DELL’INFANTICIDIO. CRONACA RECENTE DI UN DELITTO ANTICO

di Vittoria Aversa – 

[..] Maria Farrar, nata in aprile,
defunta nelle carceri di Meissen,
ragazza madre, condannata, vuole
mostrare a tutti quanto siamo fragili.

Voi, che partorite comode in un letto
e il vostro grembo gravido chiamate «benedetto»,
contro i deboli e i reietti non scagliate l’anatema.
Fu grave il suo peccato, ma grande la sua pena.
Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi:
ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri.1

Così si conclude una delle poesie più strazianti di Bertolt Brecht, dedicata all’infanticida Maria Farrar, rinchiusa in carcere per il suo crimine e lì uccisa da altre detenute.
La storia di Maria è simile a quella di molte altre donne che, vittime della propria condizione, compiono un atto che indigna la società.
Sgomento è il sentimento dominante. Sgomento è la parola che si ripete con frequenza anche nel comunicato stampa rilasciato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Parma in relazione all’ultimo di tali delitti che ha scosso gli animi del nostro Paese.

L’uccisione del neonato ad opera della madre è e resta un gesto inconcepibile per le coscienze dei più; il figlio ucciso è percepito come figlio di tutti e la richiesta di vendetta, per l’atto intollerabile compiuto dalla donna degenere, diviene collettiva, informando di sé il processo penale che ne consegue.
Storicamente, tale riprovazione sociale trova una definizione compiuta nei codici penali a partire dal Cinquecento, ove l’omicidio dell’infante è punito con pene severe poiché considerato omicidio aggravato dalla presunzione della premeditazione e dal vincolo di sangue.

È il dibattito giuridico di orientamento positivista a dare impulso alla mitigazione del trattamento sanzionatorio dell’infanticidio, ricavando gli elementi di specialità rispetto all’omicidio che, in quel momento storico, si incentrano su due condizioni essenziali e strettamente correlate al ruolo sociale della donna: la illegittimità del concepimento e la causa d’onore.
La causa d’onore è, in realtà, elemento costitutivo del reato anche nel nostro codice penale fino al 1981; l’art. 578 c.p., sino a quella data vigente, prevede infatti la pena della reclusione da tre a dieci anni per chiunque cagioni la morte di un neonato immediatamente dopo il parto, per salvare l’onore proprio o di un prossimo congiunto.

È solo con la L. 5 agosto 1981 n. 442 che cambia la formulazione della norma incriminatrice attraverso l’eliminazione della rilevanza penale della causa d’onore, il mutamento della qualità del soggetto agente, che è “la madre” e non più “chiunque”, e l’introduzione di due elementi specializzanti rispetto all’omicidio: il dato cronologico (il fatto deve essere commesso “durante” o “immediatamente dopo” il parto) e le condizioni di “abbandono materiale e morale” della madre al momento del parto, tali da determinarne la decisione.

Pur essendo pacifico che le condizioni di abbandono materiale e morale debbano sussistere oggettivamente e congiuntamente e debbano essere connesse al parto, si è a lungo dibattuto sull’interpretazione della nozione di “abbandono materiale e morale”.

Come sempre accade, l’esegesi dei concetti muta al mutare del sentire comune.

La giurisprudenza formatasi nel primo decennio successivo alla novella legislativa richiedeva per la configurabilità della situazione di abbandono che fosse in concreto verificato uno stato di derelizione, di solitudine, di emarginazione, di carenza di mezzi e di rapporti socio- economici oltre che affettivi2, sussistente qualora la madre si venga a trovare isolata nel seno della propria famiglia e privata dell’affetto e delle cure dell’uomo con il quale abbia concepito il neonato3, uno stato di isolamento assoluto considerato non ontologicamente compatibile con la presenza nel territorio di strutture socio-sanitarie, sempre che l’agente si trovi nelle condizioni sociali e culturali di utilizzare tali presidi4.

L’opzione ermeneutica più recente e prevalsa nella giurisprudenza di legittimità ritiene, invece, che la concreta situazione di abbandono non debba rivestire il carattere dell’assolutezza e costituisca un requisito della fattispecie oggettiva da leggere tuttavia “in chiave soggettiva” o comunque in senso “individualizzante”.5

La valutazione del requisito obiettivo deve pertanto essere “individualizzata” sulla peculiare situazione della partoriente, come da lei percepita, prescindendo dall’oggettiva presenza, nel contesto territoriale di appartenenza, di adeguate strutture e presidi sanitari, ricorrendo il concetto di abbandono laddove la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna, determinata anche da un ambiente familiare non comunicativo e totalmente incapace di cogliere l’evidenza del suo stato e di avvertire l’esigenza di aiuto e sostegno necessari al dramma da lei vissuto, le impedisca tuttavia di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione6.

Divengono, quindi, indicatori della condizione di abbandono non solo i casi di gravidanza nascosta oppure osteggiata con conseguente solitudine materiale e affettiva, la povertà estrema, il contesto sociale degradato, ma anche l’insufficiente maturità culturale della gestante o comunque una condizione psicologica individuale gravemente alterata dall’esperienza emotiva e mentale che accompagna la gravidanza ed il parto.7

È la percezione della donna a diventare il fulcro della valutazione del giudicante.
Non v’è chi non s’avveda della complessità – ai fini della qualificazione giuridica del fatto in termini di infanticidio ovvero di omicidio – dell’accertamento concreto, sul piano probatorio, della componente soggettiva dell’abbandono, della peculiare solitudine esistenziale della madre partoriente in un contesto in cui la solitudine esistenziale si atteggia a male generale del nostro tempo ed è, allora, esclusivamente ad esso, nella solennità dell’aula, che deve lasciar spazio, anche nei più recenti casi di cronaca, lo sgomento.
Di grazia, quindi, non vogliate sdegnarvi: ogni creatura ha bisogno dell’aiuto degli altri.

 


1 “Della infanticida Marie Farrar”, Libro di devozioni domestiche. Brecht Bertolt. Traduzione di Roberto Fertonani. Einaudi, 1997. 
2 Cass. Sez I n. 1007/87.

3 Cass. Sez. I n. 3326/88.
4 Cass. Sez I n. 8489/91.
5 Così Cass. Sez. 1, n. 40993 del 7 ottobre 2010, Grieco, Rv. 248934 – 01; Sez. 1, n. 26663 del 23 maggio 2013, Bonito, Rv.256037 – 01 Sez. 1, n. 28252 del 22 gennaio 2021, Izzo, Rv. 281673 – 01.
6 Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2267 del 03/12/2013 – dep. 2014, Fynn, non mass.
7 Cass. Sez. I, 3 maggio 2022, dep. 30 giugno 2022 n. 24949.

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