di Francesco Iacopino e Giuseppe Belcastro –
Nel 2019 i penalisti italiani e buona parte dell’accademia, preso atto del “lungo processo degenerativo dei fondamentali dello Stato di diritto e (del)la conseguente crisi del garantismo penale”, accentuata dalla inarrestabile deriva giustizialista, hanno inteso lanciare un “grido di allarme” licenziando il Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo. In quel pamphlet, i punti 34 e 35 sono stati specificamente dedicati alle misure di prevenzione. Misure “nate come strumento eccezionale di controllo sociale di categorie particolari di soggetti” – si legge al punto 34 – (poveri, oziosi, vagabondi) e diventate, col tempo, “un sottosistema parallelo al diritto penale, destinato a colpire dove quest’ultimo non potrebbe mai giungere”.
Chi conosce i meccanismi di funzionamento di queste misure del sospetto, fondate su fattispecie di pericolosità dai contorni indefiniti, destinati a sbiadirsi ancor di più nelle fasi di accertamento giudiziale, sa bene che esse, seppur notoriamente estranee ai principii e al corredo assiologico sul quale è edificato il nostro patto sociale, sono storicamente basate su un presupposto indefettibile: la pericolosità concreta del proposto, non più necessariamente attuale, ma quantomeno manifestatasi in una determinata forbice temporale, sì da giustificare “in differita” l’ablazione patrimoniale dell’accumulo illecito di ricchezza.
In altri termini, nel bilanciamento degli interessi in campo, la tutela dei diritti individuali cede significativamente il passo alle esigenze di sicurezza sociale, stimandosi prevalente il controllo sociale ed economico del soggetto (ritenuto) pericoloso rispetto al livello di garanzie proprie di un sistema liberale di cui lo stesso è (rectius: dovrebbe essere) portatore.
In questo quadro generale, si inserisce il “sotto-sistema” normativo che ruota intorno alle c.d. interdittive antimafia e al controllo giudiziario delle aziende. Il legislatore ha esteso le maglie della prevenzione, rivolgendo l’attenzione anche agli imprenditori sani con lo scopo di proteggerli – questo nelle intenzioni – dai tentativi di infiltrazione mafiosa e di sostenerli, in ipotesi di contaminazione occasionale, nel processo di disinquinamento.
Nella prassi applicativa, però, questo complesso sistema, pur ispirato in astratto a una logica aziendalistica, continua a presentare forti criticità, traducendosi troppo spesso in uno strumento di isolamento delle aziende lecite e di desertificazione dell’economia legale. L’imprenditore sano può essere destinatario di una informazione interdittiva, con tutto ciò che essa comporta in termini di incapacitazione a contrarre con la Pubblica amministrazione, per il solo “rischio” (letteralmente “eventuali tentativi”) di infiltrazione mafiosa, seppur non ancora concretizzatosi. A ciò si aggiunga che la valutazione del rischio e il potere di interdire sono affidati al Prefetto, al quale il Codice antimafia accorda margini di discrezionalità così ampi da determinare una sostanziale inutilità delle impugnazioni davanti al Giudice amministrativo, complice anche un criterio probabilistico di valutazione – quello del “più probabile che non” – che nei fatti sterilizza ogni tentativo di difesa.
All’imprenditore interdetto, per sospendere gli effetti dell’interdittiva, non resta che “consegnarsi” al giudice della prevenzione e presentare domanda di controllo giudiziario. Ma è qui che si realizza il paradosso. Interdittive antimafia e controllo giudiziario operano su piani diversi e si nutrono di presupposti differenti. Per applicare la prima è sufficiente il solo rischio di infiltrazione mafiosa, per ottenere il secondo è necessario, almeno seguendo la lettera della legge, una agevolazione occasionale dell’associazione mafiosa.
Nella prassi si è formato un orientamento giurisprudenziale che, adagiandosi rigidamente su un criterio letterale, non concede all’imprenditore interdetto il controllo giudiziario se non è accertata previamente l’agevolazione occasionale, difettando altrimenti il formale presupposto normativo. Ecco l’assurdo: all’imprenditore contagiato che abbia occasionalmente agevolato la criminalità organizzata (si pensi all’assunzione di un lavoratore controindicato o a una fornitura equivoca) si concede il controllo nominato dal Tribunale e di rimanere sul mercato, seppur vigilato dal controllore giudiziario. All’imprenditore che, invece, sia solo a “rischio” (magari perché riuscito a resistere al) contagio, si nega il controllo giudiziario per mancanza del presupposto dell’agevolazione occasionale. Insomma: chi è più sano rimane interdetto dallo Stato ed è destinato a morire, chi è contagiato entra nel circuito terapeutico della prevenzione e può salvarsi.
Una autentica eterogenesi dei fini, frutto del profondo “divario” – per dirla con Norberto Bobbio – “tra ciò che il diritto è e ciò che il diritto deve essere”, tra “effettività” e “normatività”, law in the book e law in action.
Un sistema così, non solo si rivela incapace di generare alleanza tra lo Stato e il mondo sano dell’imprenditoria, nella lotta al crimine, ma genera la desertificazione dell’economia legale finendo paradossalmente per aprire spazi di mercato proprio a quelle realtà criminali che pretende di combattere.
Se lo Stato vuole sconfiggere la mafia sul terreno dell’economia legale deve tendere la mano all’imprenditoria “pulita”, farla sentire sostenuta e protetta. Colpire solo le cellule malate che tentano di infettare quelle sane. Altrimenti il sistema della prevenzione antimafia, a dispetto delle buone intenzioni, continuerà a risolversi in un meccanismo infernale di distruzione di alternative di vita economica, sociale e civile al potere mafioso.