NEL PENSIERO DEL NOSTRO TEMPO: DANILO DOLCI E IL DIRITTO

di Domenico Bilotti

Il 28 giugno Danilo Dolci avrebbe potuto compiere cento anni. Sociologo, attivista e poeta, amante della Sicilia borghigiana, interna, sofferente, si sarebbe mal volentieri sottoposto a quel rito dei compleanni per centenari, con foto e taglio della torta. Avrebbe accettato solo per la sua gente: lui interiormente cosmopolita si era affezionato alla dignità della causa popolare. Ne era stato adottato, più che averla adottata lui stesso – o, almeno, così soleva dire. Danilo Dolci (1924-1997) è stato una delle voci più interessanti della lirica italiana nel secondo Novecento, ma è stato anche un formidabile analista nel metodo sociale: all’inizio degli anni Sessanta era in fondo l’unica contronarrazione possibile all’immagine in vespa e televisione del boom. Analizzava la depressione economica associandola soprattutto a sistemi di sperpero pubblico; riteneva le procedure al tempo vigenti incapaci di incontrare i nuovi bisogni individuali e collettivi; metteva in questione il rapporto tra cittadino e amministrazione non solo in un attento discorso teorico antiautoritario, ma anche nel concreto del welfare e nelle asimmetrie tipiche del contenzioso tra sottoposti e potere dello Stato. Forse, dovrebbe bastarci già questo per ricordarlo nella sua rettitudine, nella sua freschezza creativa, nella sua attenzione al giuridico da non giurista.

Per ben altre cose, invece, la sua memoria meriterebbe il lustro di massa che al momento non ha ancora conseguito. Innanzitutto, Danilo Dolci fu uno dei più esposti teorici e pratici della nonviolenza. Non mancavano le figure che approdarono alla nonviolenza, sia pure da tutt’altro percorso: c’era il libertario Pannella, che vi giungeva dalla estrema sinistra liberale; c’era Lanza Del Vasto, che univa antropologia, ricerca storica, buddhismo e cristianesimo. C’era soprattutto Aldo Capitini, che tentava in modo originale di mescolare socialismo democratico, cooperazione internazionale e critica al diritto – in modo più generoso persino del grande teologo tedesco Karl Rahner, cui si ispira soprattutto nei primi anni Sessanta.

Danilo Dolci ha forse in più, rispetto a questi grandi personaggi, una brillantezza di intuito che si potrebbe definire “geniale”. Innanzitutto, il Sud Italia, soprattutto Calabria e Sicilia, era davvero negli anni Cinquanta l’Africa in casa: analfabetismo ancora elevato, mortalità infantile a livelli che nella vicina Francia erano stati abbattuti da circa un secolo, decessi per malnutrizione! Nel Palermitano, organizza così uno sciopero della fame a staffetta nel letto di Benedetto Barretta, un bambino, appunto, morto di fame.

Vista poi la legislazione in materia di scioperi e sindacati, arretratissima e punitiva, incapace di attuare la costituzione, negli stessi anni utilizza il metodo dello “sciopero al rovescio”. Se nell’Italia dei Cinquanta e Sessanta lo sciopero è ostracizzato, represso, sanzionato, vietato, se le norme ancora non ci sono e i rapporti sociali stanno cambiando in direzione delle libertà, è pur sempre vero che lo sciopero delle lavoratrici e dei lavoratori consiste nell’astensione dalle prestazioni. E lui organizza lo sciopero dei disoccupati: ottocento disoccupati si mettono a sistemare una strada pubblica. Vogliono il diritto al reddito, alla retribuzione, al lavoro, alla sopravvivenza. Magno scandalo: Danilo Dolci è arrestato per resistenza e oltraggio.

Lo ricordiamo con l’appassionata difesa di Piero Calamandrei, scritta forse più col cuore che col codice, ma non priva (come al solito!) di cristallini momenti di dogmatica giuridica applicata alla sede giudiziaria. Primo tra tutti: la denuncia del finto formalismo dei proibizionisti e dei giustizialisti, che non conoscono le norme e i principi e non sanno farli valere nel tempo in cui essi vanno attuati. La forma esiste se è garanzia, l’equità occorre se è trasformazione.

Lo “sloveno nato italiano” (nacque in terra di confine, in anni in cui la questione era tema sociale e politico forte) si scelse infine un ultimo e primo nemico: la mafia. La mafia dell’abbrutimento, del sacco edilizio, della mancanza di scolarizzazione. Vedeva approssimarsi un ottimo alleato di quella mafia: l’antimafia professionale, l’antimafia della decisione politica urlata, l’antimafia che sottobanco pronuncia il famigerato: “così fan tutti”. Aveva ragione. Come con lui, Calamandrei.
Buon compleanno Danilo Dolci, spirito antico di un tempo nuovo, ancora mai arrivato.   

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