di Antonio Baudi –
Giurisprudenza è termine dall’etimo composto: deriva da “ius-iuris” e “prudentia”.
“Jus” significa diritto, termine che a mio avviso va preferito a quello di “directum” (che evoca l’unidirezionalità del diritto) non fosse altro perché è la radice di giuridicità, di giurisdizione, di giudice. Quanto a “prudentia”, cioè prudenza, termine che usualmente evoca cautela e moderazione, essa. nel suo significato autentico, quello proprio della prima delle quattro virtù cardinali, esprime nel contempo sapienza, nel saper comprendere gli avvenimenti con realismo e concretezza, e saggezza, nel discernere responsabilmente e valutare le conseguenze dell’agire.
Giurisprudenza è l’attività del giurista ma anche il suo prodotto e quindi l’insieme dei discorsi sul diritto anche se, di solito, si distingue la giurisprudenza giudiziaria, dei giudici, e la giurisprudenza dottrinale, degli studiosi del diritto.
In questa sede, escluso che la dottrina giuridica possa mai produrre diritto, stante il suo valore puramente teorico, il quesito ha riguardo alle decisioni assunte in sede giurisdizionale, nella specie della materia penale. Così delimitato il campo d’indagine il quesito posto è se la pronuncia dei giudici sia solo atto di conoscenza o anche modifica e creazione del diritto, quindi, come suol dirsi in senso metaforico, se sia fonte di norme giuridiche.
Il quesito pare improponibile nel nostro sistema e potrebbe essere risolto negativamente sol che si rifletta sul disposto dell’art. 1 delle “preleggi” per il quale sono fonti del diritto, nell’ordine, le leggi, i regolamenti e gli usi, quindi senza alcun riferimento alla giurisprudenza.
Del resto, tale soluzione è tradizionalmente consolidata. Ma, a causa di recenti e più meditate riflessioni nonché, combinatamente, di esperienze sopravvenute, negli ultimi tempi il quesito si è posto, e si tratta di quesito di rilievo generale, attenendo all’assetto normativo del sistema.
La risposta tende ad essere affermativa nell’ambito della scienza civilistica, avuto riguardo a pronunce innovative rispetto alla disciplina positiva, mentre, ed è quello che interessa in questa sede, è problematica in materia penale ove si scontra con il principio di legalità penale e con il dettato costituzionale che, nel rispetto della divisione di poteri, vuole la giurisdizione soggetta (soltanto) alla legge.
Il problema, occorre notarlo, consegue anche alla sopravvenuta interferenza culturale della normativa di genesi extrastatale, sia di matrice europea, tramite gli atti con efficacia diretta ed indiretta di fonte UE, come vincolativamente interpretati dalle decisioni della Corte di giustizia (CGUE), con sede in Lussemburgo, sia di matrice internazionale, prima tra tutte quella facente capo alla Convenzione europea dei diritti umani (CEDU) come operante attraverso le decisioni, pur esse vincolanti, della Corte EDU, con sede in Strasburgo.
In proposito occorre, per quel che concerne la pertinente tematica delle fonti del diritto, soffermarsi sull’impatto del sistema di common law nel nostro sistema di civil law, tanto perché il diritto extraordinamentale in questione non solo vincola le decisioni dei giudici italiani in virtù del principio di supremazia, quanto ancora perché impone il rispetto delle interpretazioni fornite dalle due Corti che, si noti, decidono, jus dicunt, come organi giurisdizionali secondo quel sistema.
In generale, per il sistema di common law, la giurisprudenza è intesa come la principale fonte del diritto, con un ridotto intervento del diritto di matrice legislativa.
In proposito va rammentato che il common law, sistema ordinamentale originatosi nell’Inghilterra medievale e successivamente diffusosi nei Paesi anglosassoni e negli Stati del Commonwealth, è basato sul principio dello stare decisis, vale a dire sulla efficacia vincolante dei precedenti giurisprudenziali, a differenza dei sistemi di civil law, che, derivanti culturalmente dal diritto romano, si sono consolidati all’interno di ordinamenti statali, prima dominati dalla centralità assoluta della volontà del sovrano, poi ispirati ai principi democratici di portata illuministica della sovranità popolare e della separazione dei poteri.
Quanto al concetto di precedente giudiziario basti in questa sede precisare che con tale termine si intende una pronuncia resa su un determinato caso e divenuta ormai definitiva ed immutabile. Si può quindi identificare l’insieme dei precedenti con le pronunce rese nel tempo e dunque con l’orientamento giurisprudenziale formatosi rispetto ad una determinata fattispecie.
Per incidens, un rilievo di portata concreta: i giudici di common law per decidere devono disporre di immani raccolte di precedenti, il che, da un lato, privilegia il nostro utilizzo di regole scritte e di codici tematici e, dall’altro lato, rende difficile comprendere come ne sia garantita la conoscenza e la stessa certezza giuridica, che appare complicata, oltre che nella individuazione del precedente pertinente al caso da giudicare, prima ancora nel momento di individuazione della somiglianza casistica, condizione che attiva la determinazione del precedente e quindi l’obbligo della vincolatività.
Fermo restando l’effetto vincolante delle sentenze dei giudici europei nel nostro ordinamento, effetto derivante dagli obblighi assunti e tale da subordinare l’efficacia di una regola interna alla conformità con la disciplina europea autenticamente interpretata da quelle Corti, ci si è chiesti se sentenze nostrane, in quanto atti giurisprudenziali, siano nel nostro sistema di pari portata vincolante e tali da qualificarsi come “fonti” di diritto in presenza di pronunce di portata “innovativa”.
Va subito notato che ogni sentenza ha un preciso ambito decisorio, soggettivo, rispetto alle parti in causa, ed oggettivo, delimitato dal caso deciso sicché, sotto tali profili, ha efficacia particolare, oltretutto condizionata dal tema su cui decidere, sicché non si riesce a comprendere come la pronuncia, certamente vincolante tra le parti, possa assumere efficacia generale ed astratta, sì da trascendere la specificità della soluzione giudiziaria.
Ed invece l’ostacolo si sormonta avuto riguardo, da un lato, al carattere tipico del caso, e, dall’altro lato, alla regola normativa utilizzata come guida per la risoluzione della vicenda. Siffatto profilo, ove, a fronte della rilevanza del caso da giudicare, la regola sostenuta sia “nuova”, coinvolge il principio di legalità penale, il quale, se pur modernizzato, impone che ogni norma sia desunta da un testo di genesi parlamentare, comunque formalizzato in una regola scritta.
Ne resta coinvolto il termine legge, il quale è notoriamente polisemico designando a volte l’atto normativo, come suggerisce in generale il principio di legalità, ed altre volte la regola e, in questo senso, ha riguardo o al testo oppure alla sua portata normativa che fonda il diritto.
Il quesito, a questo punto, si precisa: se ed in che senso, oltre alla legge, che, intesa come prescrizione, ha portata generale ed astratta, tra le fonti del diritto possa essere ricompresa una pronuncia giurisprudenziale.
È un dato di fatto, nello specifico, e più problematico, settore penale, che sia prassi quotidiana far riferimento al diritto vivente e, del resto, non vi è giudice che, nel sollevare una questione di costituzionalità, non ne faccia richiamo ai fini del giudizio di rilevanza.
Non vi è magistrato o avvocato che, per sostenere e rafforzare la motivazione in tema di quaestio iuris, ricerchi e citi precedenti decisioni in specie in forma di massime della Cassazione.
Ed addirittura, sul piano teorico, si ridiscute sullo stesso concetto del diritto, non più inteso come insieme di norme di contenuto generale ed astratto, bensì come prassi sociale in quanto sistema realizzato operativamente attraverso le pronunce giudiziarie che “inverano” le norme.
In particolare gli studiosi si interrogano con insistenza sul quesito posto rilevando che ogni giudice in sentenza, lungi dall’applicare passivamente il diritto, come statuisce la regola costituzionale (ex art. 101.2 cost.) pronunci regole “creative”, soluzione che da un lato rinnega il principio di genesi ottocentesca per il quale il giudice sia “bocca della legge” e dall’altro lato addebita al giudice di abusare del potere giudiziario, surrettiziamente invasivo di quello esclusivamente riservato al potere normativo, nel rispetto della divisione dei poteri e della rigorosa portata del principio della riserva di legge in materia penale.
Orbene, se il quesito si imposta avuto riguardo alla efficacia vincolate delle decisioni assunte all’interno del nostro sistema, è incontroverso che la giurisprudenza, anche quella del supremo consesso, non vincola (tranne che nel fisiologico e limitato caso dei giudizi di rinvio) e pertanto in questo senso non è fonte di diritto. In particolare anche le sentenze verticistiche emanate dal supremo collegio e pronunciate a sezioni unite non hanno effetto vincolante (cfr. la disciplina ex art. 618 c.p.p.). In effetti, una pronuncia che non sia vincolante nei giudizi successivi non può considerarsi precedente vincolante, tanto meno atto normativo, sia in generale, quanto al principio di diritto enunciato, sia limitatamente al caso similare a quello deciso.
In proposito si potrebbe obiettare circa la valenza delle sentenze della Corte costituzionale, in specie delle sentenze di accoglimento, con le quali la Corte Costituzionale, dopo aver compiuto una valutazione sulla questione di costituzionalità, la accoglie, dichiarando pertanto incostituzionale la legge in esame.
Avuto riguardo alle sentenze della Corte, escluse le sentenze di incostituzionalità parziale, con le quali la Corte elimina solo quella parte della legge considerata incostituzionale, oppure le sentenze ablative, con le quali la Corte dichiara incostituzionale la disposizione impugnata “nella parte in cui prevede” qualcosa che non avrebbe dovuto prevedere, si individuano, nell’ambito delle sentenze di accoglimento:
a) le sentenze c.d. manipolative di accoglimento, con le quali la Corte rivede (“manipola”) il contenuto di una legge, per evitare di dichiararla incostituzionale ed impedire così la formazione di un vuoto normativo nel sistema;
b) le sentenze additive, con le quali la Corte dichiara l’incostituzionalità della disposizione impugnata “nella parte in cui non prevede” un qualcosa che invece dovrebbe prevedere;
c) le sentenze sostitutive, con le quali la Corte dichiara incostituzionale una disposizione nella parte in cui prevede un qualcosa anziché prevedere un’altra cosa.
È indubbio che queste sentenze, hanno efficacia erga omnes, ovvero nei confronti di tutti dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale, il che implica che qualunque altro giudice che si trovi ad applicare quella norma per decidere una controversia non potrà più utilizzarla, essendo stata ritenuta incostituzionale. Ma è agevole obiettare che tali decisioni, nella parte in cui incidono positivamente su testi normativi, sono vincolanti per disposto di legge e per loro natura, derivando la vincolatività dal testo di legge su cui hanno inciso con la pronuncia, la quale, se pur formalmente giurisdizionale, riforma la norma impugnata nella sua portata regolativa erga omnes.
Il problema allora non consiste solo nel diverso regime di efficacia vincolante della pronuncia giurisdizionale ma è di ordine dogmatico ed epistemologico e sta nel rigore dell’alternativa posta, tra atto di conoscenza o atto di volontà.
Tra le due soluzioni estreme, ovvero se si tratti di conoscenza di un significato preesistente, oppure dell’attribuzione di un significato scelto dal decidente, risalta una problematica di tipo diverso: pacificamente escluso che l’applicazione della norma giuridica sia operazione meramente meccanica, o comunque deduttiva di un significato preesistente, l’altra alternativa non è detto che consista nella creatività volontaristica.
L’estremo rigore dell’alternativa denuncia il suo limite e impone che si affronti il tema circa la natura e la valenza dell’attività interpretativa come atto di conoscenza, comunque escludente che una sentenza sia frutto di volontà e di incontrollabile libero arbitrio giudiziario.
Orbene, ogni interpretazione giudiziaria è il risultato di un ragionamento che va dimensionato nella sua discrezionalità, posto, come sopra notato, che è ormai condiviso che una cognizione normativa meramente deduttiva ed adesiva di un significato preesistente non è più concettualmente sostenibile.
Del resto, in presenza di una regola consistente in un testo scritto prodotto dalla deliberazione ponderata di un organo abilitato, è ovvio che l’interpretazione si conformi in base a due guide: la forma esternata e la volontà orientata, laddove la proposizione scritta evoca il criterio letterale e la volontà orientata evoca il suo scopo, il valore di riferimento prescelto. E questo è quanto enuncia la regola sancita dall’art. 12 delle preleggi, sia pure intesa nel suo significato aggiornato, ove il criterio letterale, nella sua complessità di insieme, va reso operativo anche in senso logico e sistematico, mentre l’intenzione del legislatore assume valenza oggettiva rispetto al valore tutelato.
Esiste, nel mezzo, tra cognizione meccanica e alternativa volitiva, una attività cognitiva di matrice ermeneutica, che si avvale usualmente dell’interpretazione di testi linguistici, e, in virtù di opportuni criteri ermeneutici, perviene, attraverso l’argomentazione, ad esplicitare il significato normativo reputato corretto ed adeguato.
L’interpretazione giudiziaria consiste in un ragionamento, ove la premessa minore è un testo normativo mentre la premessa maggiore è integrata dai criteri selettivi, idonei a pervenire ad un risultato consistente in un giudizio, giammai in una soluzione volontaristica e scriteriata.
A ben vedere, la medesima attività argomentativa vale per le pronunce dei giudici di common law, ove, in relazione al caso da decidere, la soluzione trae fondamento dal criterio-guida enucleato nel precedente. A ben vedere, in quel sistema la vincolatività del precedente sopperisce alla mancata formalizzazione delle regole.
Nel nostro sistema di solito il giudizio regola casi la cui tipologia è già catalogata sicché si emettono pronunce nell’alveo di una interpretazione stabilizzata nel diritto vivente.
Capita però che si sia in presenza di pronunce rese in via innovativa, in specie a fronte di casi nuovi, ed allora occorre intendersi sulla loro “creatività”.
Al fine di una migliore comprensione del tema pare significativo l’esame di due casi emblematici, di seguito analizzati:
1. Il caso di Piergiorgio Welby.
Piergiorgio Welby da molti anni era affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, diagnosticato quale “distrofia fascioscapolomerale”. La sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato collegato sin dall’anno 1997. I trattamenti sanitari praticati non erano in grado di arrestare in alcun modo il decorso della malattia ed avevano quale unico obiettivo quello di prolungare le funzioni essenziali per la sopravvivenza biologica da procrastinare nel tempo, stante l’ineludibile e certo esito infausto.
Welby, consapevole di essere affetto da malattia in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato dettagliatamente informato della evoluzione della sua patologia e dei trattamenti che gli venivano somministrati, chiedeva al medico dal quale era professionalmente assistito di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto e di ricevere assistenza solamente per lenire le sofferenze fisiche.
Insisteva in particolare che si procedesse al distacco dell’apparecchio di ventilazione sotto sedazione.
Il medico però opponeva un categorico rifiuto assumendo di non poter assecondare la volontà espressa dal paziente in considerazione dei preminenti obblighi ai quali si riteneva soggetto.
Welby, dopo avere nel settembre dell’anno 2006 inviato una lettera al Presidente della Repubblica in cui invocava il diritto all’eutanasia, si rivolgeva alla magistratura depositando un ricorso d’urgenza ex artt. 669 ter e 700 c.p.c., al fine di ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale. La richiesta era fondata sul disposto dell’articolo 32 della Costituzione e sul diritto di autodeterminazione riconosciuto dall’art. 13 della Carta Costituzionale.
Il giudice, con ordinanza depositata in data 16 dicembre 2006, dichiarava il ricorso inammissibile, in quanto, pur riconoscendo l’esistenza del diritto soggettivo, garantito dall’articolo 32 della Costituzione, di richiedere l’interruzione della terapia medica, escludeva che la pretesa fosse fornita di tutela giuridica. Nello specifico il giudice motivava che, nel sistema giuridico italiano, non esisteva una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico.
La Procura della Repubblica di Roma proponeva reclamo avverso la decisione del Tribunale civile di Roma perché il provvedimento era “affetto da una palese contraddizione“: riconosciuto in premessa che esisteva nel nostro ordinamento il divieto di accanimento terapeutico ed il correlativo diritto di pretenderne la cessazione, il giudicante era pervenuto alla conclusione, del tutto erronea ed illogica, che tale diritto non era tutelato a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative. Nello specifico era evidenziato che un diritto soggettivo o esiste o non esiste e che una pretesa, giuridicamente riconosciuta alla stregua di fondamentali principi indicati dallo stesso giudice nel provvedimento impugnato, non poteva essere disattesa, anche in virtù dell’inequivoco principio costituzionale ex art. 24 in base al quale tutti possono agire in giudizio per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi.
Nel frattempo Welby, più che convinto dell’esistenza del suo diritto alla autodeterminazione, a fronte del diniego giudiziario di staccare il respiratore, decideva di proseguire nel suo intento, avendo reperito un medico anestesista disponibile ad assecondare le sue esigenze.
E difatti, il giorno 18 dicembre 2006 il dott. Mario Riccio si recava presso l’abitazione di Welby il quale ribadiva fermamente di voler essere sedato e che fosse staccato dal respiratore artificiale.
Due giorni dopo il medico chiedeva a Welby per l’ultima volta la conferma della sua volontà, e quindi, ottenuta la conferma, procedeva prima alla sedazione e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico.
La morte, come risultava dal referto medico-legale, sopraggiungeva nell’arco di mezz’ora per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una irreversibile insufficienza respiratoria causata (unicamente) dalla impossibilità di praticare la ventilazione in maniera spontanea dovuta dalla gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso paziente era affetto.
Dopo la morte di Welby si avviava procedimento nei confronti del dott. Riccio per il reato di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p.
Come primo atto si acquisiva il parere da parte dell’Ordine dei medici di Cremona a cui Riccio apparteneva. L’organo disciplinare teneva conto sia della volontà “chiara, decisa e non equivocabile” del paziente il quale era “perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi” nonché “pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte”; sia delle cause del decesso posto che l’anestesista non aveva tenuto una condotta attiva, somministrando farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte, e che la sedazione terminale era risultata “per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli”. Pertanto la Commissione disciplinare disponeva l’archiviazione del caso con provvedimento datato 1° febbraio 2007.
Quanto al procedimento avviato in sede penale, la Procura della Repubblica di Roma chiedeva l’archiviazione del caso ribadendo che, anche in base all’esito della consulenza medico-legale, era da escludere qualsiasi nesso tra la sedazione ed il decesso del paziente in quanto l’unica causa di morte era individuata nell’insufficienza respiratoria relativa alla malattia.
Tuttavia, la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura veniva rigettata dal giudice per le indagini preliminari di Roma che richiedeva formularsi l’imputazione coatta con rinvio a giudizio per il medico Riccio, incriminato per aver commesso il reato di omicidio del consenziente, previsto dall’articolo 579 del codice penale.
Il processo, proseguito davanti al giudice per l’udienza preliminare, si concludeva nel luglio 2007 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del medico, risultato non perseguibile perché aveva adempiuto al dovere professionale in quanto la condotta concreta rientrava nella causa di non punibilità di cui all’articolo 51 del codice penale.
Il giudice, nel rispetto del dettato costituzionale, evidenziava che nell’ordinamento italiano “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge“, richiamando, peraltro, l’art. 13 Cost., secondo il quale “la libertà personale è inviolabile“.
Da tale principio il giudicante desumeva la sussistenza del diritto all’autodeterminazione del paziente derivato dalla prevalenza della fonte super-primaria della Carta costituzionale, fondante il rispetto della volontà del paziente quanto al potere di disporre del proprio corpo, anche attraverso il rifiuto delle cure mediche. Il giudicante evocava a sostegno motivazionale la giurisprudenza della Consulta, in particolare le pronunce nn. 45/65, 161/85, 471/90, 238/96, nelle quali si afferma che il diritto al rifiuto delle cure è un “diritto inviolabile della persona, immediatamente percettivo ed efficace nel nostro ordinamento, rientrante tra i valori supremi tutelati a favore dell’individuo“.
Il giudice riconosceva in conclusione che il comportamento del giudicabile, dott. Riccio, pur astrattamente rientrante nella previsione precettiva della norma che punisce l’omicidio del consenziente ex art. 579 del codice penale, si era realizzato nel contesto di una relazione terapeutica e, quindi, sotto la copertura costituzionale del diritto del paziente di rifiutare trattamenti sanitari non voluti.
2. Il caso di Marco Cappato.
Il 28 febbraio 2017 Marco Cappato si presentava presso i Carabinieri di Milano e si autodenunciava esponendo che, nei giorni immediatamente precedenti, si era recato in Svizzera per accompagnare Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo), che aveva programmato e poi dato corso al suo suicidio assistito.
La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, avviato il procedimento nei confronti del Cappato per determinazione ed istigazione al suicidio ex art. 580 c.p., in data 2 maggio 2017, presentava nei confronti dell’indagato richiesta di archiviazione motivando per la irrilevanza penale della condotta in virtù di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p.
Il G.i.p., rigettate le concordi richieste del P.M. e della difesa di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., in data 10 luglio 2017 imponeva alla Procura di formulare l’imputazione nei confronti di Marco Cappato per la fattispecie di aiuto al suicidio.
Di conseguenza Marco Cappato chiedeva di essere giudicato con il rito immediato e, in data 18 settembre 2017, veniva emesso il decreto che dispone il giudizio immediato da celebrarsi davanti alla prima sezione della Corte di Assise per il seguente capo d’imputazione: “imputato del reato p. e .p. dall’art. 580 c.p. per aver rafforzato il proposito suicidiario di Antoniani Fabiano (detto Fabo), affetto da tetraplegia e cecità a seguito di incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014, prospettandogli la possibilità di ottenere assistenza al suicidio presso la sede dell’associazione Dignitas, a Plaffikon in Svizzera, e attivandosi per mettere in contatto i familiari di Antoniani con la Dignitas fornendo loro materiale informativo; inoltre, per aver agevolato il suicidio dell’Antoniani, trasportandolo in auto presso la Dignitas in data 25 febbraio 2017, dove il suicidio si verificava il 27 febbraio 2017”.
All’esito del dibattimento la pubblica accusa chiedeva l’assoluzione dell’imputato o, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. Stessa richiesta era avanzata anche dalla difesa di Marco Cappato.
All’udienza del 14 febbraio 2018, la Corte di Assise di Milano pronunciava ordinanza con cui sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. Ad avviso della Corte la disposizione denunciata si presentava in contrasto con gli artt. 2 e 13, primo comma, della Costituzione, i quali, sancendo rispettivamente il principio personalistico, che pone l’uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale, e quello di inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero la libertà della persona di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza, scegliendo quando e come essa debba aver luogo. Pari contrasto era rilevato con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU, i quali, nel salvaguardare, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata, comporterebbero, in base all’interpretazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che l’individuo abbia il diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà e che l’intervento repressivo degli Stati in questo campo possa avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.
All’esito dell’udienza, tenuta in data 23 ottobre 2018 la Corte Costituzionale reputava necessario il preliminare intervento del Parlamento e quindi rinviava la trattazione della questione all’udienza del 24 settembre 2019.
Decorso inutilmente l’anno, all’udienza del 25 settembre 2019, la Corte Costituzionale riteneva fondata la questione e in data 22 novembre 2019 depositava la sentenza n. 242/2019.
L’art. 580 cod. pen. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Nel merito, la Corte ha escluso che, contrariamente a quanto sostenuto in via principale dal giudice a quo, l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione.
In proposito non è stato ritenuto pertinente il riferimento del rimettente al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente come primo dei diritti inviolabili dell’uomo, in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri, dall’art. 2 Cost., nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 CEDU, dai quali discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e non quello, diametralmente opposto, di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire.
Per di più, che dal diritto alla vita non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito) (ordinanza n. 207 del 2018).
Neppure, poi, è possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, diritto che il rimettente ricava dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost.: a prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930, la ratio dell’art. 580 cod. pen. può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere.
Le medesime considerazioni valgono, altresì, ad escludere che la norma censurata si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata: conclusione, questa, confermata dalla pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Tanto chiarito, in assenza di ogni determinazione da parte del Parlamento, la Corte non si è potuta ulteriormente esimere dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018.
La questione di merito è stata delimitata espressamente dalla Corte nell’ambito del caso in esame, rispetto al quale la Corte ne ha circoscritto l’area rilevante.
Difatti, all’interno del petitum principale del rimettente, la Corte ha individuato l’area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, corrispondente segnatamente ai casi in cui l’aspirante suicida si identifichi, come nella vicenda oggetto del giudizio a quo, in una persona:
(a) affetta da una patologia irreversibile;
(b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili;
(c) la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale;
(d) ma che resti capace di intendere e di volere.
In tali casi, l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost. (parametro, questo, non evocato nel dispositivo nell’ordinanza di rimessione, ma più volte richiamato in motivazione).
Nei casi considerati la decisione di accogliere la morte potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua.
All’uopo la Corte:
– ha evocato la disciplina della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento);
– ha richiamato espressamente i precedenti della giurisprudenza ordinaria, in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby (Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma, sentenza 23 luglio-17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748);
– ha ribadito che si è in presenza di un diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. (sentenze n. 253 del 2009 e n. 438 del 2008);
– ha aggiunto che il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari, anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore), perché non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale.
In conclusione, ed entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita. Il tutto con le opportune e stringenti cautele procedurali, affinché “l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza […] in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010”.
Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente.
Quanto alla disciplina operante riguardo ai fatti anteriori la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimaneva subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione fosse stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti.
Con la sentenza 23 dicembre 2019 n. 8 la Corte d’Assise di Milano ha definito il processo a carico di Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, con assoluzione piena per l’imputato “perché il fatto non sussiste”.
È evidente che i giudici nei casi esposti hanno dovuto affrontare e risolvere casi definiti come “lacunosi” perché non sussumibili in precise disposizioni di legge di rango primario.
Questo è avvenuto in sede penale relativamente al caso Welby, ove il giudice ha fatto leva sui principi costituzionali per rinvenire la soluzione di giustizia.
Questo è avvenuto, sempre in sede penale, grazie alla risolutiva pronuncia della Corte costituzionale nell’equilibrato bilanciamento di principi giuridici.
In tutti i casi segnalati, ogni situazione di fatto ha comportato l’emersione di interessi e di valori la cui soluzione, lungi dal risolversi in un “non liquet”, ha rinvenuto fondamento nei principi, regole superiori, esplicite o latenti, anche di rango costituzionale, e reputati anch’essi regole normative, se pur di struttura diversa dalle leggi, ma comunque regole vigenti ed ermeneuticamente efficaci.
Dominante in proposito, in tema di fine-vita, il principio costituzionale di autodeterminazione, in combinazione con i principi di personalità, di solidarietà, di tutela giurisdizionale.
I giudici, lungi dal creare norme, posti di fronte ad un caso “nuovo”, hanno colto gli interessi ed i valori emergenti ed hanno utilizzato come premesse maggiori criteri normativi presenti nel sistema pervenendo, in conseguenza della ragionata “applicazione” di tali criteri, ad affermare pronunce adeguate a disciplinare il caso.
La sostanza normativa, emersa dal piano dei valori, si è esplicitata nella formalizzazione della regola, poi concretizzata nella decisione finale.
A fronte della novità dei casi in esame, che si palesavano privi di una disciplina specifica (dal che l’emergenza della lacuna), si sono evidenziati interessi evocanti valori rilevanti sul piano normativo, i quali hanno rinvenuto la formale disciplina attraverso il coordinamento con regole di sistema o con principi di genesi superiore, patenti o latenti.
In conclusione, ogni pronuncia che formalizza una disposizione sostanzialmente emergente dal sistema, lungi dal creare diritto, opera in via ermeneutica all’interno del sistema stesso, nel rispetto dei principi e dei valori costituzionali: essa innova nella forma, esplicitando il corretto significato desunto dal sistema a copertura dei valori rilevanti.