di Danilo Iannello** –
Professore, da tempo era nell’aria un imminente intervento del legislatore in relazione al delitto di abuso d’ufficio. Prima di addentrarci nelle problematiche giuridiche sottese, e che in questi giorni si stanno agitando, le chiedo quale sia il suo pensiero sulla radicale abolizione dell’istituto
Per rispondere a questa domanda opero un richiamo a quanto ho già avuto modo di scrivere nel saggio apparso su Sistema Penale (Abolizione dell’abuso d’ufficio e gli ulteriori interventi in tema di delitti contro la P.A.: note critiche, 6 agosto 2024) e su Legislazione penale, (Dalla “burocrazia difensiva” alla “difesa della burocrazia”? Gli itinerari incontrollati della riforma dell’abuso d’ufficio, 17.12.2020), insieme al prof. Giandomenico Salcuni. Venendo al punto personalmente ho manifestato, anche per iscritto, la mia contrarietà all’abolizione dell’abuso d’ufficio, e ne spiego le motivazioni. Le ragioni che hanno indotto il legislatore ad abolire l’abuso d’ufficio sono così sintetizzabili: un carico giurisprudenziale esiguo e questo perché l’abuso d’ufficio ha subìto diverse riforme che sono il sintomo di un contrasto fra il legislatore e la giurisprudenza, che si è ampiamente dimostrata come “giuscreativa”, nel senso che l’abuso d’ufficio, che originariamente nel 1930 era un abuso innominato, era una norma residuale rispetto all’interesse privato in atti d’ufficio. Una volta abolito l’interesse privato in atti d’ufficio è assurto, invece, a nuova vita, e negli anni ’90 vi è stata la suddivisione tra abuso “per finalità patrimoniali” e abuso “per finalità non patrimoniali”.
Giunti a questo punto, però, il problema fondamentale era diventato quello della descrizione della fattispecie, che si è pian piano ristretta sempre più perché, proprio a causa di questo contrasto fra il legislatore e la giurisprudenza, il legislatore ha inteso restringere progressivamente i confini della fattispecie. Di converso, la giurisprudenza cercava in tutti modi di inserirvi il vizio dell’”eccesso di potere”, soprattutto sotto il profilo del “conflitto di interessi”. Il legislatore, nell’ultima elaborazione della fattispecie di abuso di ufficio, fa infatti riferimento alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente prevista dalla legge o da atti aventi forza di legge – e questo è il punto più rilevante – “dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Quest’ultima locuzione è strumentale a far fuoriuscire dal perimetro applicativo della norma incriminatrice l’eccesso di potere. È ovvio, però, che a questo restringimento consegua una espansione degli esiti assolutori, divenendo molto arduo il condannare.
Professore, proprio la riforma cui stava facendo riferimento, quella intervenuta nel 2020, in piena emergenza pandemica, ad opera del secondo Governo Conte, sappiamo bene come non abbia sortito gli effetti prefigurati. L’esperienza professionale quotidiana ci insegna che tale intervento sia rimasto, nei fatti, disatteso. Abbiamo continuato, ad esempio, ad assistere a contestazioni ancorate all’art. 97 Cost., in evidente e totale dissonanza con il testo emendato, nonché con lo spirito che aveva portato a quella riforma. Lei ritiene che, in disparte alle ragioni squisitamente giuridiche, vi sia stata una precisa volontà politica di ripristinare un corretto equilibrio tra il potere legislativo e quello giudiziario?
È molto probabile che sia frutto anche di ciò. È un problema molto attuale, quello dei confini tra potere legislativo e potere giurisprudenziale, basti pensare a quanto sta avvenendo in questi giorni in tema di migranti, a seguito della pronuncia del Tribunale di Roma; è evidente quindi che questa è la preoccupazione del legislatore. Detto ciò, però, dobbiamo verificare le conseguenze dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio. Il prof. Gian Luigi Gatta ha operato un resoconto specifico, da cui è venuto fuori che in Italia vi siano state oltre tremila sentenze di condanna passate in giudicato dal 1930 ad oggi. Con l’abrogazione dell’abuso d’ufficio tutte queste sentenze dovranno essere revocate e sostituite con una pronuncia perché il fatto non è più preveduto dalla legge come reato.
Questo è il rovescio della medaglia. Non si è tenuto conto che poteva esistere una strada intermedia, riformare, cioè, la fattispecie criminosa, prendendo spunto delle indicazioni frutto del lavoro della Commissione Morbidelli, che è stata istituita nel febbraio del 1996 dall’allora Ministro della Giustizia, Caianiello (cfr. Manna, Abuso d’ufficio e conflitto d’interessi nel sistema penale, Torino, 2004, 25 ss. e, quivi, 27 ss.). A mio avviso, infatti, l’abuso d’ufficio non è una norma di scarso rilievo, poiché al suo interno è ricompresa, in primo luogo, la “prevaricazione” del pubblico agente nei confronti del cittadino, che è il modello ottocentesco del codice penale Zanardelli, in secondo luogo lo “sfruttamento privato dell’ufficio” e, soprattutto, il “favoritismo affaristico”.
Ecco perché si doveva partire dal lavoro della Commissione Morbidelli per creare una fattispecie di abuso d’ufficio che avesse come base il “conflitto di interessi”, sul modello dell’art. 2634 del c.c. Sussisteva, dunque, una strada alternativa per rendere efficace l’abuso d’ufficio, senza sterilizzarlo.
Professore, poc’anzi ha fatto riferimento al lavoro di ricerca svolto dal prof. Gatta, sulle condanne intervenute dal 1930 ad oggi. Le statistiche giudiziarie, però, da sempre restituiscono una percentuale impietosa di condanne, 9 ogni 5.000 processi celebrati, circa lo 0,2%. Dinanzi a tali numeri, possiamo concretamente ipotizzare il rischio di un vuoto di tutela?
Una norma penale incriminatrice non può essere giudicata soltanto sotto il profilo della sua efficacia, perché la norma penale ha una funzione non solo, ovviamente, di prevenzione speciale, ma anche di prevenzione generale; nell’ottica, in particolare del collega Pagliaro (Pluridimensionalità della pena, in AA.VV., Sul problema della rieducazione del condannato, Padova, 1964, 327, nonché, quivi, ID, Il diritto penale fra norma e società, Scritti 1956-2008, III, I, Milano, 2009, 861 ss. e, spec., 862-863), ciò significa funzione di “orientamento culturale” dei cittadini. Quindi, rispetto ad una formulazione della norma come quella previgente, risulta ovvia l’impossibilità di dimostrare un abuso d’ufficio, ma ciò non significa che la strada dell’abolizione fosse obbligata, poiché sarebbe stato preferibile procedere, come rilevato, ad una riformulazione della stessa.
Un abuso d’ufficio riformato, quindi, con possibilità di essere applicato senza dover sconfinare in “figure sintomatiche” come l’”eccesso di potere”, ma prendendo come modello l’infedeltà patrimoniale con il conflitto di interessi come base, rimane una norma che ha un suo significato in relazione al pubblico agente, che deve agire secondo la disposizione dell’art. 97 Cost., ossia secondo i criteri dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica Amministrazione. Ed è ovvio, come nel caso del conflitto di interessi, si violi il principio dell’imparzialità. Dobbiamo, quindi, valutare la norma nell’ottica del suo orientamento costituzionale, che dovrebbe portare ad un obbligo di penalizzazione nel senso qui indicato.
Questa è però la critica che il collega Domenico Pulitanò (Obblighi costituzionali di tutela penale?, in RIDPP, 1983, 484 ss.) fece al collega Franco Bricola (voce Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. It., XIX, 1973, 7 ss., nonché in ID, Scritti di diritto penale, I, I, Milano, 1997, 539 ss.), nel senso dell’insussistenza di obblighi costituzionali di penalizzazione. Ciò nonostante, ci si deve chiedere se si possa legittimamente mandare esente da pena il pubblico agente che fa gli interessi propri, o di un prossimo congiunto, anziché quelli della pubblica Amministrazione. A mio avviso, no.
Si potrebbe però obiettare che esiste l’ambito del diritto amministrativo, come anche il collega Merlo ha ricordato di recente (cfr. MERLO, La felicità di Sisifo: a proposito dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, in DPP, 2024, 1113 ss.). La giustizia amministrativa ha, tuttavia, comunque un tempo lungo di gestazione, mediamente tre anni in primo grado, con dei giudici, quali quelli amministrativi, che per di più di diritto penale potrebbero non essere particolarmente esperti.
Ecco perché il legislatore, invece di cancellare la norma con un tratto di penna, avrebbe dovuto riflettere maggiormente sul notevole vuoto di tutela provocato.
Esistono altre figure, ma non può restringersi l’intervento della norma penale solo a “casi-limite”, come quello in cui il pubblico agente si faccia dare o promettere “altra utilità” che potrebbe essere utilizzata dalla giurisprudenza “giuscreativa” in futuro per colmare il vuotò di tutela. E la prova del vuoto creato è l’aver fatto resuscitare il peculato per distrazione, evidentemente cercando in questa maniera di colmare, seppur parzialmente, il vuoto venutosi a creare.
E ciò comporterà un proliferare, appunto, di giurisprudenza “giuscreativa”, poiché i giudici, l’abbiamo già verificato, non si acquieteranno rispetto al legislatore – la questione dei migranti docet – ed allora è ragionevole presupporre che estenderanno il concetto di “altra utilità” fino a far rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta.
Quindi Professore, mi sembra di comprendere che a suo avviso il rischio concreto che si corra consiste nella sterilizzazione della funzione general-preventiva che la norma esercitava, con possibili conseguenze nefaste in punto di condotte dolosamente perpetrate in futuro da parte dei pubblici ufficiali. Fatta questa premessa, Le chiedo se, in disparte i rimedi offerti dalla giustizia amministrativa, non possano comunque essere sufficienti a spiegare la funzione deterrente altre forme di contrasto e/o punizione, quali quelle della giustizia tributaria, che già oggi in molteplici casi si affianca alla giustizia penale.
Il limite applicativo della giustizia tributaria, così come di quella amministrativa, consiste nella non applicabilità di un principio generale che è tipico del solo diritto penale, e cioè che l’ignoranza della legge penale non scusa. Oltretutto, a mio avviso, la sola minaccia di pena pecuniaria, specialmente se commisurata ancora tradizionalmente “a somma complessiva” e non invece a tassi giornalieri, non dissuaderebbe sufficientemente dalla commissione di condotte illecite. Il privato cittadino che si ritiene vittima di un’ingiustizia, potrebbe, quindi, trovare molte più difficoltà a far valere le sue ragioni dinanzi a queste diverse giurisdizioni.
Tornando, poi, alla ragione ispiratrice della riforma, questa affonda le sue radici nella c.d. “paura della firma”, al fine di non creare situazioni di stallo nella gestione della cosa pubblica. Assistiamo, quindi, ad una sorta di “pubblica Amministrazione difensiva”, al pari della c.d. “medicina difensiva” (sia consentito, in argomento, il rinvio a MANNA, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014). Secondo questa impostazione, allora, non si dovrebbero punire neanche i medici, anche dinanzi a casi di “colpa grave”. Rimanendo all’ipotesi effettuata, si sarebbe potuto applicare lo stesso principio che ha condotto a limitare la punibilità nei casi di “colpa grave”, ma non ha certo eliminato del tutto le ipotesi di responsabilità professionale medica. Perché un presidio penale risulta necessario, anche in quanto non dobbiamo mai dimenticare che, accanto agli autori di reato, esistono anche le persone offese, come dimostra il novellato art. 111 Cost.
Professore, lei prima faceva riferimento ai lavori della Commissione Morbidelli che, come del resto larga parte della dottrina, ha sostenuto che sarebbe stato più opportuno imboccare una strada intermedia, che conducesse ugualmente ad una rassicurazione dei pubblici agenti nello svolgimento delle proprie funzioni senza però abdicare, tout court, ad un controllo giurisdizionale sulle rispettive condotte, onde evitare di agevolare condotte dolosamente arbitrarie. Posta l’astratta condivisibilità di un tale orientamento sappiamo anche, però, che negli ultimi decenni, tentativi in tal senso ne sono stati fatti diversi, penso alla riforma del 1993 e, da ultimo, a quella del 2020. Ed allora Lei ritiene che sia concretamente percorribile questa strada? Ci troviamo di fronte ad una vistosa inefficienza del legislatore che negli ultimi decenni non è stato in grado di elaborare una norma chiara e che contemperasse le esigenze di tutela del bene giuridico senza esporre a continui rischi di criminalizzazione gli esercenti la pubblica funzione o questa possibilità rimane una chimera?
A mio avviso il legislatore ha tenuto conto che l’abuso d’ufficio dal 1930 in poi ha trovato sempre più ristretta la strada applicativa sino all’”estensione giurisprudenziale”, che ha introdotto l’eccesso di potere nel suo raggio applicativo.
Conseguenza ineludibile è stata l’abrogazione della norma, cui si è giunti per evidente volontà politica, cioè per le istanze pressanti in tal senso dell’elettorato dei sindaci. La consapevolezza della “cattiva coscienza” del Legislatore la ritroviamo però nel momento in cui – nella consapevolezza del vuoto di tutela generato – riporta in vita il “peculato per distrazione”. Ciò ha determinato attualmente la reazione della magistratura che, in vari tribunali italiani, ha eccepito la incostituzionalità della norma abrogatrice.
Professore, ritiene che l’abolizione dell’abuso d’ufficio, possa portare in dote l’ulteriore criticità di lasciare aperta la strada a distorsioni applicative in punto di qualificazione giuridica di condotte che potrebbero essere ricondotte a ben più gravi fattispecie di reato?
È un rischio possibile. Ebbene, la magistratura, per il momento, sta tentando di eccepire la incostituzionalità della norma abrogatrice. Se, però, la Corte costituzionale dovesse rispondere negativamente, anche perché diversamente significherebbe far rivivere una norma che è stata abrogata dal Legislatore, con ogni conseguente criticità rispetto al principio di stretta legalità e di irretroattività di una norma che certamente non è più favorevole al reo, a mio avviso, sarà immaginabile un ricorso alla giurisprudenza “giuscreativa”, che potrebbe estendere la littera legis di norme quali, ad esempio, la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, finendo per farvi ricomprendere le condotte prima punite ai sensi dell’art. 323, attraverso il già ricordato concetto di ”altra utilità”.
Che il ricorso alla giurisprudenza giuscreativa rappresenti il rischio maggiore, ce lo ricorda un grande Maestro e filosofo del diritto quale Luigi Ferrajoli, che in un recente volume (Giustizia e Politica. Crisi e rifondazione del garantismo penale, Bari, 2024, 80 ss.), ha evidenziato come la stessa contrasti con il principio di stretta legalità e, in particolare, con la tassatività della norma penale, aspetto, del resto, già evidenziato dalla Corte costituzionale con la famosa sentenza redatta dal collega Francesco Viganò, che disquisendo sulla differenza tra il delitto di maltrattamenti e quello di atti persecutori, ha inserito, seppur come obiter dictum, la necessità, in materia penale, di un’interpretazione stricta che tenga, per l’appunto, conto del principio di tassatività (Corte cost. 21/98, in FORTI-RIONDATO-SEMINARA, Commentario breve al codice penale, 7ᵃ, Milano, 2024, 2507). V. anche ora l’intervista a Luigi Ferrajoli di P. Pallone, in Ante Litteram, 2024, n. 2, 8 ss.
Arriviamo ora al tema di stringente attualità, cui abbiamo già accennato, e cioè la proliferazione di questioni di legittimità costituzionale, basate su diversi profili. Quello in questo momento maggiormente utilizzato è il riferimento alla presunta violazione degli articoli 11 e 117 della Costituzione, intesa quale contrarietà della norma abrogatrice censurata ad obblighi sovranazionali, tra tutti quelli che si ritiene siano stati assunti con la Convenzione di Merida. Ed allora, anche in considerazione del suo ruolo istituzionale quale condirettore, insieme al prof. Losappio, dell’Osservatorio Corte costituzionale dell’Unione delle Camere Penali Italiane, di cui ho il piacere ed il privilegio di far parte, non posso non chiederle quale sia il suo pensiero in merito.
Una prima tesi in argomento era quella dell’impossibilità di far rivivere una norma abolita perché ciò contrasterebbe con il principio di stretta legalità e con il sub corollario del principio di irretroattività della norma penale, che contrasterebbe con la reviviscenza della norma abrogata. Esaminando le ordinanze e le memorie, in particolare della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia (cfr. Abolizione parziale del traffico di influenze illecite: la Procura di Foggia chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale, in Sistema penale, 1.10.2024), ci siamo, però, resi conto che l’originario riferimento all’art. 25, comma 2, della Costituzione si può superare attraverso il ricorso agli artt. 11 e 117 della medesima, perché entrambi stabiliscono che il sistema giuridico penale deve conformarsi alle Convenzioni, alle Direttive ed alle normative internazionali generalmente riconosciute. E veniamo, quindi, alla Convenzione di Merida, delle Nazioni Unite, del 2003, contro la corruzione, firmata dallo Stato italiano il 9 dicembre dello stesso anno. Tale Convenzione si occupa anche e specificamente dell’abuso d’ufficio, ma sul punto emerge un problema linguistico e, quindi, esegetico, particolarmente delicato. Ciò in quanto nella Convenzione si indica, in riferimento alla criminalizzazione delle condotte, l’espressione “shall consider adopting“ che, letteralmente, significa che il Paese “dovrebbe valutare di adottare” – quindi si esprime al condizionale – una sorta di “raccomandazione”, più che di un obbligo di penalizzazione.
Quindi, se da un lato la Convenzione non violerebbe il principio di irretroattività in materia penale, in quanto norma ratificata in Italia in un momento in cui il delitto di abuso d’ufficio già esisteva, dall’altro non risulterebbe vincolante, in quando, dal punto di vista lessicale, si esprime in termini di possibilità e non di imposizione.
Diversamente, nel Progetto di Direttiva comunitaria ancora non varata, si afferma, quale imperativo, che l’Italia “deve” prevedere la rilevanza penale della fattispecie in discorso.
Ne consegue che le questioni sollevate con le ordinanze richiamate (da ultimo e tuttavia nel senso della sussistenza di un vero e proprio obbligo di penalizzazione dell’abuso d’ufficio derivante dalla Convenzione di Merida, tenendo conto anche della correlativa “Legislative Guide”, Trib. Firenze, ord. 25.10.2024, Pres. Belsito, Est. Innocenti, in Sistema penale, 28 ottobre 2024), dimostrano come la magistratura non abbia accolto di buon grado la riforma, ma, a mio avviso, allo stato, sussistono non poche difficoltà a che le stesse siano accolte dalla Corte costituzionale.
Chiaramente la questione cambierebbe radicalmente se, nelle more, venisse varata la Proposta di Direttiva comunitaria, poiché imponendo questa, come osservato, un obbligo di penalizzazione a quel punto la Corte costituzionale dovrebbe tenerne conto, facendo rivivere l’abuso d’ufficio, pur se tale operazione sembrerebbe apparire in contrasto con il principio di legalità e di irretroattività, ma sussiste già giurisprudenza costituzionale che ammette tale intervento riconoscendo la prevalenza della norma sovranazionale, rispetto al principio di stretta legalità (cfr. Trib. Busto Arsizio, ord. 21.10.2024, Pres. Fazio, Giud. Ferrazzi e Montanari, in Sistema penale, 25 ottobre 2024).
Aggiungo, da ultimo, un riferimento al c.d. “diritto penale minimo”, da sempre teorizzato e sostenuto dal collega Ferrajoli – e, da ultimo, richiamato, nell’ottica, però, del diritto penale come extrema ratio, nell’intervento conclusivo al Congresso straordinario dell’UCPI di Reggio Calabria dal Presidente avv. Francesco Petrelli (dello stesso v. ora, da ultimo, ID, Ogni modello ha bisogno del suo interprete, in Diritto di Difesa, 2023, 449 ss.) – ma in merito a tale tesi mi permetto di dissentire. Invero il collega Ferrajoli (Sul diritto penale minimo (risposta a Giorgio Marinucci e a Emilio Dolcini), in Foro it., 2000, V, 125 ss.), sostiene che diritto penale minimo significhi che la norma debba tutelare beni giuridici che riguardino “cittadini in carne ed ossa”. La critica avanzata a questa tesi prende le mosse dalla circostanza che, se ciò fosse accettabile, dovrebbero divenire illeciti amministrativi tutte le residue fattispecie nella quali il bene giuridico tutelato non riguardi l’individuo e, tra queste, anche tutti i reati contro la pubblica Amministrazione, oppure i delitti ambientali, e così via, laddove la prassi ci dimostra che l’Autorità amministrativa non è, di per sé, in grado di tutelare adeguatamente tali beni.
Sono, al contrario, propenso a giungere, come ammoniva il collega Enzo Musco, ad un diritto penale “ridotto” (cfr. MUSCO, A proposito del diritto penale «comunque ridotto», in PEPINO (a cura di), La riforma del diritto penale, Milano, 1993, 170 ss.), inteso quale extrema ratio, anche se ho l’impressione che l’attuale Governo opti per un diritto penale massimo, poiché si è criminalizzata anche una serie di modi di essere degli individui, o i loro “atteggiamenti interiori”, come nell’ipotesi della incriminazione della resistenza passiva del DDL sicurezza, cioè una sorta di “diritto penale totale”, per dirla con il collega Filippo Sgubbi (Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna, 2019).
Si potrebbe, invece, ulteriormente ripensare al codice penale, trasformando in illeciti amministrativi, in genere le contravvenzioni, e mutando in delitti quelle sole ritenute necessarie. Non mi sembra, però, che si sia intenzionati a procedere in questa direzione.
Probabilmente, per operare una sintesi, dovremmo giungere ad un diritto penale minimo nell’accezione di diritto penale giusto ed essenziale, evitando di usare la leva penale quale strumento di risoluzione dei conflitti sociali, agitato troppo spesso a scopi propagandistico-elettorali. In conclusione Professore, lei crede che potrà incidere sulla decisione della Corte costituzionale il pronunciamento del luglio 2024 del Consiglio dell’Unione Europea che, per quanto riguarda l’abuso d’ufficio, sostituisce l’obbligo di penalizzazione con una mera facoltà?
Potrà certamente avere influenza sulla proposta di Direttiva, perché ciò potrebbe comportare una revisione della proposta stessa, visto il senso diverso cui si dirige il pronunciamento del luglio 2024 del Consiglio dell’Unione Europea. La Corte costituzionale potrebbe, comunque, come avvenuto anche in un recente passato, “ripassare la palla” al Legislatore, il quale, però, a differenza che nel passato, si è già espresso sul punto.
Vorrei concludere specificando che il vero problema, però, consiste in una mancata codificazione, disattesa nonostante tutti gli interventi in tal senso portati avanti negli anni dalle varie Commissioni ministeriali succedutesi. Invero, l’unico intervento concreto è stato quello di riforma del codice di procedura penale, che ha portato alla transizione da un sistema inquisitorio ad uno “tendenzialmente accusatorio”, come si espresse ufficialmente a suo tempo il Ministro della Giustizia, prof. Giuliano Vassalli. Il codice penale, invece, è rimasto quello del 1930, così favorendo una serie di integrazioni eterogenee e non coordinate fra loro, né con la parte generale, né con quella speciale (cfr. già FIANDACA-MUSCO, Perdita di legittimazione del diritto penale?, in RIDPP, 1993, 16 ss.). Tra l’altro, con il continuo ricorso al decreto-legge, si evidenzia come il potere dello Stato in crisi, sia, purtroppo, quello parlamentare.
In tale contesto, si favorisce, pertanto, l’incremento di un diritto penale di carattere “populistico-securitario”, teso a calmare – illusoriamente – i bisogni di pena e di sicurezza della popolazione. Ogni qualvolta sussistono situazioni emergenziali, ecco che interviene subito il diritto penale, con la creazione di nuove fattispecie, oppure con l’inasprimento penologico di quelle preesistenti.
*Emerito di Diritto Penale all’Università di Foggia – Corresponsabile dell’Osservatorio Corte di Cassazione dell’UCPI
**Responsabile Scuola Territoriale Camera Penale di Catanzaro “A. Cantàfora”