di Antonio Ludovico –
Ci sono storie come quella dell’Avvocato Fulvio Croce che dovrebbero essere raccontate nelle scuole, lette e rilette alle giovani generazioni, ricordate a chi ha scarsa memoria. Perché quella dell’Avvocato Fulvio Croce è una storia che si stenta a credere, ricca com’è di fatti e circostanze che ci fanno calare mani e piedi in uno dei periodi più bui della nostra traballante democrazia. Siamo negli anni settanta, nelle maggiori città italiane imperversavano le Brigate Rosse, gli attentati alle personalità più disparate avevano cadenza quotidiana, le cronache impazzavano per la conta dei morti che insanguinavano un paese che sembrava sull’orlo di una capitolazione. Nel mezzo c’erano – particolare di non poco momento- processi da celebrare, imputati da sentire, sentenze da emettere. Così come quello che si aprì il 17 maggio del 1976 contro il nucleo storico delle Brigate Rosse presso la Corte di Assise di Torino. Imputati alla sbarra erano i componenti più celebri, nomi tristemente famigerati come Prospero Gallinari, Alberto Franceschini, Renato Curcio, Paolo Maurizio Ferrari e tanti altri, mentre il Presidente della Corte di Assise era il dott. Guido Barbaro. Roba per palati forti.
Ebbene, alla prima udienza del processo- il 17 maggio 1976 – l’imputato Paolo Maurizio Ferrari, a nome di tutti i militanti, lesse un comunicato che stava a metà strada tra l’agghiacciante e il surreale: “ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e rifiutiamo ogni collaborazione con il potere”. Logica conseguenza di questa assurda presa di posizione fu la revoca di tutti i mandati difensivi agli avvocati con “l’invito” rivolto ai giudici di non essere disposti ad essere difesi da nessuno e “i difensori che accettavano la nomina erano ritenuti collaborazionisti del regime, con le conseguenze che ne potevano derivare”. Una matassa complicatissima, un rebus indecifrabile per il solerte Presidente di una Corte che – udite, udite – aveva avuto enormi difficoltà a reperire sei giudici popolari (erano tutti affetti da “sindrome depressiva”), figuriamoci degli avvocati d’ufficio disposti a difendere sotto una evidente minaccia di morte. Fu necessario, a quel punto, ricorrere all’art 130 del codice di procedura penale che prevedeva la nomina, in casi analoghi, del Presidente del Consiglio dell’Ordine in sostituzione dei colleghi ricusati. E così si arrivò alla figura di Fulvio Croce, Presidente degli avvocati di Torino, ma poco avvezzo alle cause penali, poiché illustre civilista. Il quale, tuttavia, munito com’era di quella corazza inflessibile che solo il rispetto per la toga ti concede, accettò l’incarico, ben sapendo a cosa andava incontro. Della serie: il diritto prima della vita. Ma il commando delle Brigate Rosse non si fece attendere, poiché la sera del 28/6/1977 l’anziano Avvocato Fulvio Croce , mentre usciva dal suo studio di via Perrone, fu crivellato con cinque colpi di pistola alla nuca da un commando di quattro persone; tre uomini (Rocco Micaletto, il killer, Lorenzo Betassa, il palo, colui che gridò “Avvocato “, Raffaele Fiore colui che aspettava a bordo di una 500) ed una donna, Angela Vai, che si preoccupò di allontanare i collaboratori di Croce per non essere raggiunti dai colpi di pistola. Un’esecuzione terribile, un colpo al cuore dell’intera avvocatura italiana, una risposta secca e risoluta da parte di chi rifiutava pervicacemente di essere processato. La cronaca racconta che il processo comunque andò avanti, non in tribunale, ma presso una caserma e – dopo la rivendicazione da parte dello stesso Ferrari, il compagno Mao, del terribile omicidio, si concluse con delle pene neanche troppo alte (tra i dieci e i quindici anni e con ben quindici assoluzioni), mentre anni dopo gli esecutori materiali dell’omicidio, Rocco Micaletto e Angela Vai furono condannati all’ergastolo e Betassi morì in un conflitto a fuoco con la Polizia. Questa la storia, sia pure raccontata per sommi capi, di un autentico martire della toga, una figura che si staglia altissima nel panorama giudiziario italiano, un uomo che ha combattuto con le sole armi che possedeva, il rigore e l’amore per la toga, una battaglia difficilissima, in tempi difficilissimi, dove per fare onestamente il proprio lavoro non era affatto sufficiente essere preparati a dovere. Fulvio Croce, a mio avviso, dovrebbe essere ricordato come il Principe dell’Avvocatura italiana, quell’avvocatura che riesce a spezzarsi ma non si piega a logiche perverse, che ha come stella cometa solo il codice deontologico, che difende i diritti anche degli indifendibili, che non ha paura del pericolo derivante da una causa complessa. Una toga illibata come quella dell’Avvocato Fulvio Croce dovrebbe servire da monito per i più giovani, da esempio per chi si dibatte, lamentandosi continuamente, per i meandri di una professione difficile ma affascinante, dura ma appagante. E, mi si consenta, dovrebbe servire anche per quella parte della Magistratura che crede che il compito di un avvocato sia quello di essere “al servizio” del cliente, anche sconfinando in terreni troppo accidentati. È vero che – così come avviene in ogni categoria- ci sono avvocati che non recano dignità alla toga che indossano, ma è pur vero che ce ne sono migliaia e migliaia che silenziosamente e, con diversi ostacoli quotidiani da superare, svolgono onestamente il proprio lavoro, anche accontentandosi di ricevere delle briciole dai propri clienti. Avvocati che soffrono, che perdono e si rialzano, che sono costretti a fare inutili anticamere, avvocati cui addirittura viene tolto il diritto di parola. L’esempio di Croce, a mio avviso, deve spingere i più giovani ad essere orgogliosi e rispettosi per quel manto nero che li distingue e li innalza al di là di sciocchi pregiudizi, tipici di questi tempi troppo tristi. E che ci fa sentire fieri al grido “Avvocato”, ultima parola che udì il povero legale torinese prima di stramazzare al suolo.
Per la cronaca, quello di Croce non fu il solo delitto connesso a quel maledetto processo, ma furono colpiti a morte anche il vice direttore della Stampa, Carlo Casalegno e gli investigatori Rosario Berardi, Antonio Esposito e Giuseppe Ciotta. In parole povere, un’autentica mattanza.