di Luigi Petrillo* e Federico Papa** –
I – Il caso “Banca Progetto” ed i suoi precedenti
Le cronache giudiziarie hanno dato, di recente, grande risalto al provvedimento, assunto dalla sezione autonoma misure di prevenzione del Tribunale di Milano, con il quale è stata disposta, ai sensi dell’art.34 del Codice dell’Antimafia, l’amministrazione giudiziaria nei confronti di un importante istituto di credito di rilievo nazionale.
La misura è stata adottata, su richiesta della locale Procura della Repubblica, alla luce della rappresentazione da parte del requirente di un modus operandi della banca “opaco e discutibile” che avrebbe sostanzialmente agevolato la concessione di finanziamenti – garantiti dallo Stato – ad imprese e persone fisiche collegate a soggetti indagati per reati tributari, fallimentari, aggravati ex art. 416 bis 1 c.p..
Nel provvedimento in rassegna, dopo essersi escluso il coinvolgimento degli esponenti dell’istituto di credito nelle attività delittuose dei percipienti i finanziamenti, l’adozione della misura viene concepita allo scopo di risanare sia il modello organizzativo che – par di comprendere – di business dell’azienda creando i presupposti per un’attività di impresa virtuosa, che impedisca l’infiltrazione illegale, grazie all’intervento sinergico del Tribunale e dell’amministratore giudiziario in funzione del “ridisegno” di adeguati strumenti di governance.
Il decreto si iscrive a pieno titolo e, anzi, rivendica come fonte di ispirazione tecnico-giuridica, la giurisprudenza formatasi presso la medesima sezione meneghina a partire dal giugno del 2016, che ha prefigurato la coerenza dell’istituto dell’amministrazione giudiziaria, dei suoi presupposti applicativi e delle sue finalità, rispetto a fenomeni di infiltrazione criminale in importanti comparti dell’economia, quali, tempo per tempo, la fieristica, la sicurezza privata, la manifattura: in ciascuna di tali occasioni, il Giudice della prevenzione è intervenuto disponendo l’amministrazione giudiziaria delle imprese, che risultavano avere, nella prospettazione dell’autorità proponente, di fatto agevolato soggetti indagati di delitti rientranti nel catalogo di cui al co.1 dell’art. 34, ora affidando appalti in modo chiaramente irregolare, ora non impedendo che le commesse venissero eseguite sfruttando lavoro minorile o caporalato, ora impropriamente finanziando soggetti terzi indagati in procedimenti di criminalità organizzata.
In tutti tali casi, alle persone giuridiche raggiunte dal decreto applicativo della misura di cui all’art. 34 Cam è stata rimproverata una condotta negligente in conseguenza della quale, nella inconsapevolezza della agevolazione dell’attività criminosa dei terzi impropriamente appaltati e/o finanziati, sono state violate le norme e le buone pratiche vigenti nei rispettivi settori economici di operatività, alimentando, di fatto, il rischio di infiltrazione delinquenziale nei medesimi comparti.
II. La “colpa di prevenzione” e la soglia probatoria della pericolosità
Snodo essenziale dell’argomentare del Tribunale appare essere la convinzione secondo la quale l’istituto dell’amministrazione giudiziaria possa trovare applicazione – anche – nei confronti dei beni organizzati in azienda non solo quando l’attività economica risulti direttamente o indirettamente sottoposta alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’art. 416 bis del codice penale e quando il libero esercizio dell’attività agevoli i proposti per l’applicazione di misura di prevenzione ovvero gli indagati dei delitti di cui all’art.4 del, co.1, lett. a), b) e i-bis) del D.Lgs.159/2011, ovvero dei delitti di cui agli artt. 603 bis, 629, 644, 648 bis e ter c.p., ma anche quando l’impresa, attraverso chi ne esercita la funzione di direzione e controllo, ponga in essere una condotta oggettivamente agevolatrice, ancorché non soggettivamente sorretta dall’intenzionalità.
Il Tribunale chiarisce, infatti, che ove il rimprovero mosso all’agevolatore afferisse condotte eccedenti il perimetro della colpa, allora troverebbero applicazione sul piano penale gli istituti concorsuali e, su quello della prevenzione, quelli del sequestro e della successiva confisca.
Non è certo la prima volta che sul variegatissimo proscenio della prevenzione vengano valorizzate fattispecie di origine colposa: basti pensare alla disciplina di cui agli artt. 52 e ss. del codice dell’antimafia in tema di riconoscimento della buona fede del terzo creditore munito di garanzia reale sui beni del proposto ed alla copiosa giurisprudenza di legittimità su di essa formatasi, che ha da tempo svincolato l’ablazione del bene-credito dall’accertamento della contiguità dolosa tra creditore e prenditore, assai discutibilmente subordinandola anche solo alla dimostrazione della violazione colposa delle norme disciplinanti l’esercizio del credito.
Ma non è chi non veda che, mentre nella disciplina appena richiamata il parametro colposo viene in rilievo in relazione ad un subprocedimento di matrice fallimentare funzionale al discrimine delle aspettative recuperatorie del terzo (tendenzialmente nella fase successiva all’esaurimento della fase di cognizione), con il provvedimento in rassegna si incide, invece, in modo assai invasivo sulla libertà di impresa del terzo, quando le indagini relative agli “agevolati” non si sono ancora definite, quando non pare essere nemmeno iniziato il procedimento di prevenzione nei confronti degli stessi e, dunque, quando lo stigma criminale di costoro non sia stato ancora giudizialmente accertato.
Il provvedimento in rassegna pare rivendicare legittimità, richiamando la risalente pronunzia della Corte Costituzionale n. 487/1995 che aveva “salvato” l’istituto diretto predecessore di quello prefigurato dal vigente art. 34 Cam, ovvero la “sospensione temporanea” di cui agli artt. 3-quater e 3-quinquies della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), inseriti dall’art. 24 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla Legge 7 agosto 1992, n. 356.
Tuttavia, non può non osservarsi che in tale occasione il Giudice delle leggi, investito della questione di legittimità costituzionale della norma, che il remittente denunziava per violazione dell’art. 27, laddove assoggettava al provvedimento ablatorio persone “sostanzialmente incolpevoli”, ovvero soggetti per i quali “non ricorrevano i presupposti per l’applicazione né di una misura di prevenzione personale né di una misura di prevenzione patrimoniale, osservava che la misura in argomento, destinata a svolgere nel sistema una funzione meramente cautelare e che si radica su un presupposto altrettanto specifico, quale è quello del carattere per così dire ausiliario che una certa attività economica si ritiene presenti rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi, era stata pensata per colpire i “terzi” che consentivano un circuito ed una commistione di posizioni dominanti e rendite che contribuivano a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul territorio; sempre che se ne accertasse la consapevolezza delle conseguenze che da tali comportamenti potessero derivare.
Insomma, una sorta di pericolosità soggettiva derivata da colpa con previsione o, forse meglio, da una forma di preterintenzione.
Ed invece, nell’orientamento del Tribunale meneghino la dimensione soggettiva entro la quale viene sussunta la condotta del terzo è esclusivamente colposa, il che, ad avviso di chi scrive, pone evidenti problemi di sistema.
Pare, infatti, del tutto fuori discussione che lo strumentario della prevenzione, concepito per fronteggiare fenomeni di accumulazione patrimoniale illecita di origine mafiosa possa essere utilizzato allo scopo di “risanare” imprese non condizionate dalla criminalità organizzata, né da questa infiltrata ma la cui governance sia risultata inadeguata a fronteggiare “futuri incidenti di commistione”.
Non è assolutamente convincente, sempre sul piano sistematico, la motivazione attraverso la quale il Tribunale giustifica una simile forma di intervento in ipotesi caratterizzate da colpa. Si tratta, infatti, di un percorso argomentativo inferenziale, fondato su una premessa maggiore inaffidabile o, meglio, non del tutto affidabile. Infatti, da un primo punto di vista, la circostanza che in caso di agevolazione volontaria operino le misure di prevenzione patrimoniali ablative non è necessariamente vera, essendo anzi osservazione comune come la risposta ordinamentale statisticamente più frequente sia di tipo interdittivo. La difforme conclusione pare fondarsi su una non corretta interpretazione dell’art. 34 CAM, laddove la clausola di esclusione (“e non ricorrono i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali di cui al capo I del presente titolo”) attiene al grado di stabilità e pervasività di contaminazione dell’azienda, ma non ai profili soggettivi dell’imprenditore.
In secondo luogo, poi, l’idea sottesa al provvedimento – secondo la quale una misura di prevenzione possa essere utilizzata per stigmatizzare la colpa, sol perché la si ritiene inadeguata a “sanzionare” il dolo – oltre ad essere erroneo nelle conclusioni, non risponde ad alcun canone ermeneutico comune. Pur essendo collocata tradizionalmente fuori dalla materia penale, la prevenzione patrimoniale rappresenta un sistema sanzionatorio (inquadrato dalla nostra giurisprudenza in ambito prevalentemente amministrativo), nel quale il rilievo della colpa deve essere previsto dalla Legge. Né la L. 161/17, né i suoi lavori preparatori, né la scheda di sintesi elaborata dal Servizio Studi della Camera dei Deputati attribuiscono al novellato art. 34 CAM una latitudine applicativa estesa ai profili colposi.
Né pare coerente con una visione liberale del Diritto quella prospettiva eticizzante e promozionale secondo la quale il giudice della prevenzione possa ritenersi abilitato ad intervenire onde evitare che la colpa si trasformi in dolo, che pure traluce da alcune cadenze del decreto in commento, e che travalica persino il requisito minimo della suitas della condotta.
Tale accezione è resa vieppiù problematica dal livello di accertamento sia della dimensione della colpa del soggetto agevolatore che della dimensione criminale del soggetto agevolato: ai fini dell’applicazione dell’istituto di cui all’art. 34 – nella formulazione vigente all’esito della modifica di cui alla L.161/2017 – sono, infatti, richiesti “indizi sufficienti” dell’agevolazione dei terzi ed è a sua volta sufficiente che questi ultimi siano sottoposti a procedimento di prevenzione o a procedimento penale, non essendo necessario che la “mafiosità” di costoro sia stata giudizialmente accertata.
Qui basti solo pensare che l’applicazione della per molti versi analoga misura di cui agli artt.15, 45, 9 e 15 del D.Lgs. 231/2001, è subordinata invece alla sussistenza di gravi indizi di responsabilità da reato dell’ente, dei suoi amministratori ed al conseguimento di un profitto illecito dall’ente medesimo.
III. Conclusioni
Preoccupa il costante ampliamento da parte dell’organo proponente prima e del Tribunale poi, dell’interpretazione della colpa in organizzazione.
I primi decreti assunti nell’ambito dell’imprenditoria (logistica) contestavano il mancato intervento in una situazione di presunto sfruttamento, ex art. 603 bis c.p.
In quel caso, tuttavia, si dava conto almeno del fatto che i soggetti che si ritenevano meritevoli della misura di cui all’art. 34 apparivano consapevoli delle conseguenze dell’attività agevolatoria, tanto che il Tribunale meneghino riportava nel suo provvedimento che “esistono poi numerosi elementi per ritenere che… s.r.l. fosse pienamente consapevole, malgrado la formale presenza di accordi contrattuali fra la stessa e la fornitrice… con i quali la seconda si impegnava a garantire “il regolare adempimento degli obblighi retributivi e contributivi nei confronti degli Addetti in conformità alle norme di legge e del C.C.N.L della situazione di sfruttamento lavorativo e reddituale realizzata dai gestori della rete”.
Nei successivi provvedimenti, nell’ambito della moda per esempio, la sezione autonoma del Tribunale Misure di Prevenzione di Milano ha deciso invece di applicare l’amministrazione ex art. 34 D.lvo 159/2001 a prescindere da una provata consapevolezza, ma in ragione di un omesso controllo, per la violazione quindi di un obbligo di vigilanza, che starebbe in capo all’imprenditore che si affida ad un subappalto: “il meccanismo è stato colposamente alimentato da che non ha verificato la
reale capacità imprenditoriale delle società appaltatrici, alle quali affidare la produzione e non
ha nel corso degli anni eseguito efficaci ispezioni o audit per appurare in concreto le effettive condizioni lavorative e gli ambienti di lavoro. I modelli organizzativi e gestionali della società, almeno allo stato, si sono nel concreto rivelati inadeguati”
Onde alla colpa in organizzazione è addirittura ascritta la superficiale vigilanza e, quindi, un comportamento difettante della suitas, a prescindere dalla conoscenza di eventuali comportamenti illeciti.
Anche nel caso di specie la colpa consisterebbe proprio nel mancato funzionamento dei presidi del modello ex D.lvo 231/2001, ma la sensazione che si ricava è che ci si stia allontanando dalla vera ratio delle misure di prevenzione e dalla ragione per l’applicazione dell’amministrazione giudiziaria.
L’assunzione del provvedimento prima che si sviluppi alcuna forma di contraddittorio con l’azienda oggetto del decreto e l’espressa previsione che l’atteggiamento assunto dalla società “vigilata” in seguito all’adozione dell’amministrazione giudiziaria verrà valutato dal Tribunale, se non collaborativo, relegano le funzioni difensive ad una forma di accompagnamento e di confronto con l’amministratore giudiziario.
Non può non destare altrettanta preoccupazione la circostanza per la quale il Giudice della prevenzione si è sostituito, scavalcandola più che affiancandola, alla vigilanza della Banca D’Italia, che nel caso di specie era già intervenuta, comminando severe sanzioni.
D’altra parte, leggendo i provvedimenti adottati emerge anche la chiara prospettiva di sindacato del modello organizzativo ex D.Lgs. 231/2001 ad opera del giudice della prevenzione, laddove è noto che essa sia riservata al giudice penale.
L’osservatorio Misure di Prevenzione e Patrimoniali dell’unione delle Camere Penali Italiane non può non esprimere preoccupazione al cospetto di tale ormai tipizzata politica giudiziaria che trova nel sistema della prevenzione, poco garantito processualmente e tutt’altro che determinato e tassativizzato sul versante sostanziale, un humus favorevole allo sviluppo di una “pratica” sanzionatoria, distante non solo dai principi del diritto penale liberale, ma anche da quello “statuto minimo” di garanzie che la Costituzione e la Convenzione EDU assicurano a qualsiasi soggetto inciso nei suoi diritti fondamentali.
*Consigliere del Direttivo della Camera Penale Irpina – Componente Osservatorio Misure di Prevenzione e Patrimoniali UCPI
** Tesoriere della Camera Penale di Milano – Componente Osservatorio Misure di Prevenzione e Patrimoniali UCPI