigere un ricorso interno dinanzi a una “istanza nazionale competente” che offra la possibilità di ottenere l’esame del contenuto di una “doglianza difendibile”. L’art. 13 garantisce, in sostanza, l’esistenza nel diritto interno di un ricorso che permetta di avvalersi dei diritti e delle libertà della Convenzione; esso non ha, quindi, una ragione d’essere indipendente, mirando, invece, a completare le altre clausole normative della Convenzione e dei suoi Protocolli. Sicché la norma può essere applicata soltanto in combinato disposto con, o in riferimento a, uno o più articoli della Convenzione o dei suoi Protocolli di cui sia stata dedotta la violazione. Orbene, ad avviso dei Giudici calabresi «non v’è dubbio che nella presente vicenda la violazione dell’art. 13 si presti ad essere rilevata in relazione all’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), per l’evidente incidenza delle conseguenze pregiudizievoli discendenti dalla singolare condizione che insorge al momento della cessazione del controllo giudiziario sulla vita privata della persona titolare o interessata alla gestione dell’impresa, nonché, e ancor più vistosamente, in relazione all’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, che tutela i beni privati e la proprietà».
E ancora, «che la tutela offerta dall’art. 13 rafforza e completa quella accordata dall’art. 6, § 1, della CEDU, qui pure (autonomamente) rilevante, nella parte in cui riconosce a ciascuno il diritto di ottenere che la sua causa venga esaminata entro un termine ragionevole, posto che nell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte la prima disposizione garantisce (anche) un ricorso effettivo dinanzi a un’istanza nazionale che consenta di denunciare una inosservanza dell’obbligo, imposto dall’articolo 6 § 1, di esaminare le cause entro un termine ragionevole (Kudła c. Polonia [GC], 2000, § 156)».
Per le stesse ragioni è possibile rilevare il contrasto della norma con gli artt. 111, co. 1 e 2, e 113 Cost., «comportando il vulnus normativo che affligge il co. 7 dell’art. 34-bis del codice antimafia una limitazione della “tutela giurisdizionale … degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione … amministrativa” che è “sempre ammessa” contro gli atti della pubblica amministrazione».
Ancora, i dubbi di costituzionalità della norma di cui trattasi sono stati sollevati nella prospettiva della violazione dell’art. 97 Cost. in riferimento al principio di buon andamento della P.A., nonché in relazione ai canoni di ragionevolezza, logicità e proporzionalità, ai quali l’azione pubblica dev’essere sempre ed irrinunciabilmente orientata.
Nel diritto vivente, l’essenza del controllo giudiziario è stata rintracciata nel perseguimento di una finalità dinamica tendente al risanamento dell’impresa nella peculiare ipotesi in cui l’agevolazione sia occasionale e vi siano, pro futuro, concrete possibilità che essa compia un fruttuoso cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi di controlli e sollecitazioni. Proprio tale precisa direzione finalistica impressa dal legislatore all’istituto giustifica la previsione, di cui al comma 7 dell’art. 34, della sospensione dell’incapacità a contrarre derivante dall’interdittiva antimafia.
Orbene, «la mancata previsione della protrazione della sospensione degli effetti dell’interdittiva sino alla conclusione del procedimento volto al relativo riesame, preclude all’impresa che si sia attenuta alle prescrizioni impartite dal giudice della prevenzione in costanza del controllo di poter beneficiare degli effetti utili potenzialmente rivenienti dal proficuo completamento dell’intrapreso percorso di bonifica. Esponendola, nonostante l’esito favorevole dello stesso, e prima ancora della autonoma valutazione da parte dell’autorità prefettizia in merito all’incidenza delle misure di self cleaning attuate sul pericolo di permeabilità all’ingerenza della criminalità organizzata originariamente rilevato, a tutte le conseguenze pregiudizievoli che proprio l’ammissione al controllo aveva inteso scongiurare. Si è, allora, al cospetto di un vero e proprio corto circuito normativo».
Da un lato, infatti, si consente all’impresa, colpita da interdittiva antimafia, di continuare ad operare sotto la supervisione giudiziale di un controllore giudiziario, e ciò al precipuo fine di consentirle, nell’immediato, di recuperare la capacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Dall’altro laro, però, contraddittoriamente, si prevede che gli effetti dell’interdittiva, temporaneamente paralizzati dal monitoraggio giudiziale dell’attività d’impresa, possano ripristinarsi prima ancora che il Prefetto verifichi, nell’ambito del procedimento ex art. 91, co. 5, cod. antimafia, l’eventuale incidenza positiva delle misure prescrittive imposte all’impresa sul pericolo di condizionamento mafioso che lo aveva a suo tempo indotto all’emissione della misura inibitoria antimafia. L’irragionevolezza della disciplina emerge, d’altronde, in modo lampante proprio nell’evenienza in cui tale verifica si concluda in modo favorevole, cioè con un positivo apprezzamento da parte del Prefetto della funzione bonificante sortita dalle misure di self cleaning attuate dall’impresa sotto l’egida del tribunale penale, e, quindi, con l’emissione di un’informazione liberatoria. In tal caso, infatti, «la parentesi temporale di riespansione degli effetti dell’interdittiva, causata dal disallineamento dei tempi dei due procedimenti (controllo e riesame) – nell’attuale assetto normativo pressoché ineliminabile – sarà foriera per l’impresa di irrimediabili conseguenze (in specie, per quanto già rilevato, nel settore degli appalti pubblici), con buona pace del principio di buon andamento della P.A. e frustrazione delle finalità prese di mira dal legislatore con l’introduzione della misura del controllo giudiziario».
Nella medesima cornice dell’art. 97 Cost. «rileva, inoltre, una vistosa trasgressione dei principi di efficienza ed economicità, derivando dalla riespansione degli effetti dell’interdittiva alla scadenza del controllo giudiziario l’onere per le stazioni appaltanti, nel caso di contratti in corso di esecuzione, di provvedere solertemente alla sostituzione dell’impresa appaltatrice, con inevitabili ritardi e aggravio dei costi».
E ancora, tale situazione appare idonea a compromettere, con effetti che potrebbero talvolta rivelarsi irrimediabili, la capacità economico-produttiva dell’impresa e la forza lavoro ivi impiegata per il periodo di sottoposizione della stessa ad un regime di “legalità controllata”. Proprio sotto quest’ultimo angolo visuale «si apprezza in modo egualmente manifesto, altresì, la violazione del canone di proporzionalità, risultando gli effetti derivanti dal ripristino, in modo pieno ed incondizionato, dell’efficacia dell’interdittiva sproporzionati rispetto allo scopo di massima anticipazione della tutela dell’economia sana dalle incrostazioni criminali che permea il sistema della documentazione antimafia».
In primo luogo, per la cogente assenza di gradualità, cioè per la mancata previsione di un qualsiasi meccanismo di graduazione della relativa riespansione. Ancora, per la semplice ragione che il fine (in ipotesi) preso di mira avrebbe potuto essere perseguito, con analoga efficacia, con soluzioni decisamente meno afflittive per l’imprenditore: si pensi al meccanismo – già previsto per situazioni affini – della “condizione risolutiva” previsto dal co. 3 dell’art. 92 del codice antimafia o, in alternativa, alla prorogatio del controllore giudiziario sino alla definizione del procedimento di riesame.
«Le stesse considerazioni in punto di difetto di proporzionalità sorreggono il convincimento del contrasto della norma censurata con l’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU, risultando violato il “ragionevole rapporto di proporzionalità” tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito che la norma esige sia rispettato ogni qualvolta l’attività della P.A. comporti un’ingerenza, normativamente disciplinata, nella proprietà privata. Rapporto di proporzionalità che la Corte europea reputa non garantito se la persona interessata debba sostenere un “onere eccessivo ed esagerato” (cfr. G.I.E.M. contro Italia, Grande Camera 28.06.2018 e giurisprudenza ivi richiamata), tale dovendosi considerare quello non strettamente necessario all’utile soddisfacimento dell’interesse pubblico perseguito».
La norma censurata, tenuto conto della portata quanto mai ampia delle conseguenze che discendono dall’applicazione di un’interdittiva antimafia, inibendo essa sia i rapporti con la pubblica amministrazione, sia le attività private sottoposte a regime autorizzatorio, «viola, infine, a stima del Collegio, l’art. 4 Cost., determinando un ingiustificato, e non necessario, sacrificio del diritto al lavoro, e, per le stesse ragioni, l’art. 41 Cost., pregiudicando incisivamente il libero esercizio dell’attività di impresa».
Per quanto precede, in conclusione, ad avviso dei Giudici amministrativi reggini sussistono le condizioni per una pronuncia di illegittimità costituzionale di tipo ‘additivo’, stante la già segnalata impossibilità di superare la “norma negativa” sospettata di incostituzionalità per via d’interpretazione nonché l’esistenza di un’unica soluzione che consenta di rimediare ai rilevati profili di illegittimità, rendendo la norma compatibile con i principi costituzionali, e convenzionali, sopra individuati.
In altri termini, «ferma la possibilità di apportare de iure condendo i correttivi che il legislatore, nell’esercizio delle sue prerogative, dovesse ritenere necessari al fine di garantire un più coerente raccordo della fase finale del controllo giudiziario con la rivalutazione in sede amministrativa degli elementi indiziari che avevano a suo tempo dato luogo all’adozione dell’informazione interdittiva […], l’attuale formulazione del testo dell’art. 34-bis, co. 7, d.lgs. n. 159/2011 presta il fianco a tutti i segnalati rilievi di incostituzionalità, che, de iure condito, appaiono sanabili esclusivamente con la protrazione temporale dell’effetto ivi disciplinato – cioè la sospensione dell’efficacia dell’interdittiva – sino alla definizione del procedimento di aggiornamento ex art. 91, co. 5, del medesimo codice antimafia. Risultato, questo, conseguibile soltanto per tramite dell’intervento “additivo” evocato».
*Presidente Camera Penale di Catanzaro “Alfredo Cantàfora”