Vicissitudini, opera, pensiero
di Pantaleone Pallone* –
Il filosofo cosentino Bernardino Telesio (1509-1588) è indubitabilmente tra i grandi pensatori del XVI secolo europeo. È il secolo nel quale il diritto, la cultura e la politica scoprono in anticipo sui tempi la contemporaneità, allungandosi fino alla critica del potere e della legislazione che nei duecento anni successivi sfoceranno nelle rivoluzioni borghesi sul piano socio-economico e nelle codificazioni, su quello delle fonti giuridiche in senso stretto. Per il giurista il Cinquecento, che Telesio percorre fino in fondo, è contemporaneamente il periodo più maturo del consolidato metodo consuetudinario-compilativo (nel 1582 la Chiesa riorganizzerà la possente tradizione del diritto canonico in un Corpus Iuris che sistematizza le norme delle epoche precedenti) e la fase delle grandi transizioni, che dimostrano i limiti e i problemi del vecchio regime.
A reclamare questa svolta è in primo luogo la giurisprudenza dei tribunali. Parallelamente alle autonomie comunali e statutarie che avevano segnato l’esperienza pratica del contenzioso, almeno dal Duecento in avanti – col ruolo delle università, dei mestieri, delle corti locali – la giurisdizione si era data i rudimenti di una vivace organizzazione periferica, basata sul principio della competenza territoriale. Quando nel XVII secolo i poteri mondani si rinsaldano, accentrandosi, gran parte di quel reticolato di usi, di prassi giudiziarie, di stylus iudicandi, andrà perduta: non così, però, le infrastrutture culturali immateriali che avevano forgiato l’esperienza del diritto e la cassetta degli attrezzi di una rinnovata professione forense. L’alluvionale produzione normativa locale è quella dell’Azzeccagarbugli di circa cent’anni dopo: un affastellamento disorganico di fonti, dove la scaltrezza dell’avvocato (un misto di capacità selettiva e rinvenimento delle norme opportune) deve drammaticamente tenere giunte esigenze pratiche e malversazioni decentrate, conflitto religioso – decisivo nelle controversie in materia di status – e affermazione di una dinamica mercatoria basata, mano a mano, sugli investimenti e sui rapporti di debito-credito.
Da questo punto di vista, Telesio e la sua famiglia sono, come molti esponenti della società meridionale culta, ancora espressivi dei rapporti patrimoniali preesistenti: nobili di lignaggio, legati ancora alla civiltà dei titoli accordati dal potere regio o da quello ecclesiastico, non dalle obbligazioni o dall’amministrazione fondiaria produttiva. I fratelli del pensatore cosentino attraverseranno per intero questa articolata vicenda di contesto. Nel 1564, a dar ragione alla storiografia più accreditata, Pio IV offre a Telesio stesso l’arcivescovado di Cosenza: avrebbe voluto dire, per l’A., rinunciare all’attività di conferenze, dissertazioni e pubblici confronti che da decenni contraddistingueva l’esercizio della sua notevole capacità dialettica. Guardava al (ri)nascente mondo delle accademie, entità non riconducibili alla poi stantia dicotomia tra diritto pubblico e diritto privato, e invece imbevute di aspetti dell’uno e dell’altro emisfero. Nate su impulso di un associazionismo privatistico meglio formato dello stesso ceto di governo, però in grado di svolgere una funzione almeno lato sensu collettiva, che da Napoli in giù dà vita a una brillante geografia politica di intervento culturale. Rispetto a questo scenario di grandi confronti su scala continentale, per Telesio scegliere la via curiale sarebbe stata una grande comodità, ma anche una dorata prigionia.
Non va dimenticato che il Nostro nel 1554 è documentatamente sindaco dei nobili, il ceto locale vagamente cortigiano, che tuttavia non riesce a difendere il proprio lucro e ciò che resta del proprio feudo (qui inteso formalmente come organizzazione proprietaria nei regni meridionali). Quanto a spirito lucrativo, del resto, è il meno abile di tutti: aspetto non da poco anche per l’amministrazione ecclesiastica. Più avveduto, invece, nell’arte diplomatica, dal momento che lo sappiamo impegnato in missioni pontificie nel Napoletano già dagli anni Trenta: il suo rifiuto verso l’episcopato non è perciò visto con ostilità, spianando invece la strada al fratello Tommaso.
Un altro fratello è ucciso dopo una sommossa dei vassalli nel 1579: accusato come luterano, sfiduciato dal suo più prossimo entourage, sarà uno dei tanti lutti nella vita di Bernardino Telesio. Un bagaglio di sofferenza di cui non si riviene traccia immediata nella sua opera più celebre, di contenuto prevalentemente scientifico-pistemico (De Rerum Natura Iuxta Propria Principia), ma che ha tanti capitoli dolorosi al proprio indice: la morte della moglie nel 1561, nonché l’omicidio dell’adorato primogenito Prospero nel 1576 (in cui Telesio stesso rivedeva probabilmente il sé nobile del mezzo secolo precedente). La famiglia Telesio subisce la temperie sociale del tempo in modo quasi barometrico: è un mondo che va sfaldandosi, pur godendo ancora di taluni privilegi (Telesio aveva preso gli ordini minori, al punto che in alcuni documenti è indicato come “chierico”), e proprio per questo diffusamente avversato dagli altri attori sociali. Una plebe crescentemente ostile, disagiata, sfruttabile, facile alle sirene dei disordini – nasce più o meno in questo periodo la figura dell’arruffapopolo, del sedizioso d’occasione che approfitta dell’onda lunga di scontri e malcontenti – e una alta borghesia alleata con quella parte del notabilato di nascita che impone la riforma del governo cittadino.
La vita di Telesio trova nel suo percorso teorico-speculativo una singolare forma di simmetrica conferma: scontatamente testimonianza di un certo frazionismo e declino nobiliare la prima, pionieristico di una nuova effervescenza metodologica il secondo. Lo svecchiamento epistemologico che i grandi pensatori come Bruno, Campanella e Telesio impongono al dibattito europeo ne decreta la fortuna nell’utilitarismo, nell’empirismo, di lì a breve nel pensiero illuministico (non solo anglofono).
Si è obiettato che a Telesio, rispetto ai filoni intellettuali che lo eleggono a modello e a riferimento (in primo luogo, Bacone), mancherebbe il profilo di una specifica presa di posizione in senso politico. In realtà, la questione politica nel pensiero telesiano è meno collaterale di quanto appaia, attestandosi a un’analisi quantitativa delle proposizioni dedicate al governo della città e al sistema preferibile di amministrazione.
Innanzitutto, il Nostro è testimone, piuttosto precoce, di un evento che segnerà nell’immaginario collettivo in profondità tutto il secolo: il sacco dei Lanzichenecchi nel 1527, in cui è il filosofo stesso a venire catturato. Nella mentalità diffusa, quel sacco ricorda l’omologo del 410, così fondativo nell’opera di Sant’Agostino e, in particolar modo, nel De Civitate Dei. Politica tuttavia è anche la postura intellettuale telesiana. Una critica avversativa che risale già allo scrittore neoplatonico Patrizzi identifica Telesio nel fortunato introduttore di un motivo di critica ad Aristotele, dominante nel pensiero rinascimentale di formazione canonica; Telesio si sarebbe limitato a ordinare, con la mentalità del tempo, la mole di contraddizioni rinvenibili ex post nel pensiero aristotelico, facendo della sua opera una sorta di dizionario critico proprio a danno di quella produzione. In realtà, la questione è ben diversa e ben più impegnativa.
Un punto di differenza qualificante pur esiste: Aristotele pone a principio della sua dottrina politica la relazionalità umana; Telesio l’istinto d’autoconservazione. Non è però contro il grande filosofo greco che il pensatore cosentino si scaglia. Combatte mimeticamente, piuttosto, quell’aristotelismo molto manierato, ben presente nel pensiero scolastico e nella teologia ufficiale cattolico-romana, che ha ormai rinunciato alla vitalità speculativa dell’antico Maestro e si limita a ibridarne l’impalcatura fondamentale, con robuste e non sempre filologicamente accorte iniezioni di Patristica. Quella operazione culturale ha perso, tuttavia, gran parte del proprio significato storico: all’inizio apparve monumentale lo sforzo di coniugare il grande pensiero greco col retaggio esperienziale e dogmatico dei Padri della Chiesa, che avevano dato nerbo, prima sistematica e soprattutto ortodossia e ortoprassi al diritto ecclesiale. Ciò però non poteva essere più adeguato alle sollecitazioni materiali dei tempi nuovi; adagiarsi significava reiterare, per proprio vantaggio di posizione, uno schema ormai inservibile.
Uno scenario siffatto, con contrapposizioni simili e privilegi accademici da difendere anche col sangue, era presente da decenni nel campo dell’astronomia: lì la lotta aveva messo gli uni contro gli altri circoli tolomaici e copernicani. La battaglia evolutiva, nel dibattito delle idee, non si sarebbe fermata così facilmente, e proprio per questo Telesio assurse, come scritto da storici del calibro di Eugenio Garin e Alessandro Ottaviani, a campione della libertas philosophandi per la nuova civitas, pronta a raccogliere su di sé il lascito della cultura rinascimentale e le sfide di quella barocca.
*Direttore rivista Ante Litteram
(Pubblicato su Ante Litteram – n.1, aprile 2024 – rubrica “Il Narratore”)