PUNIRE SENZA ACCERTARE

di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo* – 

Le misure di prevenzione sono “vecchi arnesi” di controllo sociale, sopravvissuti alla Costituzione ed agli interventi del Giudice delle Leggi, grazie alla forza evocativa della “emergenza”, che si voleva di volta in volta contrastare, o della “sicurezza”, che si voleva assicurare.
Retorica ed ipocrisia, che hanno consentito alla prevenzione, riforma dopo riforma, di sottrarsi alla legalità, nelle sue varie declinazioni di tipicità e determinatezza, tassatività ed irretroattività, divieto di analogia in malam parte, riserva di Legge.

Misure di “bando”, di esclusione, pensate per garantire l’ordine dei centri urbani, all’alba della rivoluzione industriale e delle sue masse di lumpenproletariat disagiato, sono così diventate lo strumento per affrontare molte delle emergenze (reali o percepite) che hanno segnato la storia del nostro Paese.
Grazie alla loro elasticità e deformalizzazione, sono state dapprima “ripescate” per combattere le mafie, salvo poi essere estese a tutti i fenomeni di vera o presunta pericolosità sociale. Mutando obiettivi, hanno progressivamente mutato natura.
L’enorme distanza che separa la prevenzione dalla punizione è stata colmata nel volgere di pochi decenni.

Le leggi che, nel 2008/2009, hanno introdotto la possibilità di applicazione disgiunta delle misure di prevenzione patrimoniali, rispetto a quelle personali, e la possibilità della confisca per equivalente sono l’emblema di tale trasformazione, che ha inaugurato un sistema repressivo/predittivo, privo delle garanzie tipiche del giusto processo.

Oggi, le misure di prevenzione – non più il processo – sono il terreno sul quale si concentra la pretesa punitiva, specie patrimoniale, dello Stato. La nuova frontiera della sanzione penale, in cui il proposto è presunto colpevole.

Il procedimento di prevenzione, infatti, consente di “punire senza accertare”: un ossimoro che fa rabbrividire chi è cresciuto al lume delle garanzie illuministiche del processo.
Uno strumento che, per dirla con Tullio Padovani, rappresenta “la violazione più manifesta, conclamata, intollerabile, assurda e vergognosa del diritto europeo”, ovvero un “mostro da eliminare per ristabilire le condizioni di legalità nel nostro Paese”.
Ma, secondo la giurisprudenza italiana, la prevenzione non è riconducibile alla “materia penale” ed alla nozione di “pena” e, pertanto, deve rispettare solo i principi del giusto processo che si applicano alle controversie in materia di diritti e doveri civili.

Nel 2017, decidendo sul caso De Tommaso/Italia, la Corte EDU aveva lasciato intuire che il futuro della prevenzione sarebbe stato nell’alveo della legalità formale.

I giudici di Strasburgo avevano ritenuto che, pur non avendo natura penale, le misure di prevenzione hanno matrice sanzionatoria e devono soggiacere a criteri di accessibilità e prevedibilità della reazione ordinamentale.
In molti avevano salutato quella decisione come un approdo iniziale, ma decisivo, nel percorso di allineamento delle misure di prevenzione agli statuti costituzionali e convenzionali delle pene, secondo una assimilazione concettuale che si presentava ineludibile. Ma le aspettative sono andate deluse.

I principi enunciati dalla CEDU sono stati “sterilizzati” dalla sentenza 24/2019 della Corte Costituzionale, che ha riconosciuto alla giurisprudenza un ruolo integrativo e “sanante” del precetto di prevenzione non accessibile, avallando una sorta di “diritto dei giudici” al di fuori della legalità formale e della riserva di legge.

La soluzione della Consulta è stata, evidentemente, dettata dalla Ragion di Stato: dichiarare tout court l’incostituzionalità delle norme che definiscono la pericolosità generica e, per conseguenza diretta, quella qualificata, avrebbe significato demolire un certo modo di esercitare il Potere, che si regge su tutte quelle asistematicità che fanno delle misure di prevenzione uno strumento al tempo stesso “doppio” ed “unico”.
Un sistema che danna coloro che vi incappano in un girone fatto di imprescrittibilità, di presunzioni, di probatio diabolica, di negazione del contraddittorio, di retroattività sfavorevole.

Dove ogni parola nasconde un inganno dalle mille interpretazioni. Un luogo di sofismi e di distinguo, a metà strada tra l’Inquisizione ed i processi celebrati da Roland Freisler. Forse per questo nessuno ha il coraggio di metterci mano.

In Parlamento giacciono da mesi, all’esame delle Commissioni, progetti di legge che vorrebbero modificare la struttura del procedimento, in particolare impedendo la confisca nei confronti degli assolti ed innalzando lo standard probatorio per il proponente.
Proposte coraggiose che non riescono a superare l’ostracismo di chi ritiene che tutte le garanzie possano essere sacrificate, quando si evocano concetti come sicurezza e il pericolo. E ci si accontenta, allora, di ampliare – di poco – il termine per le impugnazioni.

Era allora inevitabile che la Corte EDU ponesse nuovamente la lente d’ingrandimento sulle misure di prevenzione italiane. Dapprima con il ricorso della famiglia Cavallotti e poi con una pioggia di ricorsi, oggi pendenti, che attengono non solo alla pericolosità qualificata ma anche a quella generica, attualmente raggruppati davanti alla prima sezione della Corte EDU e definiti casi pilota.

Il tema della pericolosità generica impedirà al Governo Italiano di invocare, almeno in questo caso, la necessità di mantenimento di misure che, pur contrarie all’assetto costituzionale e non compatibili con i principi del diritto penale, sono necessarie per contrastare la mafia.
Senza poter agitare lo spauracchio del crimine organizzato, l’Italia dovrà difendersi in diritto e senza far ricorso agli stereotipati registri comunicativi dell’emergenza. Ed allora dovrà rispondere ai quesiti che la Corte Edu ha posto alle parti.

Se la confisca, per i suoi effetti e le sue caratteristiche, sia da considerare una sanzione penale; se la prevenzione abbia una sufficiente base legale e sia contenuta in leggi prevedibili; se sia compatibile, per le modalità ricostruttive dei presupposti applicativi, alla presunzione di non colpevolezza; se l’inversione dell’onere della prova non sia eccessiva per il cittadino e non si traduca in una violazione di quel  medesimo principio di non colpevolezza.Sono quesiti che lasciano intendere quali aspetti del sistema di prevenzione italiano la Corte EDU voglia analizzare.

In particolare, i Giudici di Strasburgo sono interessati a comprendere se gli indizi di pericolosità sociale, anche non qualificata, si risolvano nell’addebito di una “accusa penale” e se, quindi, il relativo procedimento debba essere corredato da quelle garanzie che sovrintendono all’esercizio dell’azione penale.
I precipitati di tale preliminare analisi sono molteplici e tutti idonei a scardinare, finalmente, la “frode delle etichette”.

Le garanzie penali, infatti, invocano innanzitutto il divieto di un nuovo giudizio sui medesimi fatti: non dovrebbe essere possibile sottoporre a procedimento di prevenzione chi sia stato definitivamente assolto nel procedimento penale.

Invocano, poi, tutti i corollari del principio di legalità: non dovrebbe essere possibile applicare retroattivamente la normativa di prevenzione, perché ciò violerebbe il divieto di retroattività; non dovrebbe essere possibile integrare per via giurisprudenziale norme inaccessibili ed imprevedibili, perché ciò violerebbe i principi di tipicità, tassatività, determinatezza e riserva di Legge; dovrebbe essere obbligatoria l’applicazione retroattiva in bonam partem.

Invocano lo statuto del giusto processo: non dovrebbe essere possibile il ricorso a presunzioni che determinino l’inversione dell’onere della prova a scapito del proposto; si dovrebbe garantire la terzietà ed imparzialità del Giudice, mutuando dal processo penale le cause di astensione e ricusazione; non dovrebbe formarsi una prova fuori dal contraddittorio.

A Strasburgo è oggi in discussione l’intero sistema italiano della prevenzione. L’auspicio è che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ne certifichi la non rispondenza ai principi convenzionali.

 

*Osservatorio misure patrimoniali e di prevenzione UCPI

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