Di Fabrizio Costarella e Cosimo Palumbo
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con i quesiti posti al governo italiano, dimostra le perplessità nei confronti del nostro sistema di prevenzione. I giudici europei pongono richieste precise che avrebbero meritato risposte altrettanto precise.
Ma, non potendo fornirle, il governo è costretto a rischiosissime spigolature che denotano spiccate tendenze solipsistiche ed una certa predisposizione al masochismo.
C’è un quesito, in particolare, che mette l’Italia con le spalle al muro: come è possibile che, nel nostro Paese, si possano confiscare i beni di chi è stato assolto?
Già. Come è possibile? Siamo ai limiti della domanda retorica, tanto la risposta dovrebbe essere scontata: “non è possibile, scusateci”.
Ma non per i nostri rappresentanti, che provano a rispondere mediante il consueto armamentario retorico, dialettico e lessicale, facendo leva su due cardini in particolare.
L’autonomia e la differenza funzionale tra il procedimento penale e quello di prevenzione.
Le sentenze assolutorie, dunque, non rappresenterebbero un ostacolo alla adozione di misure prevenzionali (né, in ciò, la parte pubblica vede la negazione della presunzione di innocenza), dal momento che il procedimento di prevenzione non si fonda sulle prove contenute nel fascicolo penale, né è destinato a concludersi con un accertamento di colpevolezza, quanto di mera pericolosità.
La prima affermazione è una bugia sesquipedale (e noi non possiamo più accettare le bugie dette sulla pelle delle persone); sulla seconda bisogna intendersi.
Anche il Governo sa che, in Europa, la presunzione di innocenza ha una latitudine diversa, rispetto alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 della Costituzione.
L’art. 6 della Convenzione EDU, infatti, tutela anche la “percezione pubblica” dell’individuo, cioè la sua sfera reputazionale, assicurando che, anche al di fuori o dopo la chiusura del procedimento penale, in assenza di un formale accertamento di colpevolezza, egli non possa essere ritenuto colpevole di un qualche crimine. Così che, una volta che l’individuo sia stato assolto, non è possibile una rivalutazione dei fatti oggetto del procedimento penale, pur se in sede diversa, perché ciò determinerebbe una violazione della sentenza di assoluzione incompatibile con le garanzie del giusto processo. Numerose sono, sul punto, le precedenti pronunce europee.
A fronte di tale aporia, l’Italia obietta che l’autonomia tra procedimenti assicura che quello di prevenzione non si basi sugli stessi fatti o sulle stesse prove di quello penale.
La verità, che ci ostiniamo a nascondere all’Europa, è invece esattamente il contrario.
Quello di prevenzione, nell’assoluta maggioranza (prossima alla totalità) dei casi prende origine da un procedimento penale, con il quale condivide la base probatoria. Nel senso che il fascicolo delle indagini preliminari diventa, nella sostanza, il fascicolo del Tribunale di prevenzione.
Sostenere il contrario non è serio.
Sostenerlo nel caso Cavallotti, nel quale i decreti di confisca sono espressamente motivati con l’accertamento dei fatti contenuto nelle sentenze penali, è semplicemente uno spergiuro.
Sostenerlo dopo l’introduzione dell’art. 578-ter del codice di rito penale, che prevede espressamente l’ambulatorietà dell’azione pubblica dal processo penale a quello di prevenzione (e, quindi, sancisce per Legge che i due procedimenti sono interconnessi tra loro), è da doppelganger: il Governo si è inconsapevolmente sdoppiato, proiettando in Europa una differente – e più malvagia – versione di sé.
All’Europa, spieghiamo magari anche “dove va” la prevenzione, non solo “da dove viene”.
Sull’autonomia, intesa come l’intende la giurisprudenza convenzionale, non c’è davvero altro da dire.
Sulla diversità di funzione, invece, si.
Formalmente, infatti, le misure di prevenzione patrimoniale da pericolosità “qualificata” (nel caso dei Cavallotti, viene in rilievo una presunta contiguità mafiosa) hanno natura praeter delictum, cioè al di là della commissione (e, quindi, dell’accertamento) di un fatto costituente reato. Il Tribunale, infatti, deve rendere un giudizio di pericolosità e non di colpevolezza.
Questo prevede il Testo Unico antimafia che, se la Corte Edu dovesse qualificare la confisca come sanzione penale, non sarebbe parte più conforme a Costituzione.
Il problema, in questo caso, è tuttavia di merito.
Il governo, tramite l’avvocatura, cerca di tracciare un impalpabile confine tra i concetti di partecipazione (rilevante nel processo penale) ed appartenenza (rilevante nel procedimento di prevenzione) mafiosa, così come tra quelli di “contiguità” e “soggiacenza”.
Immaginiamo quale possa essere lo stupore dei Giudici europei a recepire questi distinguo, frutto di una semantica costituita da vocaboli pensati con il solo fine di spiazzare chi legge le risposte del governo e, soprattutto, usati per “non farsi intendere”.
Ma, nelle risposte ai quesiti posti dalla Corte EDU. Il Governo omette di riferire la circostanza più importante: all’esito dei vari gradi del procedimento penale, i Cavallotti sono stati ritenuti VITTIME della mafia.
Possono allora, le vittime della mafia essere considerate pericolose per la collettività e, in quanto tali, diventare vittime anche dello Stato?
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