PROPOSITI DI RIFORMA DELLA CUSTODIA CAUTELARE: SPERANZE O PERPLESSITÀ?

di Domenico Nicolas Balzano –

Avverto, in premessa, il dovere di scusarmi con quei lettori, i quali avranno la pazienza di leggere questo articolo, invece che cestinarlo, come meriterebbe, e lo faccio specificando che non ho potuto respingere il garbatissimo invito del mio amico e maestro Francesco Iacopino a scrivere un articolo per la rivista, della quale è responsabile, e che, affermatasi nell’ammirazione dell’Avvocatura nazionale, è orgoglio dell’intera, e a me tanto cara, Avvocatura calabrese.

Un argomento, che m’è parso di grande interesse e meritevole di riflessioni comuni, è quello della custodia cautelare e dei suoi abusi, ritornato al centro dell’attenzione con l’annunzio del progetto di riforma del ministro Nordio, colto gentiluomo, anche di idee liberali – le Sue, non quelle di chi lo circonda – e, forse, ancora meritevole di fiducia.
Il suo progetto di riforma si incentra su due aspetti: l’interrogatorio preventivo e la collegialità dell’ordinanza.

È lecito avere speranze per l’avvio di una nuova stagione o è doveroso maturare perplessità a tal riguardo? Mi sembra che speranza – non molta – e perplessità – anche troppa – siano destinate a convivere.

L’interrogatorio preventivo, cioè la possibilità di rappresentare preventivamente elementi idonei a scongiurare l’applicazione della misura, è verosimile sia destinato all’insuccesso e non solo per le numerose eccezioni, per le quali ad esso non si procede e che è prevedibile si estendano sino al punto da costituire un’eccezione il suo svolgimento, ma perché  si tratterebbe di un atto, asseritamente di natura garantista, che, però, contraddicendola, si svolgerebbe in condizioni di minorata difesa, salvo che l’indagato non disponga – ma è assai raro – di elementi decisivi: un inattaccabile alibi, la dimostrazione di un’omonimia e poco altro.

Risulterà del tutto irrilevante quel che dirà l’indagato ad un organo giudicante che non dispone di poteri istruttori necessari per la verifica della tesi difensiva.

È verosimile, pertanto, che la decisone risulterà identica a quella che sarebbe stata anche senza l’interrogatorio. Se però, tale atto, appare difficilmente idoneo a scongiurare custodie cautelari ingiustificate non è scevro da potenziali pregiudizi; ed è la ragione per la quale parlavo di minorata difesa. Quante concrete possibilità avrà di rappresentare un’argomentata e lucida tesi difensiva l’indagato che abbia conoscenza solo dell’ipotesi di addebito ma nessuna o quasi – ed altrettanto il suo difensore – del materiale investigativo raccolto spesso in numerosi e ponderosi faldoni? Il rischio che egli commetta peccati di ingenuità è reale. E quanta probabilità di ascolto avrà un difensore, il quale, per scongiurare tali peccati, consigli di avvalersi della facoltà di non rispondere, se il suo assistito affida proprio all’interrogatorio la sua speranza di evitare la misura? Peraltro, è noto quanto qualsiasi accusato sopravvaluti il peso delle sue tesi e la propria capacità di rappresentarle efficacemente.
È dubbio, che quest’aspetto della riforma si traduca in un vantaggio per l’indagato ma è, invece, ben più probabile si traduca in un pregiudizio, anche irreparabile.  

Anche il tema della collegialità dell’ordinanza impone riflessioni.
Il principio che ispira la riforma è quello che tre teste ragionino meglio di una e garantiscano maggiore equilibrio. E non sempre è così. Anzi.

Peraltro, si può, per davvero, essere certi che il provvedimento collegiale sia il risultato un confronto tra più intelligenze autonome ed equivalenti sotto il profilo dell’incidenza sul provvedimento? Come funzionino gli organi collegiali è noto a tutti gli Avvocati, i quali ben sanno che la vera collegialità è assai rara. Nella realtà c’è sempre un componente il collegio – il relatore – che ha maggiore conoscenza del fascicolo. Spesso è addirittura l’unico che ne abbia. La sua opinione condiziona l’asserita collegialità. Neppure è infrequente che nel collegio vi sia un componente il quale con maggiore determinazione si batte per imporre la sua tesi ed è molto spesso il più autorevole ma purtroppo il meno disponibile ad accedere alla tesi difensiva.

Una presumibile falsa collegialità è destinata, dunque, a rivelarsi irrilevante quanto ad una significativa riduzione degli eccessi o addirittura degli abusi cautelari. Ma c’è un ulteriore aspetto di riforma, che, piuttosto che irrilevante, la renderebbe pericolosa e nociva. Il ministro, in occasione di un convegno a Napoli, ne parlò, ed, io, ascoltando agghiacciai. Egli disse che se l’emissione dell’ordinanza veniva sottratta alla competenza di un giudice monocratico e riservata ad un organo collegiale, non vi sarebbe più stata la necessità di affidarne la verifica di legittimità formale e sostanziale ad altro organo collegiale: il tribunale per il riesame. L’impugnazione del provvedimento sarebbe stata limitata al solo ricorso per cassazione. Se dovesse compiersi la riforma, anche con tale appendice, i risvolti negativi risulterebbero evidenti. Il ricorso per cassazione può essere proposto solo per ragioni di legittimità e non di merito. Queste ultime venivano rappresentate al tribunale per il riesame, ma non potrebbero essere proposte al giudice di legittimità. Di esse – se anche decisive – la difesa non potrà fare altro uso che quello di riassumerle in un’istanza al giudice che ha emesso la misura e in caso di rigetto, al tribunale per il riesame, nei tempi assai più lunghi previsti per tale peculiare procedura.

Peraltro, il giudice della misura, monocratico che sia o collegiale che dovrebbe diventare – provvede “inaudita altera parte” – valuta le ragioni del p.m., non anche quelle difensive, anche se procede all’interrogatorio preventivo, nel quale parla l’indagato ma non il difensore.

L’udienza di riesame è la prima – e spesso anche l’unica – occasione per la valutazione degli elementi addotti dalla difesa. Ed è quella, nella quale si completa il contraddittorio sulla misura, sino ad essa inesistente, per la presenza di un’unica voce e di nessuna risposta. Eliminarla, pertanto, in nome dell’inutilità di una seconda deliberazione collegiale significherebbe rinunziare al contraddittorio sulla misura ed espellere il difensore dal procedimento cautelare. Vi sarebbe poco da esserne lieti!

Luci ed ombre, dunque, nella riforma annunziata, pallide le prime ed ancora spesse le seconde. È certamente una luce il fatto che il ministro abbia riconosciuto che la misura cautelare è spesso un abuso e un’emergenza che reclama una soluzione non più differibile. È ancora ombra il fatto che la riforma, aggirando il nucleo centrale del problema, riveli più un profilo palliativo che un sembiante risolutivo. Ombre destinate a trasformarsi in tenebre, se la riforma giungesse, in un secondo momento, all’abolizione dell’udienza di riesame.
Sarebbe, dunque, necessario un progetto riformatore che vada al cuore del problema e non s’arresti al pericardio.

Proviamo rapidamente ad immaginare qualche scenario più incisivo.
L’abuso di custodia cautelare trova origine nell’interpretazione, intollerabilmente estensiva della lettera c) dell’art. 274 c.p.p. Tutte le esigenze cautelari pongono un problema di compatibilità con la presunzione d’innocenza, ma quella che è in più stridente contrasto con essa è proprio il rischio di reiterazione del reato. Il giudice della cautela, sebbene applicando la misura riveli di considerare colpevole indagato, ha l’obbligo di continuare a presumerlo innocente, avendo l’obbligo di presumere che la sua valutazione, anche nella parte relativa alla delibazione del materiale probatorio, possa essere in seguito non condivisa. E, invece, non solo non lo presume innocente per quello specifico reato, ma lo presume colpevole di reati futuri, incerti o meramente congetturali. Una presunzione attuale di innocenza trasformata in auna presunzione di colpevolezza futura.

Il legislatore è intervenuto, ancorando a presupposti più rigorosi, concreti e attuali, la valutazione discrezionale del giudice della cautela, ma non ha prodotto il risultato sperato. Ha continuato a prevalere, argomentato ex art. 274 c.p.p., la “libido cautelae et saepe carcerationis”. Bisognerebbe, allora, trovare il coraggio – che manca – di abrogare l’art. 274 lett. C) c.p.p., tutt’al più limitandolo ai soli reati di mafia e terrorismo, per loro natura seriali e caratterizzati da condotte e propositi necessariamente permanenti. Certo, non sono così ingenuo da pensare che la riforma   della lettera c) dell’art. 274 c.p.p., sia da sola sufficiente a porre termine all’emergenza. Alla contrazione della superficie della discrezionalità consentita dall’esigenza di prevenire altri reati, corrisponderebbe, molto probabilmente, una dilatazione degli spazi, riservati alle altre due esigenze e l’inquinamento probatorio busserebbe all’uscio per ottenere maggiore riconoscimento. Tuttavia, inquinamento probatorio e pericolo di fuga si prestano meno che rischio di reiterazione del reato ad interpretazioni estensive e manipolative.
Tuttavia, neppure così procedendo si reca un contributo decisivo alla soluzione del problema, se non si ha il coraggio ulteriore di affrontare l’argomento tabù: quello della responsabilità del giudice.

L’applicazione della misura è caratterizzata dalla più assoluta irresponsabilità nelle due declinazioni: soggettiva per la superficialità della valutazione ed oggettiva per l’assenza di qualsiasi conseguenza a carico del giudice, artefice dell’abuso.

Il giudice della misura non va incontro ad altro accidente che il dissenso di altro che revochi in tutto o in parte l’ordinanza e questo non basta a consigliargli maggiore prudenza.

E indispensabile pensare a forme di sua responsabilità. L’ordine giudiziario alza barricate non volendo accettare nessun’ipotesi di responsabilità del giudice e in nessuna sua forma.
E, però, appare non più rinunziabile individuarne almeno una.

Si può, infatti, essere d’accordo sul rifiuto di ipotesi di responsabilità civile. Che forse creerebbero più problemi di quanti dovrebbero risolverne. Si può ancora essere d’accordo – ma con minore determinazione – nel rifiuto di ipotesi di responsabilità disciplinare di problematica attuazione ma si ha obbligo di essere in totale disaccordo con il rifiuto di un’altra ipotesi di responsabilità: quella professionale.

Se l’iniquità d’una misura cautelare risulta avvalorata dalla revoca della relativa ordinanza o da un’assoluzione in giudizio in presenza del medesimo materiale probatorio o anche dalla concessione della sospensione condizionale per motivi già valutabili dal giudice cautelare, è ingiustificato che a suo carico, non venga emessa almeno una nota di addebito. Se ciò avvenisse e l’insieme degli addebiti incidesse sulle valutazioni di professionalità e sulla progressione in carriera, il giudice della misura verrebbe indotto, assai più che da ogni altra riforma, all’esercizio di una prudenza della quale non sempre è capace.
Il principio di responsabilità si rivelerebbe, pertanto, non solo una categoria della morale, ma anche un contributo significativo all’esercizio della saggezza e alla lucidità del pensiero.

Non ho scritto questo articolo ma l’ho dettato a braccio, ed è risultato troppo lungo. È tempo di chiudere. Se qualcuno – ma dubito siano molti – ha avuto la pazienza di leggere sin qui, riceva il mio riconoscente ringraziamento.

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